Il risveglio dell’Europa: rischi ed opportunità tra visione geopolitica pragmatica e ideologia

(di Carlo Fei*)


Il recente viaggio del Presidente Francese in Cina ha fornito un’ennesima occasione di aprire gli occhi su quanto l’Europa sia rapidamente tenuta a fare per non perdere definitivamente il proprio benessere nei suoi elementi fondamentali: economico, politico, culturale e sociale. 

Il monito senza se e senza ma pronunciato da Macron al ritorno dai colloqui con il leader della Repubblica Popolare Cinese, giunge a pochi giorni dal (parziale) ripensamento sul diktat che le auto elettriche europee debbano diventare l’unica opzione possibile del mondo automotive in Europa a partire dal 2035.  

E, sebbene la questione delle auto elettriche appaia come un elemento marginale in un quadro geopolitico che si sta rapidamente ridisegnando, in realtà la faccenda risulta paradigmatica di come da alcuni anni a questa parte l’Unione Europea sia impantanata in questioni ideologiche ignorando, di fatto,  cosa stia succedendo nel mondo fuori dai suoi confini.

Certamente esiste un serio problema ambientale generato dal cambio climatico in corso, causato (principalmente) dalle emissioni di CO2 nell’atmosfera, e siamo tutti d’accordo che tale questione vada assolutamente affrontata attraverso provvedimenti radicali finalizzati alla riduzione delle emissioni generate dalla produzione energetica a supporto della produzione mondiale.

Ma per prendere le decisioni corrette occorrerebbe prima abbattere i falsi miti che sorreggono l’ideologia. E lo si può responsabilmente fare solo partendo dai numeri e dai fatti.

L’Europa dei 27 produce il 17,1% del PIL mondiale (fonte IMF 2022) ed emette circa il 7% della CO2 globale (fonte EU 2022). La Cina (per citare il più grande contributore al cambio climatico del mondo) produce il 17,9% del PIL mondiale ed emette il 33% della Anidride Carbonica mondiale. Significa che la Cina, producendo pressappoco come l’EU27, emette quasi 5 volte la CO2 dell’Unione Europea. 

L’obiettivo globale è ridurre del 45% entro il 2035 le emissioni per contenere il riscaldamento terrestre entro 1,5°. 

Ebbene: ha quindi senso che la EU investa una parte rilevante dei 350 miliardi di € all’anno del suo ambizioso Green Deal per dimezzare le proprie emissioni entro il 2035, e azzerarle entro il 2050, se questo sforzo immane (che porterà solo al -3,5% di CO2 mondiale nel 2035 e -7% nel 2050) non servirà assolutamente a nulla per cambiare le cose? O forse non si dovrebbe premere perché l’accelerazione al taglio di CO2 venga assunta da altri paesi che davvero hanno in mano le sorti climatiche del pianeta?

Se poi analizziamo la retorica delle auto elettriche, scopriamo come il falso ideologico che definisce le auto elettriche ad “Emissioni Zero” deve essere chiarito una volta per tutte.  Esse, infatti, sono ad “Emissioni Delocalizzate” considerato che vengono spinte da energia generata da fonti spesso assai inquinanti come centrali a carbone, a gas e, solo in minima parte, ad emissioni zero dato l’ancora basso contributo che le rinnovabili ed il nucleare stanno fornendo alla produzione energetica europea. Con due eccezioni: la Francia che grazie all’energia nucleare, fornisce energia solo al 30% prodotta con emissione di CO2 e l’Austria che tra idroelettrico e eolico la produce solo al 40% con emissioni di CO2.  In altri Paesi la cosa è ben diversa: in Germania, ad esempio, l’ideologia ha addirittura spento le centrali nucleari per ri-accendere quelle a carbone aumentando le emissioni inquinanti (e non solo di CO2) necessarie per la produzione di energia. Se poi ampliamo l’analisi andando a vedere come sono prodotte le auto elettriche, potremmo definirle auto a “Disastro Ambientale Delocalizzato”. È infatti noto che l’estrazione delle terre rare indispensabili alla produzione delle batterie richieda uno straordinario impiego di acqua ed acidi che vengono dispersi nell’ambiente senza contare che l’energia necessaria all’estrazione è generata quasi sempre da idrocarburi (costruire un’auto elettrica produce la stessa quantità di emissioni di CO2 dell’assemblare due auto alimentate con combustibili fossili) e che tali disastri ecologici vengono compiuti prevalentemente in Paesi dove il rispetto del welfare dei lavoratori e dove i processi industriali etici e sostenibili sono inesistenti. 

