Il Patto di Carlo Calenda

Di Dino Bertocco

Una proposta sincera e veritiera…. Ma non esiste un ‘trentennio perduto’ nella Storia! Le culture politiche del riformismo italiano vanno aggiornate, non ignorate.


Con il nuovo libro il Segretario di Azione completa il percorso di una tetralogia che conferma la sua verve di brillante saggista e ne rivela anche i vuoti di memoria e di consapevolezza critica su un trentennio che lui giudica ‘perduto’, ma nel quale i riformisti hanno combattuto con intelligenza ed onore in un contesto radicalmente mutato e disorientante, denso di sfide inedite e scenari sconosciuti.

Il ‘Patto’ quindi va letto ed interpretato per coglierne i contributi utili a riannodare ed irrobustire i fili del progetto liberaldemocratico, non ignorando però che essi debbono essere integrati dai contenuti programmatici, e dalla memoria delle tappe e dei protagonisti che hanno caratterizzato i tentativi di promuoverlo ed implementarlo sia nella governance del Paese che in quella europea.

Premessa

Presentando a Padova ed in giro per l’Italia la sua ultima pubblicazione, Carlo Calenda ha chiesto ai presenti di valutarla distinguendo il giudizio sulla personalità del saggista rispecchiata nei contenuti del libro da quello sul performer politico ovvero il leader di Azione.

Ho annotato con curiosità ed interesse tale sottolineatura perché mi ha confermato nel giudizio che ho maturato su di lui, sulla base di una lettura attenta delle sue tre precedenti fatiche letterarie nelle quali ha riversato sia le riflessioni maturate attraverso la sua decennale esperienza politica di civil servant e di leader che con una sofferta e rigorosa analisi dei profondi mutamenti geopolitici ed antropologico-culturali di un tempo vissuto intensamente da protagonista, con incarichi di governo e con un ‘apprendistato partitico’ che gli ha fatto riconoscere la complessità e le asprezze della crisi istituzionale ed economico-finanziaria del Paese e l’impreparazione sconfortante della sua classe dirigente nell’affrontarla.

E’ sicuramente la conoscenza e sperimentazione diretta dei limiti strutturali di cui soffre l’Italia che ha indotto Carlo Calenda ad integrare l’impegno di una generosa, convulsa e sofferta carriera politica post-manageriale, con uno sforzo ammirevole di indagine ed elaborazione riversate nella scrittura di saggi che dovrebbero essere letti, meditati e commentati come uno dei più ricchi e stimolanti contributi per l’interpretazione degli eventi degli ultimi decenni attraversati da un tumultuoso accavallarsi di vicende nell’ambito del quadro politico-partitico, dei processi produttivi ed economico-finanziari, delle fenomenologie sociali, delle relazioni e dei conflitti sul piano internazionale.

Non risulta per niente casuale quindi la sua richiesta di essere giudicato sulle cose scritte, quasi una captatio benevolentiae per mettere in sordina i rilievi e le critiche riservatigli da molti media ed esponenti del centrosinistra relativamente alle sue giravolte nell’esercizio della leadership politica ed in particolare, nel corso del 2023, per il rovinoso esito del Progetto di Terzo Polo di cui lui, in qualità di Presidente, esercitava una prestigiosa rappresentanza e l’impegnativo mandato di scardinare l’assetto bipopulista del quadro politico.

Una ambiziosa scommessa editoriale

La sua vera scommessa infatti, sin dal momento in cui ha dismesso i panni del Tecnico, al servizio e/o con l’intesa dei molteplici Segretari succedutisi alla guida del Pd (da Renzi a Letta) ed ha preso la decisione di assumere in prima persona la guida di un nuovo Movimento politico, aspirante senza ipocrisie e timidezze a candidarsi alla guida politica del Paese, è stata di riuscire a rompere il reticolo dei pregiudizi, il velo di ignoranza ed incomprensione e talvolta di esplicita antipatia che hanno incontrato i suoi messaggi e le sue performance istituzionali, decidendo di misurarsi apertamente sul campo della battaglia culturale, ‘offrendosi’ al giudizio dell’opinione pubblica e sfidando le pigrizie, le superficialità e la refrattarietà del giornalismo politico e dei media al confronto su idee-valori-progettualità piuttosto che sulla cronaca delle chiacchiere di giornata.

Ecco spiegato l’inusuale investimento editoriale in una tetralogia che ha accompagnato nell’ultimo quinquennio la gestazione e la promozione di Azione, lanciando una sfida d’altri tempi con la mobilitazione cognitiva sostenuta dall’uso delle armi dell’analisi, della critica allo stato di cose esistenti, della proposta programmatica ‘formulata seriamente’ sostenuta dal lavoro di un volenteroso Centro Studi, ed entrando consapevolmente in rotta di collisione con quell’establishment che in realtà lo aveva generato (sia per quanto attiene il profilo familiare che per le frequentazioni professionali-manageriali) e che lui ha progressivamente, esplicitamente ripudiato…

Si pensi solo al giudizio liquidatorio e motivato alla gestione della Confindustria in cui egli ha proficuamente operato (in qualità di Direttore dell’Area strategica e affari internazionali, su incarico di del Presidente Luca Cordero di Montezemolo, ruolo che conserverà dal 2004 al 2008) e che ha osservato essere progressivamente svilita da mediocri rappresentanze di vertice.

Ma il fulcro del suo irrituale e funambolico esercizio di contestazione è stato il rapporto ‘tribolato’ con il PD e la sua nomenclatura, caratterizzato da una ‘sprezzatura’ apparsa incoerente ed ingenerosa solo a chi non ha avuto modo di soffermarsi a verificare la paludosità e contradditorietà della strategia piddina, ovvero la torsione dall’originaria matrice liberaldemocratica e riformista alla prospettiva di un ‘campo largo’ avvolto nella nebbia di alleanze prive di una coerenza programmatica.

Se si dà uno sguardo al suo curriculum si può comprendere che l’atteggiamento ‘riottoso’ di Calenda è stato causato, oltre che da una personalità eterodossa, dalla consapevolezza che nel mercato delle vacche di un quadro politico inquinato dal linguaggio e dalle pratiche bipopuliste, il suo ‘discorso’ e la sua visione stavano evaporando nell’incomprensione, anzi nella sottovalutazione quando non nel dileggio del ‘pariolino’.

