Urge l’elaborazione di un nuovo pensiero politico per dare senso ed efficacia alla partecipazione democratica

Paolo Giaretta

L’intervento di Paolo Giaretta al Forum del Giornale del Veneto


Se avessi preso sul serio il titolo che Dino Bertocco ha assegnato al mio intervento avrei senz’altro dovuto rinunciare. Ma siccome anche le cose serie non hanno bisogno di un eccesso di serietà ho accettato, pensando di limitarmi ad offrire alcune suggestioni. Non è questa la sede né io ne ho i titoli per farlo per individuare uno sbocco di azione politica al tema posto da questo seminario. Mi limito ad un ragionamento prepolitico, così necessario per una reimpostazione di una iniziativa politica all’altezza delle sfide che pone la contemporaneità.

Urge l’elaborazione di un nuovo pensiero politico? Sì, i pensieri che hanno alimentato l’azione politica nella seconda metà del Novecento si sono necessariamente usurati. Perché si è affacciato un mondo nuovo con profondità e rapidità delle trasformazioni prima sconosciute. E come è noto serve vino nuovo negli otri nuovi.

Un’epoca nuova entra nelle vite

Lo ha detto con efficacia Papa Francesco tempo fa: non un’epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca. Cambiano i riferimenti basilari. Solo per citarne alcuni: è finito il criticato equilibrio della guerra fredda basata sulla deterrenza nucleare, era nata la speranza di un mondo cooperativo, ma è stata una speranza di breve durata tornando prepotentemente sulla scena mondiale la violenza della guerra di aggressione e di espansionismo imperialista. La pandemia ha mostrato un’altra faccia della globalizzazione, con gli aspetti positivi di una ricerca scientifica che affronta le sfide ma con il ripresentarsi su scala globale di fragilità nella convivenza dell’umano. La democrazia occidentale, ovunque c’è è in una grave crisi di rendimento: fatica a rappresentare, fatica a governare. C’è un problema generale di sostenibilità sociale, ambientale, antropologica soprattutto.

Se volgiamo lo sguardo all’indietro (cosa sempre saggia se vogliamo guardare avanti senza sbagliare troppo) possiamo facilmente constatare che davanti al cambiamento d’epoca per avere successo si sono presentati leader politici con alle spalle un solido pensiero innovativo, capace di guidarne l’azione politica. Un pensiero meditato, preparato, trasformato in strumento necessario dell’azione politica. Dove non è stato così ci sono stati i tragici fallimenti della storia con le scorciatoie di regimi autoritari e dittatoriali.

Leadership nate da un pensiero

Quando nel 1919 don Luigi Sturzo fonda il Partito Popolare raccoglie l’esito di una lunga elaborazione culturale, di una sperimentazione sul territorio di paradigmi innovativi. Può parlare ai liberi e forti sapendo cosa dire. Alle prime elezioni politiche a cui presenta il nuovo partito raggiunge il 20,6% dei voti, portando alla Camera 100 deputati.

Quando nel 1932 Franklin Delano Roosevelt vince per la prima volta le presidenziali americane deve affrontare le drammatiche conseguenze sociali della grande depressione. Organizza il New deal assoldando le migliori menti per predisporre un programma di azione riformatrice. Ha ben presente il problema: “Sono convinto che se c’è qualcosa da temere, è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza”. Negli stessi anni in Europa si affermano gli imprenditori della paura, con nazismo e fascismo.

Quando nasce la Repubblica dalla Resistenza i cattolici fondano un nuovo partito, la Democrazia Cristiana avendo effettuato una importante preparazione intellettuale nella vita clandestina. Si preparano, ancora con fascismo vigente, nei Convegni di Camaldoli, con il documento le “Idee ricostruttive”, i professorini elaborano una cultura costituzionale che li fa diventare culturalmente egemoni nella scrittura della carta Costituzionale.

Democrazia senza popolo?

