Le insostenibili contraddizioni del DDL sull’Autonomia Rafforzata

Enzo De Biasi

Le insostenibili contraddizioni del DDL sull’Autonomia Rafforzata

La tripartizione delle Regioni acuisce il divario Nord-Sud, ignorata la funzione nevralgica delle Città Metropolitane

Occorre rinnovare la visione unitaria del Paese ed innovarne il paradigma istituzionale: con un impianto Federale dello Stato ed il rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio

Ogni tanto capita che Lazzaro esca dalla tomba e torni in vita. Il riferimento terreno è alla cosiddetta “Autonomia Rafforzata”, anche se qui il Maestro è più prosaicamente un Ministro della Repubblica Italiana di conio leghista, all’anagrafe Roberto Calderoli. La questione è già stata trattata in due articoli post-pandemia, apparsi nel marzo del 2021 proprio su in questo giornale.

Venendo all’attualità, dopo la presentazione al Senato del ddl 615/2023, in questo articolo sono offerti alcuni elementi per riflettere.
Innanzitutto, si vedrà -nei prossimi mesi- se l’attuale coalizione di Destra con un’appendice di centro, al di là delle roboanti dichiarazioni, sarà del tutto convinta e coesa nel portare fino in fondo la proposta legislativa in esame. Sul tema, Fratelli d’Italia, in perfetta coerenza con il suo passato prossimo e remoto, privilegia fortemente la possibilità di eleggere direttamente o il Presidente della Repubblica o il Presidente del Consiglio; la scelta non è ancora stata fatta!

Dall’altra parte, la Lega di Salvini vede nelle future RAD (Regioni ad Autonomia Differenziata) un modo per riconquistare il consenso perduto: europee 2019 ha raccolto il 34,3% dei voti scrutinati ed alle europee 2024? Le intenzioni di voto rilevate nell’ultimo sondaggio e trasmesse dalla TV La 7, accreditano alla Lega un misero 10,01%, oltre tre volte di meno rispetto alla precedente tornata. Le RAD come la “pace fiscale” sono l’antipasto per la campagna elettorale del prossimo anno, anche se entrambe le strumentalizzazioni riguardano la politica domestica, nulla a che vedere con un serio programma da realizzarsi nell’europarlamento. Vedremo se l’elettorato abboccherà ancora come cinque anni fa, quando venne promessa l’uscita dall’euro. Infatti, siamo -per nostra fortuna- nell’eurozona. Invece, dalla Padania indipendente della Lega di Bossi (1991, 32 anni or sono), il movimento “per Salvini-Presidente” si sta adoperando per una richiesta di irrobustimento (leggasi decentramento rafforzato) delle Regioni a Statuto Ordinario (RSO). Una bella svolta, non c’è di che dire !

Il maggior partito d’opposizione, il PD, per bocca di Elly Schlein a Napoli il 15 luglio scorso, ha marchiato l’Autonomia Rafforzata come “un orrido baratto” tra G. Meloni e M. Salvini. Probabilmente ha ragione, anche se oltre alla denuncia pubblica sarebbe utile presentare una vera alternativa e non limitarsi a demonizzare il deprecabile scambio in itinere.

La questione dei LEP

Tornando al DDL “Calderoli”, è auspicabile che lo stesso -prima di procedere oltre-determini i LEP (livelli essenziali di prestazioni), ovvero gli standard minimi dei servizi pubblici indispensabili per garantire in tutto il Paese i “diritti civili e sociali” tutelati dalla Costituzione. Dell’argomento se ne sta occupando l’apposita commissione presieduta da Sabino Cassese, istituita proprio per dare una mano qualificata al Ministro degli Affari Regionali e degli Enti Locali. Ma quando si tratta di mettere in pratica una bella affermazione di principio, cercando di evitare altri squilibri tra territori o peggiorare ulteriormente le profonde diseguaglianze economico-sociali tra le Alpi e Lampedusa, le opinioni divergono. Infatti, in data 26 giugno scorso si sono dimessi dalla commissione gli ex presidenti della Corte costituzionale Giuliano Amato e Franco Gallo, l’ex presidente del Consiglio di Stato Alessandro Pajno e l’ex ministro della Funzione pubblica Franco Bassanini affermando, con una lettera spedita R. Calderoli e S. Cassese, che “non ci sono più le condizioni per una nostra partecipazione ai lavori».