L’amichevole incomprensione di Ferrara ed altri

Basti pensare a ben due articoli che il suo compagno ed amico di ‘bevute di gin’ Giuliano Ferrara gli ha dedicato la primavera scorsa, nel pieno della querelle sul disfacimento del Terzo Polo: nel primo affermava con un misto di ironia e di consigli fraterni che “Sarebbe negli auspici un Calenda che partecipa al gioco nella sua vera dimensione, che strappa e ricuce, che si sporcifica un tanto e s’infarina, che s’infila e docet, che offre vere potenzialità e buone pratiche, mentre la moglie è in vacanza, senza soffrire troppo per la vera dimensione minoritaria, dunque eccelsa, del liberalesimo italiano. Un Calenda lamalfiano, ecco.

Il messaggio era: organizza un bel Club politico cazzuto, ma evita di arruffarti nelle beghe politico-partitiche (che non fanno per te)

Non pienamente soddisfatto del severo monito, il Fondatore del Foglio si peritava successivamente di tracciare causticamente un profilo nel quale risulta che “Calenda è il ritratto della persona a modo, irascibile spesso per buone ragioni, incline al ragionamento, alla pedagogia politica, al gin tonic con la società civile, ma sceglie i tempi e i modi dell’agire in quel modo razionalmente sconclusionato……

I suoi discorsi da manager della politica italiana sono evanescenti ma a loro modo aspirano al solido, galleggiano in un mare di incredulità eppure hanno o avrebbero un senso compiuto nel mondo arabescato e nel teatrino della politica. Calenda è tradito da un fondo di moralismo valdese, dalla pretesa di competenza che non ha il risvolto dell’aggressività di manovra, del sentimento epidermico del momento, del che cosa si possa e non si possa fare con le buone progettualità. Che la politica italiana non riesca minimamente a fare i conti con lui, a assorbirlo come personaggio e leader, è un suo problema, e anche un problema della politica”.

‘Fare i conti con lui’ è diventato davvero un problema politico arduo, soprattutto per coloro che in questi anni ne hanno osservato sorpresi e sospettosi il dito impertinente e giudicante e non hanno ritenuto meritevole di attenzione la luna delle sue diagnosi e dei suoi allarmi contenuti in quattro saggi che costituiscono un unicum per quanto attiene il grado di profondità analitica ed onestà intellettuale con cui i leader della sua generazione hanno presentato all’elettorato ed all’opinione pubblica la propria visione del mondo ed i correlati intendimenti programmatici.

In parte tale atteggiamento nei suoi confronti è stato condizionato dall’approccio che l’autore del Patto ha così descritto: “Ora capite che per un repubblicano (dunque non immediatamente collocabile a destra e a sinistra), piuttosto antipatico, un poco supponente, fuori forma, questa suona come una condanna a morte!” (pag. 42).

La sindrome di Bud Spencer

In un’intervista molto schietta, con domande e risposte senza rete, rilasciata a Pietro Senaldi (Libero, 6 maggio 2023) troviamo un’interessante chiave interpretativa di personalità sicuramente anomala “A me piace Bud Spencer, perché è simpatico ma mena” esordisce Calenda. – Perché, mi scusi, lei sarebbe simpatico? – replica il giornalista. “Non è questo il punto. Io preferisco la serietà, anche se vedo che la politica ormai è una sorta di Grande Fratello, dove spesso la gente sembra non guardare più alle competenze ma vota in base alla simpatia. Colpa della mancanza del senso d’appartenenza, gli italiani non vivono lo Stato come una cosa loro e sono convinti che nulla cambi, indipendentemente da chi votano”, la risposta.

In realtà, al netto dei criteri superficiali e mutevoli con cui i numerosi protagonisti della vita politica negli ultimi lustri sono stati giudicati e ‘pesati’ in termini di reputazione e consenso, il fattore determinante nella valutazione della personalità del Segretario di Azione intesa, come caratterialità e soggettività politica, è stato la sua rivendicazione (esternata sia con spocchiosità, ma anche con ottime ed argomentate ragioni) di differenziazione e discontinuità rispetto ad una classe dirigente considerata incapace, culturalmente disonesta ed inadeguata per le sfide che egli ha illustrato puntigliosamente nella sua prima pubblicazione, ‘Orizzonti selvaggi’.

A scorrere le pagine di quel saggio, e di quelli che sono succeduti, i ceffoni di Bud Spencer non risparmiano davvero nessuno, se si esclude la comprensibile (e condivisibile) ammirazione tributata a Mario Draghi.

Dalle annotazioni critiche sui limiti strategici della Terza Via di Bill Clinton e Tony Blair alla puntigliosa ed obiettiva elencazione (ne ‘I Mostri’) dei virus di un’Italia malata “Siamo un paese vecchio, piccolo, sconfitto ed ignorante”, fino alla dolorosa denuncia (ne ‘La libertà che non libera’) di un Occidente disorientato e senz’anima, ci si trova di fronte ad un cahiers de dolèances che ben pochi in Italia sono stati e sono disponibili ad assumere come piattaforma per un dibattito pubblico.

La banale ragione di questa ‘diffidenza’ è che nei suoi testi si è percepito piuttosto il messaggio bartaliano “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare” che la generosa e trasparente proposta (quale in effetti è) di sottoporre ad una interpretazione critica gli errori, le ingenuità e la contradditorietà della visione e delle scelte con cui le Forze sociali e partitiche del ‘progressismo’ hanno affrontato le sfide della globalizzazione e del mutamento dei valori e delle regole d’ingaggio della rappresentanza democratica.

I limiti della perimetrazione storiografica

A rendere ancor più difficile il dialogo sui temi e sui nodi cruciali posti nei saggi è stata sicuramente quella che, per usare un eufemismo, chiamerò la ‘perimetrazione storiografica’ del campo di ispirazione e di appartenenza identificato dall’autore.
Leggiamo le sue parole nell’illustrare il progetto di ‘In Azione: il liberalismo sociale per costruire una democrazia progressista’: “Esistono due tradizioni in Italia che hanno per prime cercato di opporsi agli scontri ideologici, per costruire un’agenda politica trasversale che contenesse elementi del liberalismo e del socialismo: il Partito d’Azione e il Partito popolare di don Sturzo”.

