Problemi irrisolti da decenni, che ora presentano il conto

Gli insulti alla Senatrice Segre, il dramma dell’ILVA e l’agonia di Venezia. Alcune riflessioni.

Gli insulti antisemiti a Liliana Segre

Alle volte la realtà superi la fantasia, affermava il grande regista e sceneggiatore inglese Sir Alfred Hitchcock. L’imprevedibile può sempre accadere. In questo scorcio autunnale siamo stati (e siamo ancora) coinvolti da tre accadimenti drammatici che hanno profondamente diviso l’opinione pubblica, portando alla luce ed in tutta evidenza le fragilità e le debolezze storiche della società italiana. La mancanza di dialogo fattivo tra le differenti componenti politiche e fra gli stessi individui, al di là della legittima diversità di pensiero, sta caratterizzando in peggio la nostra convivenza civile dato che sembra venir meno la partecipazione e la condivisione di valori e principi accettati e metabolizzati da tutti. Il pensiero, da subito, corre verso gli insulti e le minacce antisemite e razziste lanciati contro una rediviva dei lager nazisti, marchiata in modo indelebile con il proprio numero di matricola. Liliana Segre, da poco tempo senatore a vita, ha inteso ed intende unicamente testimoniare, senza seminare odio, che il genocidio degli ebrei nei campi di sterminio è esistito veramente, fu programmato ed organizzato da Hitler aiutato da Mussolini capo del regime fascista promotore delle leggi razziali promulgate nel 1939 in Italia. L’attestazione è rivolta soprattutto alle generazioni del terzo millennio ed ai troppi smemorati in circolazione, dato che le atrocità perpetrate dai nazi-fascisti su altri uomini solo perché di etnia/religione diversa dalla loro, possono ripetersi. Le condizioni favorevoli affinché prevalga l’egoismo individuale ed il menefreghismo verso l’altro, prendono il via allorquando -come nella fase attuale – stiamo vivendo un periodo di lunga stagnazione e crisi economico-sociale con scuotimento in radice del modello di sviluppo fin qui seguito. Ieri il capro espiatorio era l’ebreo “suggerito” al popolo quale responsabile delle difficoltà, oggi può essere indicato il negro, il migrante, l’extra-comunitario, il rom, il gay, da ultimo, la finanza internazionale con a capo i soliti ebrei. Facile gridare al complotto internazionale ed attirare le simpatie dei propri concittadini offrendo soluzioni semplici, anche se di dubbia efficacia. Viviamo un periodo in cui importante non sono i contenuti, ma il modo ed il veicolo attraverso il quale si trasmette il “messaggio”. In questa direzione soccorrono, ancor oggi, le 11 regole elaborate da Goebbels-Ministro Nazista- sulla buona propaganda. Questi principi, cosi chiamati dal suo autore, sono tutt’ora validi e sono messi in pratica da uno come Matteo Salvini, assistito nell’ elaborazione del cosa e come annunciare dall’immancabile staff. In particolare, sia nel ruolo precedente di Ministro dell’Interno che in quello usuale di capopolo, egli ha dimostrato di applicare il “Principio dell’unanimità -Portare la gente a credere che le opinioni espresse siano condivise da tutti, creando una falsa impressione di unanimità” (principio nr. 11). Il 25 aprile di quest’anno il reggente pro-tempore il Viminale, andò a Corleone (Sicilia) ad inaugurare un locale commissariato di polizia e l’occasione fu propizia per rendere pubblica la sua volontà di non presenziare ai festeggiamenti per la Festa di Liberazione dal Nazi-Fascismo; qualificata come un “derby tra fascisti e comunisti”. Infatti, la questione è banalmente assomigliante ad una partita di calcio, per mera coincidenza lo sport più seguito dagli italiani, giocato per l’occasione da vecchie glorie con più di 70 anni nelle gambe. Scontata conclusione per chi sente il verbo “ragazzi, trattasi di tempo sprecato, non avete di meglio da fare? “. Più recentemente dopo le e-mail di aggressione a Liliana Segre ed all’assegnazione della scorta, ha invece applicato il “Principio della volgarizzazione -Tutta la propaganda deve essere popolare, adattando il suo livello al meno intelligente degli individui ai quali va diretta” (principio nr. 5). Dice Salvini, la senatrice ha ricevuto: «Minacce gravissime, come quelle che io ricevo ogni giorno» Sarcasticamente ed amaramente il comico Crozza ha affermato che Liliana Segre sarà ricordata perché “ ..