Se poi a ciò aggiungiamo:

  • lo smaltimento delle batterie che degradano velocemente quasi come quelle dei nostri smartphone (si stima che tra i 100 e i 150mila km debbano essere sostituite); 
  • la produzione di energia che andrebbe rapidamente incrementata (con cosa?) per sostenere l’impennata della domanda di elettricità;,
  • la concentrazione delle fonti energetiche anche destinata alla trazione su pochi fornitori (e per di più vulnerabili in caso di conflitto bellico rispetto ai distributori di benzina oggi dislocati capillarmente in tutto il territorio europeo), 
  • la rinuncia alla leadership industriale che l’Europa ha nel motore termico (attualmente in grande evoluzione anche grazie alle possibilità offerte dai biocarburanti di ridurre l’impatto delle emissioni) ad esclusivo vantaggio di Cina e Russia oggi tra i principali detentori di giacimenti o concessioni all’estrazione delle terre rare,

diventa facile comprendere come l’auto elettrica si trasformi in un costoso, terribile ed inutile suicidio europeo sia sul fronte geopolitico sia su quello sociale con la inevitabile chiusura di interi distretti industriali esclusivamente per ridurre il modesto contributo che l’autotrazione europea fornisce al cambio climatico pari all’1% della CO2 mondiale. 

La Manifattura Europea e la Competitività Industriale

Va invece affrontato il tema della Manifattura Europea per recuperare competitività industriale. Ma va ripensato il modo con cui si pensa al sistema produttivo della UE. 

Oggi, infatti, quando si parla di manifattura si pensa a Germania ed Italia quasi fossero in competizione tra di loro. Ma ci si dimentica che le aziende dei distretti del Veneto o dell’Emilia Romagna o della Ruhr (giusto per citarne alcune) non rappresentano solo un patrimonio locale ma creano valore e competitività a tutta l’Europa. E poiché sono assolutamente persuaso che il benessere di un paese sia direttamente proporzionale alla capacità che ha di produrre ricchezza e con essa lavoro, istruzione e giustizia sociale, forzare un sistema economico ad investire esclusivamente in un’unica direzione di stampo rigidamente ambientalista (peraltro, come abbiamo visto, strategicamente irrilevante), rischia di sottrarre risorse alla ricerca ed allo sviluppo che sostengono il vantaggio competitivo, innescando un effetto domino di caduta di uno degli asset più rilevanti del sistema economico europeo che, se perduto, fa soccombere l’Europa stessa. 

Ciò su cui invece occorrerebbe orientare gli investimenti europei è il sostegno al recupero dell’enorme divario nelle tecnologie che il sistema industriale europeo ha rispetto ad USA e Asia e che gioca un ruolo fondamentale nella partita dei prossimi 10 anni per rendere i processi produttivi efficienti, per sostenere la leadership industriale con l’innovazione e riportare in Europa le capacità strategiche tecnologiche che abbiamo perso per strada. L’approccio virtuoso introdotto da Industria 4.0 di Carlo Calenda dovrebbe essere sdoganato all’interno della politica comunitaria: Investire nelle tecnologie ha un inevitabile impatto positivo non solo sulla competitività del sistema industriale ma anche sulla sostenibilità ambientale. 