Non intendo qui inoltrarmi nell’affascinante querelle che tale affermazione può suscitare, bensì, molto prosaicamente rilevare che si può ben comprendere la recalcitranza, quando non la manifesta ostilità, a farsi ignorare – per non dire cancellare – da parte della estesa platea di protagonisti che nella contemporaneità e non nella dimensione retrotopica evocata da Calenda, hanno testimoniato con valore, concretezza ed efficacia dei risultati, il liberalismo sociale nell’aspra contesa politica degli ultimi decenni.

Basti uno solo, tra i tanti esempi che potrei portare, quello per me più emblematico perché evidenzia un episodio verificatosi nel ‘saloon delle incomprensioni e degli schiaffi’, significativo non solo per la virulenza dell’aspro scambio di insulti nel quale ad un Claudio Martelli che senza acrimonia ironizzava sull’ “Ercolino faccio tutto ioCarlo Calenda replicava con malcelata perfidia dandogli del ‘tappeto Kilim’ ovvero di totale subalternità all’Ercole Bettino Craxi nella stagione in cui il PSI “dopo aver fatto cose buone combinava un disastro etico”, ma soprattutto perché ha fatto emergere una dolorosa e perniciosa dissonanza cognitiva.

Dirò di più, anzi molto di più: se un  leader socialista che al netto del pegno giudiziario pagato e del giudizio morale subito per la vicenda del finanziamento illecito ai partiti, è stato promotore del riformismo ‘del merito e del bisogno’ oltre che Ministro della Giustizia (‘91/’93) della svolta storica della lotta alla mafia con Giovanni Falcone, ed un aspirante leader che afferma convintamente di volersi ispirare ai valori del  liberalsocialismo, litigano perché non si riconoscono il diritto-dovere di avviare un dialogo-confronto, se non amichevole almeno storiografico sulle rispettive visioni, significa che siamo di fronte  ad una sciagurata frattura generazionale nella famiglia allargata e stratificata dei riformisti italiani.

E si tratta di un’ulteriore divisione che va a sommarsi a quella provocata dalle ‘dissonanze cognitive’ sulla concezione della ‘rottamazione’ che hanno avuto per protagonista un altro aspirante leader contemporaneo del riformismo, quel Matteo Renzi – già partner  vivace ed ingombrante nel Terzo Polo – più vittima designata che suicida dell’attività demolitoria congiunta degli abili-inaffidabili ex comunisti (vedi in proposito il ‘diario archeopolitico’ di Claudio Velardi che ricostruisce i prodromi dello scontro mortifero tra il giovane rottamatore e la vecchia guardia) e della Magistratura deviante dal solco istituzionale.

Limiti e contraddizioni dell’approccio autobiografico

Sono ricorso alla citazione  di quell’episodio per introdurre alcune  considerazioni critiche sull’ultima fatica letteraria del Segretario di Azione perché l’autore  parla esplicitamente e con enfasi di un libro autobiografico: ora io ritengo che anche nei suoi precedenti saggi  fosse riversato un forte carico emotivo personale e vi fossero annotate scrupolosamente ed emergessero in modo trasparente il percorso cognitivo ed esperienziale di un decennio  vissuto con “la piena consapevolezza che non c’è una battaglia più bella da combattere o un altro lavoro che vorrei fare” (il Patto, pag. 201).

Però in quest’ultimo erompono una insopprimibile vena caustica ed un  linguaggio polemico senza veli ed argini,  che assumono  il rilievo di una confessione in pubblico,  rivolta ai cittadini-elettori chiamati ripetutamente in causa come spettatori e giudici.

E dentro i venti brevi capitoli scritti con un godibile stile giornalistico, scorrono molti sentimenti: sincerità, sorpresa, dolore, sconcerto, indignazione, risolutezza… che comportano anche un certo grado di sfocatura nell’interpretazione della realtà politica esaminata.

Ritengo infatti disorientante ed inappropriato sottotitolare ‘Il Patto’ “Oltre il trentennio perduto” perché induce ad oscurare e sottovalutare  il rilievo storico di eventi, fattori e vettori di trasformazione, fenomenologie sociali, singole personalità e soggetti collettivi politici, che hanno attraversato un periodo tumultuoso che non ci lascia solo macerie, ma anche una molteplicità di segnali di pericolo persistenti da tenere sotto controllo, di asset dal valore e dalla funzione permanenti, di risorse- infrastrutture-scelte strategiche consolidate,  di laboratori esperienziali, insomma di indicazioni fondamentali per la co-progettazione del Patto e  sulle Forze che lo possono condividere, sulle metodologie per renderlo  popolare ed operabile.

Riassumo pertanto in otto punti le osservazioni critiche che sono generate dalla volontà di una più profonda comprensione e condivisione della ‘proposta di lavoro politico’ calendiana.

Otto punti

  1. Innanzitutto è propedeutico ed ineludibile il dovere di fare i conti con la rivoluzione antropologico-culturale che giusto trent’anni fa ha conosciuto non tanto l’inizio bensì l’acme, con il cambio storico dell’agenda politica nazionale attuato da Silvio Berlusconi, con l’introduzione e l’affermazione egemonica sia di un nuovo paradigma della comunicazione politica che delle tecniche di selezione delle nuove generazioni di leader e rappresentanti politici a tutti i livelli. Non si tratta di un’osservazione con lo sguardo rivolto al passato, tutt’altro: è tutta dentro il presente che può essere riassunto con una battuta che (lo prevedo, accettando scommesse), sicuramente diventerà il claim delle manifestazioni di Forza Italia per ricordarne i trent’anni dalla discesa in campo:  “Silvio è vivo e lotta insieme a noi”!