Altri tempi possiamo dire, e tuttavia se manca questa capacità rischia di crescere il numero degli apolidi in politica: cittadini senza patria politica, senza appartenenza ad un campo di idee e di proposte di governo, ad una visione di futuro. Nella sempre declinante partecipazione al voto c’è la componente che non è quella dei distratti, degli indifferenti, dei contestatori globali ma semplicemente costituita da persone che vorrebbero votare, lo considerano ancora un dovere, ma non trovano una proposta politica attraente: per la radicalizzazione semplicistica delle argomentazioni, per l’evaporazione di leader a tempo, per la mancata offerta di una visione che prenda per mano il futuro.

A destra lo si risolve con la vecchia ricetta di interpretare appunto la paura di futuro, e poi il futuro arriva lo stesso, con la violenza inaspettata dei fenomeni non regolati, nel campo progressista il rischio è quello di rifugiarsi in una idea di società che già non c’è più e di non comprendere perciò il popolo per come è fatto.

Non si tratta di un’opera di manutenzione delle tradizionali agende politiche, si tratterebbe appunto di un cambio di paradigma. Ha osservato un giornalista che il dibattito nell’arena pubblica è fatto oggi di tanti punti esclamativi, mancano i punti interrogativi. Sapete cosa succede? Siccome le domande poste dalla modernità sono molto difficili da affrontare si preferisce rimuoverle, ignorarle, accantonarle. Ma restano con la forza delle cose che attraversano le strade dell’umano. E se non dà le risposte giuste la politica il popolo tenta di arrangiarsi da solo: cerca un capo che pensi al posto suo, coltiva rancori ed odi sociali, si assenta dalla vita pubblica.

In un recente articolo scritto per il Giornale del Veneto ho ricordato alcuni buchi nelle agende politiche.

Una umanità più fragile e dipendente?

Siamo di fronte a rotture di equilibri che portano a tre insostenibilità. Una insostenibilità ambientale, perché oggi consumiamo le risorse del pianeta più velocemente di quanto possano ricostituirsi. Vi è una insostenibilità sociale: una economia basata sulla precarietà, sulla svalutazione del valore del lavoro genera una umanità spaventata e non in grado di guardare al futuro, con diseguaglianze crescenti. Serve anche una sostenibilità umana. E qui c’è una singolare trascuratezza nelle agende politiche. La velocità dello sviluppo tecnologico, l’enorme pressione comunicativa su una umanità stabilmente interconnessa, fin dai primissimi anni di vita, la mancanza di riferimenti ideologici e valoriali stabili (criteri per leggere il mondo, per orientare la propria vita), la banalizzazione della dimensione spirituale, la trasformazione del cittadino in consumatore chiamato ad esprimere sempre nuovi desideri, ecc. genere malattie sociali difficilmente curabili. Ne abbiamo tanti segnali nelle cronache: una perdita del senso della vita, un presente che brucia ogni energia. L’enorme aumento nel consumo di psicofarmaci, il moltiplicarsi delle dipendenze da droghe, ludopatia, social ecc. manifestano un malessere del vivere. Non sono fenomeni nuovi, ma nuovi per le dimensioni e l’accelerazione che il mondo dei social consente. L’assassinio di un bambino sacrificato dalla necessità di un gruppo di giovani youtuber di mostrare le sfide più stupide come dimensione della vita ci insegna: perché avevano più di 150 milioni di visualizzazioni e gruppi economici di primaria importanza investivano in questa fiera della stupidità. Sintomi di malesseri sociali che vanno curati. E che umanità si sviluppa sotto questa enorme pressione pervasiva: più fragile, più insicura, più dipendente da poteri esterni. Ne è un sintomo anche l’inverno demografico. E d’altra parte: c’è una generazione che si affaccia al mondo del lavoro e delle responsabilità che ha conosciuto solo un mondo incerto, senza prospettive solide di futuro, senza speranze da alimentare: prima i dissesti finanziari che hanno messo in discussione i fondamentali dell’economia, poi la pandemia, poi la guerra nel cuore dell’Europa.