La ragione sostanziale? Lo scoglio -come avvenuto in tante altre occasioni- sta nel preferire il criterio della spesa storica, anziché in quello della spesa necessaria per finanziare i LEP; fermo restando il principio cardine del non aumento (invarianza) della spesa pubblica. Ovviamente, se la “spesa storica” sarà la modalità prediletta, va da sé che il divario tra Nord e Sud aumenterà ancora di più di adesso. Inascoltati su questo dubbio, gli emeriti giuristi hanno insistito sull’esigenza di fissare -preventivamente- alcuni paletti alla negoziazione, tra lo Stato e la singola Regione, indicando espressamente dei “contenuti non negoziabili”. Nel merito si tratta di escludere dall’eventuale intesa bilaterale ad esempio delle materie quali: “le norme generali sull’istruzione o le grandi infrastrutture nazionali di trasporto (autostrade, ferrovie, grandi porti e aeroporti), le reti di telecomunicazione e le infrastrutture nazionali di trasporto e distribuzione dell’energia elettrica e del gas”. Altro suggerimento proposto, è quello di decidere -preliminarmente- la relazione  tra la determinazione di tutti i LEP in relazione ai  loro costi standard da verificarsi  con “gli strumenti e i modi per assicurare a tutte le Regioni una effettiva autonomia tributaria che consenta loro di finanziare integralmente i LEP medesimi”.

Non quindi la spesa storica, quanto piuttosto la rimodulazione della spesa pubblica, statale e regionale, utilizzando anche la  leva fiscale; in modo da assicurare servizi di base omogenei in tutta la penisola. Il ragionamento dei Proff. ri non fa una piega, ma talvolta la realtà smentisce perfino le argomentazioni fondate su basi razionali.
È questo il caso della sanità pubblica, specie quando i politici regionali sono recalcitranti ad assumersi la propria responsabilità politica e fiscale davanti alla comunità guidata ed amministrata.

In effetti, ad oltre quarant’anni dall’entrata in vigore della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (SSN-1978), è proprio il caso di chiedersi se tale servizio debba ancora rimanere in capo alle Regioni. Recentemente, la Corte dei conti nell’esaminare i conti consuntivi del quadriennio 2019-2022, ha registrato che pur in vigenza dei LEP di settore, il SSN spezzettato in 21 modelli sanitari (SSR-servizio sanitario regionale) non riesce a garantire prestazioni standard ed omogenee in tutta Italia, anzi! Ciò a cui stiamo assistendo è il costante e perseverante peggioramento delle prestazioni erogate in sede locale. Questa situazione grava soprattutto sulla popolazione più povera, priva di mezzi per rivolgersi alle strutture private. La sanità pubblica rappresenta la maggiore entrata per le regioni, ebbene 16 Regioni su 21 hanno splafonato il budget conferito dallo Stato. Qualche Presidente ha azionato la pur limitata addizionale IRPEF per ripianare i deficit del proprio SSR? Assolutamente no. Ed ancora, la causa è unicamente da ascriversi alla sottostima delle risorse statali trasferite? Visto che a pagare è lo Stato (rectius i cittadini che pagano fino all’ultimo centesimo di reddito le tasse) e le Regioni in maggioranza hanno fin qui dimostrato irresponsabilità nella spesa, tanto vale che sia lo Stato ad assumersi l’onere di garantire questo servizio di base, accettando in toto e la responsabilità politica e quella amministrativa-finanziaria. L’articolazione nei SSR locali può continuare ad esserci, ma allo scopo di migliorare, integrare e potenziare gli standard statali. Di conseguenza, gli eventuali costi suppletivi sono a carico delle risorse reperite in via autonoma ed indicate nei rispettivi bilanci regionali.  Il Veneto ha i conti in ordine, ma come qui scritto nel giugno scorso, l’avanzo nel 2019 era di quasi 30 milioni scesi nel 2022 a poco più di 7 milioni. Nel 2023 staremo a vedere.