    Senza  soffermarmi sui dettagli di carattere  politologico, segnalo che a tutt’oggi l’affermazione politica di Giorgia Meloni e la sua presa sul Centrodestra costituiscono  la prosecuzione e per certi versi la tappa conclusiva di una visione e di una subcultura insediatesi nel Paese con l’adozione  di un nuovo linguaggio ed una inedita politica delle alleanze, suffragata dall’adozione di una neolingua della contrapposizione ideologica fatta penetrare  nelle viscere dell’elettorato e destinata a diventare il campo di battaglia privilegiato per ingabbiare il futuro  in un sistema rigido bipartito orientato a privilegiare la faziosità sulla elaborazione programmatica, il bipolarismo militarizzato piuttosto che la dialettica democratica sui contenuti della governance, la propensione alla reciproca prevaricazione con la conseguente alterazione delle regole del gioco che ha prodotto un uso spudorato dello spoil system continuato fino ai giorni nostri  (come ha denunciato Sabino Cassese sul Corriere nei giorni scorsi, pratica ora legittimata e ‘beatificata’ in virtù della battaglia per la contro-egemonia culturale.

    La deriva cosiddetta populista trascinata dal linguaggio e dalla postura accattivanti  fu intuita e segnalata dagli interventi solitari di Norberto Bobbio, che meriterebbero di essere riletti e meditati oggi,  ed è stata analizzata con una notevole perspicacia scientifica da Domenico Panarari  e da Alberto Abruzzese, il quale  ha sottolineato che “La vicenda personale di Berlusconi attraversa la storia italiana nella sua totalità e si presta più di ogni altra a costituire l’epifenomeno e il pre-testo, la parte attraverso la quale ripensare il “tutto”. Attraverso il Cavaliere avviene il passaggio dalla politica-spettacolo alla politicizzazione dello spettacolo, dai media come oggetto ai media come soggetto del potere” in una pubblicazione che  costituisce un tentativo di delineare la fenomenologia del berlusconismo all’interno di una prospettiva scientifica socio-mediologica e al di là di posizioni ideologico-politiche.

    Ma per comprendere la permanenza dell’inquinamento del linguaggio politico segnalo l’articolo di Giuseppe Antonelli  La lingua dell’odio in LA LETTURA (inserto culturale del Corriere della Sera) del  14 gennaio 2024).

    Inoltre, una sintesi pregnante ed illuminante dell’impatto della ‘discesa in campo’ di Silvio Berlusconi, molto efficace ai fini della riflessione sviluppata in queste pagine, è quella – fresca di giornata – che Claudio Velardi ha postato nei suoi social:

    “Con la mossa del cavallo del 26 gennaio 1994, Silvio Berlusconi irruppe nella politica italiana e la mise sotto scacco. Ma prima di tutto mandò in tilt il sistema della comunicazione, cui diede da sgranocchiare un osso di dimensioni gigantesche di cui i media si sono nutriti abbondantemente, perdendo di vista la natura del suo capolavoro, che fu appunto un capolavoro politico.
    Nel tranello ci siamo caduti tutti, per 30 anni, riempiendo intere emeroteche e biblioteche. C’è voluto l’ottimo Gasparotti, cameraman di fiducia, a svelare oggi che non ci fu nessuna calza dietro l’effetto magico della videocassetta autoprodotta in quel fatidico 26 gennaio, e ci vorrebbe un lavoro ad hoc di ricostruzione di tutte le occasioni (praticamente quotidiane) in cui Berlusconi ha dato da mordere ai suoi avversari l’osso comunicativo, nel mentre portava avanti sostanziali operazioni politiche (naturalmente riuscite oppure no, ma questo è un altro discorso).
    Ribadito l’ovvio – ossia che l’uomo maneggiava la comunicazione alla grandissima e che per la prima volta in Italia rese possibile l’incontro tra le logiche della politica e le leggi del marketing – è dunque sulla sua politica che andrebbe, ancora oggi, concentrata l’attenzione. Almeno per due motivi generali.
    Il primo è che – ancora nel pieno della stagione di Mani Pulite, con un sistema politico ridotto a pezzi – Berlusconi intuisce che si può costruire dal niente un partito nuovo e una coalizione inedita per vincere le elezioni e governare. Nessuno ci crede quando lo propone, i suoi più stretti collaboratori lo invitano alla prudenza ma lui, con l’intuito del grande leader, procede contro tutto e tutti e in pochi mesi sbaraglia gli avversari. Si dirà che gli avversari fanno ogni errore possibile per spianargli la strada, ma resta l’operazione di enorme valore. Se oggi il centrodestra governa l’Italia, è (quasi solo) per quella sua illuminazione iniziale: questo è il suo merito storico.
    Il secondo motivo di riflessione riguarda quello in cui Berlusconi ha fallito. La genialità della discesa in campo avrebbe dovuto sorreggere – nelle sue intenzioni – la rivoluzione liberale in Italia. Che non è stata realizzata e neppure avviata. Forse per ragioni intrinseche alla storia di questo paese, certamente per limiti politici e culturali della destra, che per certi aspetti si è rivelata più statalista della sinistra. Il bilancio del trentennio berlusconiano risulta così strabico e paradossale: abbiamo una destra di governo (e questo è un bene) che però – ancora oggi – non è in grado di fare le politiche liberali e di mercato che pure dovrebbero essere nel suo patrimonio genetico.
    Ecco perché – in conclusione – a tutti conviene baloccarsi con la memoria di Berlusconi solo come grande comunicatore. Per non fare i conti con le sue politiche. Non lo fa la sinistra, che dovrebbe ammettere di essere stata sbaragliata perché incapace di conquistare, in una fase di grande vuoto politico, la simpatia e il voto dei moderati: un tema ancora irrisolto, a 30 anni dal 1994. Non lo fa la destra, che non ha il coraggio di affrontare – da destra – l’enorme tema della modernizzazione del paese (e cioè mercato, merito, etc…), che Berlusconi declamò all’inizio della sua avventura ma non ebbe la capacità di inverare”.