E la politica? La politica sembra aver perso la capacità di nominare le cose. Non si tratta di curare le conseguenze, si tratterebbe di una grande iniziativa, che dovrebbe essere transnazionale, per correggere questa tendenza. Difficile, certo. Ma il compito della politica non è solo risolvere i problemi. Intanto può essere quello di comprenderli, di costruire alleanze nuove nell’opinione pubblica, di creare movimenti sociali per limitare e correggere questi eccessi. Altrimenti le figure di riferimento diventano altre: youtuber, influencer, personaggi della moda e dello spettacolo. Riferimenti fragili, fragilissimi, superficiali, illusori.

Intelligenza artificiale, cambio di paradigma umano?

Secondo tema: lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale. Non si tratta solo di strumenti sempre più raffinati dal Metaverso di Zuckerman con la creazione di una realtà immersiva che diventa realtà virtuale, realtà aumentata, in cui chi possiede il potere della tecnologia e della finanza crea queste realtà parallele. O ChatGpt che porterà l’umanità a delegare la capacità di scrittura e non solo ad una macchina.

Si tratta della creazione di macchine che apprendono e si sviluppano autonomamente, capaci di trasformare il mondo che le circonda. Gli esperti hanno coniato il suggestivo termine di Intelligenza Artificiale simile a Dio. Futuro? No, un presente in cui si stanno riversando miliardi di dollari di investimenti. Enormi poteri che si concentrano nei detentori del sistema tecnofinanziario. Ha scritto recentemente Mauro Magatti: “Non si tratta qui di essere pro o contro la tecnologia. L’uomo è tecnico fin dall’origine e alle future generazioni toccherà comunque vivere nel nuovo ambiente che sta prendendo forma. Si tratta piuttosto di fare quello che in ogni epoca è stato necessario: discernere le opportunità dai rischi come due facce della stessa medaglia. Adottando tutte le contromisure per rendere possibile un adattamento sensato alla nuova condizione in cui è destinata a svolgersi la vita sociale… Per rendere l’ambiente digitale amico della libertà e della democrazia c’è infatti bisogno di investire sull’intelligenza umana. Che significa lavorare per popolare tutto ciò che, «stando in mezzo» tra ChatGpt e metaverso, è in grado di mantenere viva e plurale la relazione tra intelletto e spirito, esattamente ciò rischiamo di perdere. Sapendo che, se non lo faremo con la necessaria forza e tempestività, le grandi opportunità del digitale si trasformeranno in disastrosi fattori di distruzione”.

Un postumano creato dalla tecnoscienza e dalla finanza?

Terzo tema: le conseguenze delle enormi potenzialità delle bioscienze e delle applicazioni tecnologiche. Chi guarda il dito e non guarda la luna: un tipico esempio è il dibattito sulla maternità surrogata, ridotto alla questione dei diritti del singolo, il desiderio dell’io che si trasforma in diritto civile. Non c’è dubbio che cambierà il modo della riproduzione umana, ma come non porsi gli enormi problemi posti dall’impatto della tecnoscienza nel campo dell’umano: manipolazione genetica, riproduzione artificiale, clonazione, protesi cerebrali, libera determinazione di genere, ecc. Si parla nella nuova frontiera del post umano. Chi parla semplicemente di diritti non avverte come questi diritti sarebbero subordinati ad un enorme potere non regolato affidato alla libera determinazione di un complesso tecnofinanziario che arriverebbe a controllare le sorgenti della vita.

Ancora una volta non si tratta di negarsi ai progressi della scienza, ma di iscriverli in una alleanza tra scienza, tecnica e nuovo umanesimo.