A supporto di tutto ciò vale la pena citare un recente rapporto sulla competitività europea pubblicato lo scorso settembre da McKinsey(1), “dieci tecnologie trasversali permeano praticamente tutti i settori. Sette si collegano alla digitalizzazione con effetti trasversali che pongono l’Europa in una posizione di svantaggio”. 

Sempre secondo il documento di McKinsey, “le prime dieci grandi aziende che investono nel calcolo quantistico sono negli Stati Uniti o in Cina e non in Europa. Nell’intelligenza artificiale (IA), gli investimenti delle società statunitensi sono sei volte superiori a quelli delle loro controparti europee. Nel 5G, l’Europa ha fornitori forti ma è in ritardo nella diffusione. Nel cleantech, una roccaforte europea, la regione rimane all’avanguardia per quanto riguarda i brevetti, il finanziamento del capitale di rischio e la capacità installata di livello mondiale nelle tecnologie mature. Ma anche lì, la Cina è intervenuta per assumere un ruolo guida nella produzione cleantech in quasi tutte le aree, e gli Stati Uniti sono leader nella maggior parte delle tecnologie rivoluzionarie, compresa la fusione nucleare”.

L’Europa ha bisogno di Europa

Lo scenario globale che negli ultimi anni ha accelerato la sua evoluzione rende evidente la necessità che l’Europa debba consolidare la consapevolezza che solo abbattendo le frizioni interne, abbracciando una visione sistemica dove i vantaggi locali (e le leadership) sono un asset comune e non un motivo di scontro e pianificando una politica estera, di difesa ed industriale comunitaria rinunciando alla ideologia, si può mantenere il valore competitivo del continente unica vera polizza per assicurare i valori di benessere e libertà che abbiamo conquistato nella lunga e spesso dolorosa storia del nostro continente. 

Anche perché l’unico piano B possibile si chiama declino.

E così vanno rapidamente abbattute le contraddizioni dannose, le vacche sacre dell’ideologia. 

Andranno pertanto destinati i denari verso le aree strategiche, ricordando, ad esempio, che il problema della plastica (prossimo punto in agenda EU) non riguarda, se non in minima parte, l’Europa dato che il 90% della plastica nei mari è riversata da 10 fiumi nel mondo dei quali 8 sono in Asia e 2 in Africa.  E magari tenendo presente che in Europa (in particolare nel Veneto) esiste l’avanguardia del riciclo della plastica divenuta un’eccellente opportunità di business virtuoso. 

Cogliendo così la visione che il problema non è la plastica ma la gestione dei rifiuti della plastica.  

O ancora memorizzando che gli ESG negli investimenti sono talvolta un contraddittorio freno a mano tirato per il continente dato che, ad esempio, se da un lato la globalizzazione suggerisce di investire in difesa europea, dall’altro è fatto pressoché divieto ad istituzioni finanziarie investire in aziende che producono strumenti difesa…

Insomma, l’Europa ha bisogno di Europa e anche con estrema urgenza ma occorre uscire da una dimensione fanta-ideologica ed assumere decisioni responsabili e data-driven per proteggere il futuro del continente, dei nostri valori e del benessere delle future generazioni.

*Carlo Fei è stato manager di multinazionali in USA, Francia, Svizzera e Italia, attualmente è Senior Partner e Managing Partner di società di Consulenza Aziendale in Italia ed all’estero occupandosi di Brand Strategy per multinazionali del Luxury/Fashion, del Made in Italy, e per Istituzioni Bancarie leader in Europa. È inoltre Professor of Practice presso il Dipartimento Impresa e Management dell’Università Luiss Guido Carli e presso la Luiss Business School dove insegna e dirige Master in Management in Luxury/Fashion e Made in Italy Industries.

Carlo Fei

(1)Securing Europe Competitiveness McKinsey Global Institute September 2022

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