  1. Si pone a questo punto l’esigenza di rileggere criticamente l’intero excursus trentennale dell’evoluzione della comunicazione politica: bisogna infatti riconoscere che Silvio Berlusconi l’ha innovata profondamente potendo vantare non solo  notevoli  abilità  e carisma personali, ma soprattutto sul potere e sulla competenza imprenditoriale consentitagli dalla proprietà monopolistica dei mezzi di comunicazione. E’ necessario altresì comprendere che il suo format ed i suoi plot narrativi fondati sulla televisione sono stati nel tempo surclassati dall’irruzione delle tecnologie digitali e dall’affermazione dei socialnetwork e delle piattaforme che hanno determinato un  processo esplosivo di autoproduzione dell’informazione e della comunicazione che non hanno però   modificato  la semantica e la sintassi dei linguaggi impoveriti e finalizzati allo storytelling ed alla valorizzazione dei ‘performer’, ovvero di una nuova generazione di leader addestrati a sintonizzarsi con l’elettorato e con l’opinione pubblica attraverso la scaltrezza, la simpatia, e soprattutto l’uso di massicce dosi di interazione diretta, di dialogo disintermediato, con l’effetto regressivo dell’esasperazione della personalizzazione e del contestuale svuotamento di significanza e funzione operativa delle forme-Partito ed a seguire dei valori e contenuti dell’azione politica

  1. Un secondo ‘equivoco interpretativo’ del trentennio è quello che riguarda la svolta fondamentale nella storia del Paese  e che non può essere oscurata all’interno di un giudizio liquidatorio sulla periodizzazione  che giornalisticamente definiamo Seconda Repubblica, ovvero il  ‘miracolo del 97’ che ebbe per attori protagonisti Romano Prodi ed Azeglio Ciampi,  la cui determinazione fu decisiva per far entrare l’Italia nella moneta unica, con effetti strutturali permanenti sulla stabilizzazione finanziaria e, purtroppo, anche sulla manipolazione dell’opinione pubblica da parte di un ceto politico in gran parte ignaro ed inconsapevole della trasformazione socioeconomica, istituzionale e delle regole di mercato che si rendeva necessaria per ottimizzare l’euro ed usato quasi esclusivamente per allargare i cordoni  della spesa pubblica senza eccessive preoccupazioni per i contraccolpi sul piano finanziario internazionale.

  1. E’ stata proprio l’ignavia dei governi che si sono avvicendati dopo il 2001 a depotenziare i benefici per la crescita ed il bilancio pubblico che avrebbe potuto-dovuto procurare la nuova moneta, trasformata invece in una sorta di metadone per un Paese drogato dal populismo della spesa facile e dall’aggiramento dei vincoli dell’efficienza, della  produttività e della competitività. Tale considerazione è naturalmente suffragata da tutti i dati econometrici e  finanziari  e rendono del tutto fuorviante la tesi sostenuta nel Patto laddove si afferma che “Gli elettori di destra e di sinistra hanno sicuramente una cosa in comune in questo paese: non hanno ottenuto assolutamente nulla di ciò che chiedevano” (pag 27).

    Nella realtà dei fatti i cittadini italiani, attraverso la rappresentanza democratica affidata ai Governi di Centrodestra e Centrosinistra, hanno realizzato un tradeoff  soddisfacente: il consenso alternato ai due schieramenti partitici ha infatti alimentato una contrapposizione  che si è tradotta in un linguaggio fazioso inteso ed usato per mascherare un’infinita sequela di provvedimenti tesi a soddisfare ogni sorta di appetiti elettoral-corporativi.

    Sicchè l’alibi berlusconiano di dover ‘contrastare i comunisti’ e quello della sinistra di dover ‘combattere il famelico caimano’ hanno provocato l’assalto alla Finanza pubblica e lo slittamento di molte scelte fondamentali per lo sviluppo del Paese ma che si sarebbero rivelate rischiose per il consenso. Tutto ciò per suggerire che il messaggio di una comunicazione politica maggiormente veritiera ed efficace  deve essere orientato a demistificare il carattere illusorio dei risultati delle politiche clientelari, dissipative, rinunciatarie, ed essere invece focalizzato sulla concretezza ed efficacia delle scelte e dei programmi riformatori che privilegiano gli obiettivi concreti seppur parziali, l’implementazione invece che la declamazione, il rigore analitico invece che la partigianeria. Tutto ciò, a dire il vero, è ottimamente spiegato nel libro ed in particolare nella parte di esso dedicata  alla presentazione dei contenuti programmatici del Patto.

  1. Da quanto sinora osservato è chiaro che riteniamo poco plausibile l’uso della metafora del Figth Club (che è una location per lottatori veri) per descrivere la litigiosità e gli scontri tra gli schieramenti politici i quali,  per diventare ‘attrattivi’ e convincenti presso le proprie tifoserie, hanno assunto atteggiamenti ed adottato linguaggi con il lancio di accuse reciproche grottesche così come sarcasticamente illustrate in un post di Sergio Pizzolante su Facebook  : ‘Fascisti e comunisti’.

    E’ molto più verosimile  associare certi ‘spettacoli parlamentari’ e certi scontri dialettici al  Bagaglino.Per dire che ci troviamo piuttosto di fronte ad una aggiornata messa in scena della Compagnia di varietà del Bagaglino, con una sterminata platea di recitanti che provocano il sorriso quando non l’irritazione.

Fascisti e comunisti

Il dibattito è tornato ad essere fra fascismo e comunismo.
Accuse di fascismo, accuse di comunismo.
Fiumi di parole.
Con i letti dei fiumi a secco.
Quando andavo al Liceo mi sentivo un po’ fuori luogo, lo scontro era fra fascisti e comunisti, solo. Anni 70.
Io mi dichiaravo socialista e tutti mi guardavano strano. Che sarà mai?
Lotta, sciopero, assemblee permanenti, studenti che si sostituivano ai professori, per le lezioni autogestite, la cultura e’ mia e me la gestisco io.
Botte, botte da orbi, via i fascisti dalla scuola, i cattolici più integralisti al bando. Via anche quelli. La scuola, la vita, le piazze, i bar, erano per la lotta comunista. E poi c’erano le reazioni fasciste, nelle scuole, nelle piazze e nei bar.
Era una sorta di “Grande Fratello” della politica fra ragazzi.
Ogni cosa era buona  per non combinare niente, per non andare a scuola, per far sciopero, per la libidine di sostituire i professori in cattedra, per far prevalere la propria ignoranza, uno vale uno, Russia for ever, un anticipo di grillismo insomma, misto allo schleinismo, parole che viaggiavano nel vento, diritte verso il nulla.
Mentre i picchiatori fascisti menavano, facevano quello che sapevano fare meglio, e spesso le prendevano, però, perché “ammazzare un fascista non è reato…”.
Per fortuna fuori da questa grande stanza del Grande Fratello di allora, c’erano i democristiani, i socialisti, i liberali, i repubblicani, i radicali, che portavano gli italiani fuori dalla miseria, fra i paesi più industrializzati del mondo, fra quelli più civili, con più diritti civili, saldamente in Europa e in Occidente.
Bene.  Siamo tornati lì. Mi pare.
Solo che fuori dalla stanza non ci sono più i democristiani, i socialisti, i repubblicani, i liberali, i radicali.
Solo che quella stanza è diventata il Parlamento, una assemblea non più permanente.
Solo che le minchiate di allora si dicono non fuori dai partiti, ma dentro i partiti, se così vogliamo ancora chiamarli.
Solo che quegli studenti nullafacenti sono davvero in cattedra.
Solo che l’ignoranza e’ diventata un valore.Solo che quelli che erano contro il potere, sono al potere.
Non proprio loro, ma i figli, i figli dei figli.
I “figli dei fiori”, senza nemmeno il profumo dei fiori.
E i reietti di allora, che godono, godono, perché allora le prendevano.
Adesso le danno.