Riformisti arditi, riformisti concreti

Sono solo esempi. Per dire che bisogna saper guardare oltre il conosciuto, così fanno i veri riformisti, realisti nelle possibilità dell’azione, ma arditi nell’immaginare il futuro. Quando nel 1962 il padovano Luigi Gui dà attuazione alla riforma della scuola media unica rimuove uno dei più potenti fattori di diseguaglianza. Deve sconfiggere diffuse resistenze: tra i conservatori a prescindere, tra gli stessi insegnanti preoccupati di un così repentino aumento della popolazione scolastica, tra coloro che erano preoccupati che si abbassasse la qualità dell’insegnamento per gli alunni che avrebbero dovuto proseguire gli studi; e non è che nelle famiglie fosse così diffusa la comprensione della rivoluzione dell’eguaglianza che si apriva. Si fece la legge e Gui capì che non bastava, bisognava creare nel paese un movimento culturale che ne sostenesse l’applicazione: l’unione insegnanti medi, l’associazione delle famiglie, circoli pedagogici più avanzati, ecc. Così si fanno le riforme.

Perché è valido il titolo assegnato da Dino Bertocco? Perché il nuovo secolo ci ha consegnato un evidente fallimento dei due filoni culturali principali in cui si è articolato lo schieramento politico nel mondo occidentale. Quello di un ottimismo liberista, verso un mercato non regolato, una globalizzazione spontanea che ha in realtà aumentato il disordine in un mondo non regolato, le diseguaglianze, i conflitti. Abbiamo una economia della dissipazione che non può reggere, tra divinizzazione di un mercato senza regole (che è la negazione stessa del concetto di mercato) ed una denigrazione del ruolo del pubblico e dei beni comuni, salvo richiedere di intervenire in forza per rimediare ai fallimenti del mercato non regolato. I fondi speculativi si muovano a livello globale, cercando il rendimento a brevissimo termine, spesso spolpando le aziende e abbandonandole al loro destino, scommettendo sui rendimenti futuri di ogni bene, innescando rialzi speculativi di beni essenziali, dal cibo ai metalli. Non c’è stato il liberismo disciplinato e rigoroso di cui ha parlato recentemente Mario Monti. E d’altra parte è finito il secolo d’oro del compromesso socialdemocratico e a sinistra non c’è stata una adeguata elaborazione di pensiero, né quando si è stati al governo né quando si è stati all’opposizione.

Anche noi un po’ illusi nella grande stagione clintoniana e blairiana, da noi con l’Ulivo, che l’economia avrebbe guidato il mondo aggiustando le cose. E oggi appare evidente un declino di certa cultura di sinistra, incapace di comprendere le nuove paure del popolo, così come è fatto, e incline a rifugiarsi in un passato che non c’è più nel modo di produrre e di consumare o a pensare che ogni desiderio del singolo debba diventare un diritto, ignorando il valore dei necessari doveri. Ha osservato un saggio monaco benedettino Elmar Salmann che la democrazia si distrugge da sé per causa dell’uomo democratico, per cui tutto è relativo, non ci sono criteri orientativi, è una democrazia fatta di minoranze.

https://www.osservatoreromano.va/it/news/2023-06/quo-136/la-tragedia-dell-uomo-democratico.html

Guardare oltre: le tre parole che ha segnalato Dino Bertocco: civismo, popolarismo, sussisdiarietà indicano una nuova rotta, verso la scoperta di nuovi approdi politici.

Civismo: cittadinanza piena ed esigente

Non riduciamo il civismo alle liste civiche, reali o come espediente per ovviare alle debolezze dei partiti nelle consultazioni amministrative. Né guardiamo alla supponente distinzione tra una società civile ritenuta moralmente superiore alla società dei partiti. Sport praticato in passato e rivelatosi fallimentare.

E’ piuttosto un modo di vivere compiutamente la cittadinanza. Civis romanus sum rivendicava orgogliosamente San Paolo. Cittadinanza aperta ed inclusiva, diversa da quella della polis greca ancora legata alla stirpe. C’è nella romanità una straordinaria capacità di associare tradizioni, religioni, filosofie e di trasformarle. Si tratta di avere fiducia nell’aprire lo spazio a esperienze di innovazione democratica favorendo la partecipazione dal basso. Del resto occorrerebbe semplicemente di recuperare il senso delle parole. Recita il vocabolario Treccani: “Nobiltà di sentimenti civili, alto senso dei proprî doveri di cittadino e di concittadino, che spinge a trascurare o sacrificare il benessere proprio per l’utilità comune”.