La questione degli accordi bilaterali

Il DDL 615 prefigura, per accordare maggiori poteri alla regione richiedente, l’accordo bilaterale Stato-singola Regione. Raggiunta l’intesa, questa sarà adottata dal Governo tramite un disegno di legge da trasmettere al Parlamento per l’okay definitivo. La durata dell’intero iter è attesa in cinque mesi, anche se i due passaggi alle Camere e quello in Conferenza Stato-Regioni difficilmente rispetteranno le scadenze temporali programmate, se non altro perché il contingentamento dei tempi per il legislatore è più che altro un mero auspicio.  D’altro canto, e la maggioranza parlamentare eletta al Centro-Sud e la Conferenza Stato-Regioni in cui sono prevalenti le RSO (regioni a statuto ordinario) non richiedenti raffigurano veri ostacoli da non sottovalutare.

La Banca d’Italia ha presentato il cammino riguardante la “procedura per l’approvazione delle intese”. Cosa succederà se subentrano modifiche in uno degli step obbligati? Si riandrà alla casella di partenza? La discussione è aperta.

Certo sarà già tanto, se i tempi reali saranno di minor durata rispetto ai 22 anni impiegati dallo Stato (dai dirigenti nazionali dei partiti del tempo sedicenti a favore dell’autonomia regionale) per traferire le competenze gestite a Roma adottando e i decreti e le leggi di riforma preannunciate e cadenzate dal D.P.R. 616/1977 in tempi ravvicinati, ma non osservati. Utile ricordare che solamente nelle due decadi successive, le RSO hanno potuto esercitare -in concreto- funzioni amministrative significative.

Sempre con riguardo agli accordi bilaterali di durata decennale, il monitoraggio è meramente facoltativo nella proposta, mentre occorre prevedere una verifica obbligatoria a cadenze prefissata e del rispetto dei LEP e dei budget assegnati, sia per rispetto alla cittadinanza servita sia per preservare l’equilibrio dei conti pubblici nel loro complesso. Opportuno ricordare che già nel 2012 il Parlamento è stato “obbligato” dalla UE a rendere più stringenti i vincoli di spesa così da assicurare i nostri partner sulla veridicità del pareggio di bilancio (modifica art. 81 aggiungendo il comma 3). In effetti, l’Italia ha un alto indebitamento (a maggio 2023 era di 2.817 miliardi di €) che limita considerevolmente il raggio d’azione di qualsiasi Governo in carica.

La riforma sull’Autonomia Rafforzata pone poi qualche rischio sia per il sistema produttivo in presenza di una marcata e diversificata frammentazione normativa, sia per i lavoratori nelle occupazioni regolate dall’esistenza di certificazioni e abilitazioni su base regionale. È difficile non scorgere eventuali ostacoli e per le società sovraregionali, per la mobilità geografica ed, infine, per la contendibilità stessa dei mercati.

Altra valutazione. L’autonomia differenziata può comportare ulteriori prolungamenti nei tempi di recepimento di leggi nazionali incidenti in settori decentrati, magari già oggetto di direttive comunitarie, nelle quali per l’applicazione operativa deve altresì intervenire la legge regionale. Il Parlamento italiano nel recepire decisioni UE sovente impiega anni se non decenni, casi tipici: concessioni balneari e concorrenza. In un mondo sempre più veloce e interconnesso, è opportuno allungare la catena di comando dei decisori?

A questo punto, cui prodest (a chi giova) l’Autonomia Rafforzata?

Certamente alle RSO che hanno già tentato -finora senza successo- di ottenere maggiori attribuzioni dallo Stato: Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Toscana che contribuiscono al PIL della nazione per oltre l’80%. Queste sono le aree forti del Paese, anche se in termini formali, tutte le RSO possono attivarsi per le intese bilaterali. Nel gruppo di testa due storicamente sono della sinistra oggi Csx, due del Cds ed una è stata ed è contendibile, il Piemonte. L’effetto sicuro se la riforma Calderoli andrà in porto, senza correzioni incisive e di metodo e di merito, è che l’Italia del terzo millennio sarà ripartita in tre classi di regioni: la serie C, le RSO residuali, la serie B, le RAD (almeno cinque) e la serie A, le RSS (regioni a statuto speciale conservate). È questo l’interesse nazionale?

E qui si torna al punto sostanziale dell’”orrido baratto”, che, se riesaminato può diventare un compromesso onorevole. In materia di decentramento così come in tema di “governance” nazionale, i Governi in Italia hanno avuto -in media- una durata di poco più di un anno, è opportuno che sia la questione regionale che l’elezione diretta di uno dei vertici della Repubblica, facciano parte di un unico disegno organico. Mancando una forte consapevolezza e coscienza di presa in carico dei problemi irrisolti da decenni, a partire da tutti e specificatamente dall’intera opposizione, facile pronosticare che l’attuale maggioranza (con la prospettiva di reggere fino al 2027) porterà a casa -magari a colpi forzati di fiducia- o una o tutti e due i cambiamenti che ha in testa.