In realtà il saggio di Carlo Calenda risulta uno straordinario reportage sia da ‘dietro le quinte’ che da protagonista sul  palco, quando la scrittura diventa cronaca o l’approccio autobiografico ci rivela fatti, commenti e giudizi che già dalla titolazione dei capitoli tratteggiano un quadro che oscilla tra l’esilarante e lo sconfortante.

I testi sono brevi e ne consiglio vivamente la lettura perché vi emergono proprio quei particolari (parafrasando Francesco De Gregori) che descrivono veramente il giocatore, cioè l’autore. Soprattutto rivelano le ragioni più verosimili e le dinamiche più veritiere di vicende politiche che il giornalismo, i talk ed i social hanno teso a ‘gonfiare’ senza pudore.

  • La rottura del Terzo Polo? Per una questione di mobbing.
  • Calenda non va d’accordo con nessuno? Per forza, non fa il ruffiano.
  • Carlo stima molto l’intelligenza di  Matteo, ma ne disprezza la furbizia?  Inevitabile tra un borghese ed un piccolo borghese.
  • Azione non decolla elettoralmente? Comprensibile con “La fuga degli imprenditori da qualsiasi partecipazione alla vita pubblica”.
  • Idiosincrasia nei confronti del PD? In gran parte creata  dalla Repubblica di John Elkann ……

Ma su molte questioni nel  libro trovate sciorinate anche  verità rivelate con un linguaggio ironico e spesso abrasivo laddove ‘Carlo cuor di leone’ non teme di incrementare il livello di antipatia nei suoi confronti esprimendo il suo sdegno sui “rivoluzionari a parole, conservatori nei fatti”, sulla RAI che “è insalvabile”, sul patetico equivoco tra egemonia ed egomania, sul macigno che la democrazia binaria italiana deve rimuovere (l’estremizzazione faziosa delle opinioni) con “un lungo processo educativo”, sull’interpretazione farsesca del federalismo da parte degli aspiranti dogi, duchi, signori feudali.


  1. … e poi il testo presenta una molteplicità di toni ed espressioni che non ci hanno convinto per niente, in alcuni casi verosimilmente generati da un pessimismo della ragione, in altri da deficit cognitivi e/o interpretativi che dovrebbero suggerire ad un importante  leader nazionale maggiore prudenza, una circospezione argomentativa appropriata per questioni che hanno un rilievo decisivo per una strategia di comunicazione che miri a provocare consapevolezza critica, non reazioni polemiche e misunderstanding forieri di inevitabili impedimenti al confronto.

    Come si fa a parlare di ‘ipersindacalizzazione’ nei due decenni settanta/ottanta quando furono  proprio la solidissima struttura organizzativa, l’amplissima  rappresentanza  associativa e la capacità contrattuale e concertativa delle Organizzazioni Confederali a sorreggere le sorti sociali e politico-istituzionali del  Paese sia con il sostegno al processo riformatore che con la tenuta dell’assetto democratico minacciato dal terrorismo rosso e dalle trame nere.

    Ancora: come si fa a scrivere “Ma perché siamo convinti che nessuno potrà mai mettere a posto i servizi pubblici. In questo caso siamo davvero fascisti, pensiamo come Benito Mussolini che “governare gli italiani non è impossibile, è inutile””. In questo caso è  il cittadino romano Calenda che parla, nauseato dello stato comatoso della sua città, ma un ex Ministro ed ora Segretario nazionale di Partito non dovrebbe, come si suol dire ‘ fare di tutta la PA un fascio’!

    Ed inoltre, nella illustrazione dei ‘Quattro Pilastri del Patto’, ci si aspetta che l’aspirante leader del Polo Liberaldemocratico riservi  uno spazio più ampio ed un’enfasi più robusta  alla questione’ iperistituzionale’ della Giustizia, sia con una riflessione più attenta sul piano storico all’impatto devastante e distorcente che ha avuto ‘Mani pulite’ sul ‘trentennio perduto’ del sistema  politico nazionale, sia con la focalizzazione delle aberrazioni a cui  ha dato vita  l’iniziativa fuori dai binari istituzionali  della Magistratura evidenziate in modo clamoroso e debordante  dalle inchieste che hanno colpito in modo fraudolento Matteo Renzi e la sua famiglia e le cui conseguenze sono state letali non solo per la carriera dell’ex Presidente del Consiglio, ma soprattutto per l’affermazione,  la legittimazione e la credibilità della  cultura riformista e liberaldemocratica.

  1. Sono anche altri gli ‘scivolamenti linguistici’ e le esasperazioni polemiche sui ritardi storici del Paese, di cui si sottovalutano gli handicap strutturali e la complessità delle mediazioni politico-culturali necessarie per salvaguardarne la coesione territoriale e preservarne la ‘salute repubblicana’ che sta tanto a cuore all’autore, il quale – in ogni caso – con il Patto offre una Piattaforma preziosa per una mobilitazione cognitiva eticamente ispirata ed una sferzata di energia per sollecitare l’intero ceto politico a liberarsi della propensione al chiacchiericcio e focalizzarsi invece sull’essenziale identificato in modo molto convincente nei quattro pilastri programmatici illustrati nella parte conclusiva del libro.