Popolarismo, il popolo dei liberi e forti

Si è smarrito il concetto di popolarismo. Molto diverso dal populismo. Il populismo è la ricerca di un contatto diretto senza intermediazione tra un leader e un popolo amorfo, la mortificazione della ricchezza delle articolazioni della società dei liberi e forti. Porta aperta verso involuzioni autoritarie, come la storia insegna, o verso l’incapacità di governare la complessità. Il popolarismo crede che il popolo, nelle sue articolazioni in cui liberamente e autonomamente si organizza, sia la risorsa della ricchezza della vita democratica. Per Don Sturzo il popolarismo era innanzitutto una dottrina dello Stato, una visione filosofico-sociale e politica che investiva secondo canoni di libertà, democrazia, partecipazione, la riforma dello Stato attraverso la modifica delle sue strutture amministrative (l’autonomismo). Tema attualissimo, per temperare le tendenze così evidenti e dannose alla verticalizzazione delle leadership, al centralismo di ritorno delle società dominate dal complesso tecno finanziario sovranazionale.

Sussidiarietà, fondamento di una democrazia evoluta

E’ l’anello di congiunzione tra civismo e popolarismo. Il rimedio contro ogni centralismo burocratico. E’ la risposta anche alla complessità del mondo, una rigenerazione della vita democratica: non è il piccolo è bello, è piuttosto che in un mondo sempre più interconnesso e interdipendente occorre che sia la rete della cittadinanza dal basso ad alleggerire le complessità. A costruire soluzioni rese possibili dalle nuove potenzialità (qui positive) delle reti interconnesse.

Provvisoria conclusione

Concludo. Rovesciamo il paradigma: ricordando alcuni principi e strumenti che hanno orientato fasi importanti e positive della vita del paese non vogliamo essere deboli difensori del passato che pure va conosciuto e compreso, ma coraggiosi propositori per il futuro. Il pensiero del personalismo cristiano, a partire da ultimo dalle importanti encicliche sociali di Benedetto e Francesco, le visioni di un socialismo riformista, le idee di un liberalismo sociale, si parlava di economia sociale di mercato, non sono ostacoli alla modernità ma al contrario un fecondo serbatoio di valori e di idee per affrontare proprio le sfide della modernità, al di là della fede che una persona professi.

Recentemente ho avuto l’occasione di rivisitare la più suggestiva delle isole della laguna veneta, San Francesco nel deserto. Lì si ferma Francesco reduce dal viaggio che lo ha portato ad incontrare il Gran Sultano, in un formidabile dialogo tra diversi. C’è lì riportata una preghiera di Francesco: “dammi fede diritta, speranza certa e caritade perfetta, senno e conoscimento”. Per i cattolici sono le tre virtù teologali, per l’azione politica possono essere tre cardini essenziali: la fede dritta è una solida visione della realtà sociale, la speranza certa è la convinzione che non può esistere democrazia se non c’è una credibile promessa di futuro, la caritade perfetta è quella solidarietà di cui abbiamo parlato. Ma servono anche senno e conoscimento: la curiosità di conoscere in profondità non fermandosi alla superfice delle cose, ma capendo ciò che si muove sotto la pelle della storia come chiedeva Berlinguer e quel senno di cui parlava anche Thomas More, il Cancelliere dello Scacchiere decapitato da Enrico VIII per aver difeso la legge invece dell’arbitrio del potere: “Signore dammi un’anima semplice che non si spaventi alla vista del nuovo e sappia farne tesoro per rimettere le cose a posto”.

Ci sono da rimettere a posto un po’ di cose, con laboriosità, passione, fondamenti valoriali. Ne vale la pena. Vogliamo provarci?

Paolo Giaretta