La questione regionale

Lo Stato italiano è sempre stato incardinato dalla e nella amministrazione centrale sia primaria che secondaria, rimasta inalterata nei suoi architravi portanti durati ben 160 anni a partire dalla fondazione unitaria e poco modificati al mutar dei regimi: monarchico, fascista e repubblicano. L’attuale Repubblica parlamentare ha prima rinviato e poi realizzato con andamento molto (troppo) lento, le regioni che sono sempre state in posizione ancillare rispetto al centro. Più che enti dotati di autonomia propria, questi organismi sono stati “sportelli statali di spesa trasferita”, in assenza di una reale capacità di prelevare incisivamente e quindi beneficiare del gettito fiscale localmente prodotto.
Al contrario delle RSS costituite nel primo ventennio repubblicano che o perché territori insulari, Sicilia e Sardegna o per ragioni di prossimità ai confini della Patria e/o per la lingua straniera prevalentemente in sede locale: Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige (Province Autonome di Trento e Bolzano) e Friuli-Venezia Giulia; hanno goduto di maggiori risorse e compartecipazioni erariali. Tutte queste “specificità”, oggi, dopo la sottoscrizione dei patti di Maastricht (1992), l’entrata in campo dell’euro (2001) e l’allargamento dell’Unione Europea a 27 Nazioni non hanno più ragion d’essere, tranne le due isole.
In altri termini, volendo seriamente rivedere l’organizzazione e l’esercizio delle funzioni pubbliche gestite localmente, è il modello statuale che va riprogettato radicalmente. L’impostazione data da Cavour, ispiratosi a quello francese, lì dove esiste unicamente una capitale, Parigi, mentre da noi ne esistono (sono esistite) almeno sette: Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo; serve un salto di paradigma passando al modello federale espresso per primo da Carlo Cattaneo (1801-1869) che prefigurava uno Stato Italiano Federale da transitare successivamente, verso un’Europa Federale. La relazione centro-periferia va risolutivamente riguardata, non svuotando uno dei due o tutti e due i poli, ma irrobustendoli entrambi. Le nuove circoscrizioni federate sono quelle già identificate dallo studio della Fondazione “G. Agnelli” nel 1992 (31 anni fa) che ne prevedeva al massimo dodici. Al Nord Italia gli Stati sono tre: Nord-Est (T.A.A., FVG, Veneto) Lombardia e Nord-Ovest (Piemonte/Valle d’Aosta/Liguria).
In questa novellata cornice è auspicabile che il gettito fiscale raccolto rimanga nella disponibilità degli Stati per almeno il 70%, mentre il 30% sia inviato a Roma e per le funzioni statali residuali e per garantire standard dei servizi indispensabili destinati a tutti i cittadini al di là della loro residenza. Le RSS vanno quindi comprese nella nuova dimensione, avendo ciascun Stato Federato in fase d’avvio almeno le attuali competenze attribuite il 15 maggio 1946 alla Regione Sicilia, definita dal Prof. Livio Paladin già Presidente della Corte costituzionale, non una RSS ma un soggetto giuridico “quasi” federato alla Repubblica Italiana. In linea pragmatica, a parte la moltiplicazione dei posti elettivi e relative prebende regionali, che senso ha mantenere lo status di Ente Regione o nella forma di RSO od in quella di RSS: all’Umbria, Liguria, Marche, Molise, Abruzzo, Basilicata e Calabria ed a seguire alla Valle d’Aosta 122.955, Friuli-Venezia Giulia 1.192.191 ed il Trentino-Alto Adige 1.075.191, dove sia nella prima lista che nella seconda nessuno raggiunge i 2 milioni di residenti? ISTAT 2023.

La questione  Città metropolitane

Con legge costituzionale nr. 3/2001, è stato istituito un nuovo ente di area vasta, la Città metropolitana. Oggi, le città metropolitane con l’integrazione di quelle istituite dalle RSS, Sicilia e Sardegna, sono quattordici, rappresentano il 36.2 % della popolazione italiana ed aggregano 1.268 comuni. Sette di queste sono nella fascia superiore ad 1 milione di abitanti e due si collocano appena sotto tale soglia, ISTAT 2022.