    Ed è  proprio alla luce del notevole sforzo di elaborazione contenuta nei saggi della tetralogia e del suo impatto sul ruolo e sulla funzione storica assegnata ad Azione, che è necessario suscitare una riflessione su quali possano essere la struttura organizzativa ed il modello di partecipazione democratica più corrispondenti per un Partito che voglia testimoniare nel Paese una presenza attiva e coinvolgente, con la funzione di  booster per l’aggregazione della cittadinanza oggi assente nell’agone politico e per l’attrazione dell’elettorato progressivamente astenuto nelle scadenze elettorali.

  1. Insomma,  ci vuole molto di più dello storytelling di un leader vivace e generoso, perché anche un performer dotato di acume ed intelligenza degli avvenimenti con cui è impegnato a fare i conti, deve acquisire la consapevolezza che il proprio messaggio politico può diventare incisivo solo attraverso una divulgazione supportata dal radicamento organizzativo territoriale realizzato con  una presenza dinamica, attrezzata per la connessione sentimentale e digitale delle persone, per  intercettare  le domande sociali e coinvolgere le  competenze tecnico-politiche necessarie  per tradurle in rappresentanza e risposte efficaci a tutti i livelli.

    In tutta sincerità, è giusto ricordare che le pagine della tetralogia sono una lettura piacevole, arricchente per il pensiero, confortante per lo spirito: i temi affrontati, le analisi e le argomentazioni che li illustrano sono in grande parte condivisibili.

    Ma vi si riscontrano anche cesure e cancellature storiche, nelle quali sono ‘inabissati’ le lotte tra i reali  poteri ed i  protagonisti effettivi della cultura riformista nel nostro Paese, incomprensibili ed inaccettabili.

    Se ti proponi  di diventare il leader propugnatore di una nuova stagione riformatrice, nella tua mente devi fissare tappe e personaggi che hanno calpestato il terreno della storia, ragion per cui se citi il Popolarismo di don Sturzo non puoi dimenticarti del Socialismo di Turati, ma soprattutto – per arrivare alla contemporaneità – è davvero superficiale e fuorviante segnalare il carattere fondativo dell’azionismo,  che ha rappresentato un’esperienza culturalmente elitaria e politicamente virtuale,  ed ignorare le lezioni e le realizzazioni basilari, imprenscindibili del Primo Centrosinistra con riforme che hanno ‘messo a terra’  le promesse della Prima parte della Costituzione.

    Inoltrandoci poi nel  periodo nel quale la crisi morale ed economico-finanziaria del Paese, aggravata dalle sanguinolenti aggressioni delle stragi neofasciste e del terrorismo rosso, hanno inibito l’attuazione di politiche espansive e messo alla prova i leader riformisti chiamati prevalentemente a salvaguardarne l’assetto democratico-istituzionale con strategie antinflattive, sicuramente non popolari, non possiamo ignorare scelte coraggiose  risultate decisive per la tenuta del sistema-Italia  (leggi in particolare la scelta del Governo Craxi di sterilizzare la scala mobile e quella già ricordata della coppia Prodi & Ciampi per far accettare l’entrata dell’Italia nella zona euro).

    Insomma risulta sconcertante che nella affannosa ricerca di numi tutelari e valori ispiratori del ‘Patto Repubblicano’,  mentre nel Capitolo settimo (Le virtù dei romani: un’esperienza personale di radicamento) del libro ‘La libertà che non libera’,  Calenda  voglia provare a “raccontarci la sua personale connessione con un particolare periodo storico: l’antica Roma repubblicana. Da questo radicamento nasce la considerazione della politica come massima espressione dell’azione umana e per conseguenza la scelta di impegnarsi in essa”,  dimostri di non saper o voler riconoscere il contributo di elaborazioni, sensibilità e concretizzazioni nell’attività politico-istituzionale  di una vasta platea di generosi ed operosi rappresentanti del pensiero  riformista, espressione dei valori etici e della cultura cattolico-democratica, socialista, socialcristiana.

    C’è inoltre da aggiungere che, come abbiamo ricordato al precedente  punto 6,  è necessario rendere più esplicita e stringente l’analisi sulla funzione esercitata da Mani Pulite, sui poteri esorbitanti  della Magistratura, sull’azione  delle Procure e delle correnti politiche della magistratura in particolare che – come acclarato nella ignominiosa ‘vicenda Palamara’ – sono diventate un potere distorcente la dialettica democratica. Un leader liberaldemocratico deve dimostrare sintonia ed  onestà intellettuale su questo tema, al pari di Sabino  Cassese ed Angelo  Panebianco che perseverano nella denuncia  del crescente squilibrio democratico-istituzionale nei rapporti tra Politica e Magistratura e dei sui effetti devastanti nella malagestione della Giustizia.

Considerazioni conclusive

A fronte di tali rilievi critici ed a conclusione di questo sommario lavoro di interpretazione del pensiero politico di Carlo Calenda, ritengo utile  integrare la riflessione sin qui formulata con link e testi che costituiscono  la prosecuzione dell’analisi  nella forma di   recensioni ai suoi libri  e di articoli e documenti,  del sottoscritto e di   alcuni colleghi, focalizzati sui temi e sulle questioni cruciali da lui esaminate ed inoltre sugli interrogativi che i saggi sollevano e lasciano aperti.

Segnalo in particolare i contributi che si sforzano di  indicare  scelte operative per promuovere l’aggregazione ed il coinvolgimento attivo delle forze sociali, culturali e politiche che condividono l’esigenza di un’agenda unitaria per il rilancio del progetto liberaldemocratico:

  • esame delle questioni decisive della digitalizzazione del  linguaggio e delle pratiche della cittadinanza attiva (Demotopia);
  • indagine della letteratura più recente sui temi cruciali della globalizzazione, della crisi identitaria dell’Occidente, del declino della Democrazia, per la elaborazione di un nuovo Sillabario Liberaldemocratico;
  • elaborazione di un Manifesto per orientare la costruzione del Polo Liberaldemocratico;
  • stesura di una Lettera aperta a Matteo Renzi e Carlo Calenda per indurli a salvaguardare il valore della scelta strategica, premiata dagli elettori, del Terzo Polo, la cui dissoluzione è in tutta evidenza inaccettabile ed indigeribile dagli oltre due milioni di cittadini che ne hanno sostenuto con il voto il Progetto;
  • indicazione dei caratteri antropologico-culturali di un progetto liberaldemocratico con al centro i valori del Civismo, del Popolarismo e della Sussidiarietà.

Recensioni dei libri di Carlo Calenda

Federico Quadrelli Orizzonti Selvaggi
Ho letto il libro di Carlo Calenda con molto interesse e con un approccio volutamente prevenuto. Mi sono detto che dovevano esserci veramente buoni argomenti per farmi cambiare idea. E contro il mio scetticismo e la mia diffidenza nei confronti di chi, spesso, dice cosa che non condivido, oggi mi trovo a dire che ho fatto bene a leggere questo libro. Che è stata una piacevole lettura e sorpresa.

Guia Soncini I Mostri
Fenomenologia di Carlo Calenda, l’isterico di buona famiglia che spesso dice la cosa giusta

Sergio Belardinelli La libertà che non libera
Il liberalismo senza libertà individuale di Calenda lascia l’amaro in bocca

Carmelo Palma  Il Patto
Il patto di Calenda, l’oblio della politica e la ricostruzione della sfera pubblica

Francesco CundariIl Patto
Bipopulismo perfetto. Calenda prova a fare uscire l’Italia dalla fase della negazione.  Nel suo libro, “Il Patto” (La Nave di Teseo), il leader di Azione dice la verità sul fallimento di questi trent’anni di Seconda Repubblica e propone una ragionevole exit strategy: proporzionale, costituente, sistema tedesco. Bravo!

Documentazione  per l’approfondimento dei temi e delle questioni affrontate nei saggi di Carlo Calenda

Forum su Bene Lavoro
Viviamo un tempo di straordinaria abbondanza del bene lavoro, generato dall’energia
sociale ed imprenditiva di un numero immenso di donne ed uomini che vi riversano fatica,
creatività, generosità, intelligenza-ricerca-innovazione, visione-progettazione-condivisione
dei processi organizzativi e tecnologici necessari per renderlo produttivo, sostenibile,
efficiente e gratificante
.

Progetto Demotopia
Dall’Agorà democratica alla Blogosfera (e viceversa) Il tortuoso cammino della Democrazia rappresentativa nel 21° secolo.

Politica è un pensiero condiviso
(non il vociare della comunicazione di opinioni).

Manifesto – Hanno chiuso il Lingotto, apriamo l’Arsenale!
Parte dal Veneto l’alternativa liberaldemocratica alla Destra parassitaria ed al chiacchierificio dell’assistenzialismo clientelare.

Una mobilitazione cognitivo-associativa per il nuovo Partito Liberaldemocratico
Lettera aperta ai Presidenti di Italia Viva e Azione.

Il risveglio dell’Europa: rischi ed opportunità tra visione geopolitica pragmatica e ideologia
Il recente viaggio del Presidente Francese in Cina ha fornito un’ennesima occasione di aprire gli occhi su quanto l’Europa sia rapidamente tenuta a fare per non perdere definitivamente il proprio benessere nei suoi elementi fondamentali: economico, politico, culturale e sociale.

La rigenerazione dell’assetto istituzionale ed amministrativo nazionale?
E’ necessaria l’Alleanza civica e professionale dell’Ecosistema Pubblico e Comunitario: empatia, competenza, efficienza e cooperazione.

Introduzione al Forum “Civismo Popolarismo Sussidiarietà” del 24 giugno a Padova
Le risorse socioculturali della rigenerazione politica liberaldemocratica.

Urge l’elaborazione di un nuovo pensiero politico per dare senso ed efficacia alla partecipazione democratica
Urge l’elaborazione di un nuovo pensiero politico? Sì, i pensieri che hanno alimentato l’azione politica nella seconda metà del Novecento si sono necessariamente usurati. Perché si è affacciato un mondo nuovo con profondità e rapidità delle trasformazioni prima sconosciute. E come è noto serve vino nuovo negli otri nuovi.

Politica e società italiana ad una svolta. Ritorno al futuro: è ancora necessario il protagonismo dei liberi e forti
L’appello “Ai liberi e ai forti” del 18 gennaio 1919 è ricordato come il manifesto iniziale del Partito Popolare: “A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà.”

Una nuova visione antropologico-culturale per InnovAzione
Coraggio, Energia e Responsabilità imprenditiva, Fiducia nel Futuro alimentata da Ricerca, Formazione ed aggiornamento permanenti, promozione della mobilitazione cognitiva orientata a diffondere l’informazione e la competenza dei cittadini nel comprendere i processi di trasformazione in atto per partecipare al governo dei Beni e Servizi pubblici ed alla gestione degli adattamenti dei mondi dei lavori e delle professioni alle sfide scientifiche-tecnologiche-digitali-green.

PER la nostra Comunità veneta
Il documento che pubblichiamo di seguito costituisce il contributo di riflessione e di orientamento operativo che la Redazione del Giornale del Veneto mette a disposizione per quanti stanno intraprendendo, direttamente e/o in termini collaborativi, l’iniziativa dell’Associazione PER (Popolari, Europeisti, Riformatori) promossa da Elena Bonetti

Istruzioni per costruire ponti
Mi auguro che PER sia una palestra di esercizi mentali centrati sulla polis e la civitas. Non credo nella pedagogia della lezione ex cathedra, della parola che convince. Credo invece nel valore del coinvolgimento in esperienze comuni. Vorrei che PER chiamasse a raccolta le persone che credono che occuparsi di politica dia senso alla vita.

PER in Veneto: un’Associazione di riconnessione comunitaria
 l’evento di presentazione dell’Associazione PER (Popolari Europeisti Riformatori)

Congresso Veneto – Re-Azione al declino del Veneto
Una proposta politico-culturale per la nostra Regione: competenza, coerenza e generosità al servizio di una inedita visione dello sviluppo della Comunità