Il DDL è indirizzato  unicamente alle RSO, sarebbe stato più completo se avesse considerato anche  questa nuova realtà, devolvendo direttamente alcune funzioni come, ad esempio, l’urbanistica e i servizi socioassistenziali per l’area di competenza. Va da sé che le attuali regioni, configurate nel 1948 e del tutto superate per la dinamica economica-sociale-demografica avvenuta in questi 75 anni, possono (debbono) essere ri-configurate per svolgere al meglio le loro funzioni originarie: programmazione, legislazione e controllo, senza doversi impicciare nella gestione operativa come oggi purtroppo succede spesso.

Infine, gli economisti della Banca d’Italia convergono con i dubbi sollevati dai giuristi, avvisando i decisori politici delle lacune pesanti riscontrate nella proposta di legge in itinere. Afferma la Banca d’Italia “Il DDL AS 615, lascia ampi margini di incertezza “sugli aspetti di merito – in larga parte demandati alle intese bilaterali fra Governo e singole Regionisenza porre alcuna condizione per l’accesso all’autonomia differenziata” ed ancora “le tre intese preliminari finora avanzate stabiliscono la devoluzione di una lista molto ampia di materie (16 delle 23 elencate dall’art. 116, comma 3, Cost. per l’Emilia-Romagna, 20 per la Lombardia e 23 per il Veneto) senza fornire motivazioni sull’opportunità di procedere in tal senso, se non un riferimento di carattere generale alle “specificità proprie della regione immediatamente funzionali alla sua crescita e sviluppo

La questione nazionale

Giorgia Meloni non va soltanto contestata, ma con altrettanto vigore va incalzata e stanata affinché decida quale Presidente dovrà essere eletto direttamente dal popolo. Irricevibile l’eventuale opzione per il Presidente della Repubblica, figura di garanzia costituzionale e punto d’equilibrio istituzionale nel e del sistema, più fattibile quella del Presidente del Consiglio che può essere rafforzato nelle sue prerogative a partire dalla scelta dei propri ministri, a condizione che abbiano partecipato al voto il 65% degli aventi diritto. In caso contrario, si procede con le regole attuali. La riforma dovrà prevedere che il vertice governativo possa venir confermato nella carica, esclusivamente per due soli mandati successivi non ripetibili nel tempo. Il sistema elettorale maggioritario è da confermare, prevedendo però una soglia di sbarramento al 5% per eleggere deputati e senatori che decadono contestualmente alla impossibilità del Presidente eletto dal popolo di procedere nella sua azione di Governo, ciò che M. Renzi chiama “il Sindaco per l’Italia”.

Entrambe le questioni qui sollevate pongono alle forze politiche di rinunciare, in parte, alle loro bandierine identitarie. A Fratelli d’Italia accettare l’idea che un Presidente eletto direttamente dalla Nazione debba prevedere un necessario contrappeso in periferia. Veri Governatori di uno stato federale (non solo quindi in senso amministrativo ma anche politico a tutto tondo), alla Lega di rinunciare all’idea delle “piccole patrie” e alla sinistra del campo largo, convincersi che un vertice della Repubblica emanazione diretta del popolo votante non è da respingere a priori.
Per cogliere l’obiettivo occorre una proposta di legge costituzionale che vada a modificare differenti articoli vigenti. La meta si può raggiungere in tre modalità. Con una vasta adesione dei partiti presenti in Parlamento, così come è stato fatto in occasione della modifica dell’art. 81 proposta dal Governo Monti che godeva dell’appoggio esterno di tutti i partiti del tempo: PdL, PD, UdC, FLI, ApI, RI, MpA, Fareitalia, PID, PLI, PRI, LD, AdC, PSI, MAIE, IdV. Oppure, rispolverando un’idea di Bossi del 1994, ci si affida ad un’Assemblea Costituente, vale a dire un organo straordinario, temporaneo e idoneo per scegliere la forma di stato.

Infine, l’attuale maggioranza prosegue nella sua strada e l’opposizione si organizza per chiedere un referendum abrogativo.

Il lettore si interroghi su qual è la strada più convincente per il futuro dell’Italia.


Fonti consultate:

Il Sole 24 ore, Banca d’Italia, Senato della repubblica, ISTAT