è sopravvissuta ad Auschwitz, Salvini perché non è sopravvissuto al Papeete….. ” ed ancora “da una parte i “nazisti” … dall’altra le “cubiste”. Lei scappava dalle SS, tu le corteggi, che nesso c’è?” L’obiettivo perseguito è sempre il medesimo, svuotare, svilire, appiattire, sminuzzare le violenze e le ingiustizie passate e quelle presenti, trasformandole in un budino incolore ed inodore, senza alcun richiamo alla complessità delle cause e dei fattori in gioco. Come negli anni Trenta del secolo scorso, fondamentale è mistificare la realtà imbonendo i cittadini-elettori. Del resto, sia Hitler che Mussolini sono andati al potere per volontà espressa democraticamente dal popolo plaudente e festante. Dove sta il problema nella rappresentanza o nei rappresentati?, oppure l’una rispecchia gli altri e viceversa, come ebbe a dire Aristotele oltre 2000 anni fa? Alle recenti elezioni europee, ad esempio, la Lega per Salvini ha colto il favore di un terzo dell’elettorato pur non avendo depositato un programma articolato di azioni per affrontare e risolvere i nodi strutturali che bloccano l’incisività dell’Unione Europea. È bastato essere presente nei media e parlare per slogan di argomenti a valenza nazionale, et voilà il gioco è riuscito; in Veneto il 50% dei consensi. Purtroppo le classi dirigenti succedetesi negli ultimi 70 anni, per svariate ragioni affatto irreprensibili, non hanno mai voluto fare i conti, davvero e fino in fondo, con il background culturale di matrice fascista sedimentato dentro l’apparato pubblico e nella legislazione di dettaglio, operando una radicale rivisitazione delle corporazioni (ora associazioni) economico-sociali-professionali iperprotettive e conservative e rivoluzionando il sistema fiscale-contributivo basato unicamente sull’alta tassazione alla fonte (come durante il fascismo) del fattore lavoro ( e gli altri?). Oggi, morti gran parte degli antifascisti combattenti, rispuntano gli stessi fantasmi e richiami con nuovi porta vessilli, declinanti il sovranismo, la marcata identità territorialmente circoscritta e la difesa dei valori tradizionali del popolo italiano; tutti elementi costitutivi il populismo in versione fascistoide.

Il dramma dell’ILVA

Taranto con ITALSIDER (inaugurata il 10 aprile 1965 da Giuseppe Saragat-Presidente della Repubblica) era un gioiello dell’Italia generativa del “miracolo economico” che, in assenza di capitale privato al di fuori del caso Fiat e di pochi altri, favorì lo sviluppo industriale di base (siderurgia, chimica, ciclo del carbone, alluminio) grazie agli ingenti investimenti fatti dalle società a partecipazione pubblica. In Italia le imprese di medie e grandi dimensioni con conseguente fatturato, occupazione e benessere diffuso in ampie aree e strati della popolazione, erano frutto di interventi dello Stato che garantiva sviluppo e posti di lavoro. Ecco perché noi siamo ancor oggi, e chissà lo sa fino a quando lo saremo, il secondo Paese manifatturiero d’Europa. La vulgata circolante che “piccolo è bello” può essere soddisfacente per la raccolta dei consensi considerata la numerosità delle PMI (piccole e medie imprese, nel Veneto 1 ogni 4 abitanti), ma né rappresenta né sostituisce la spina dorsale necessaria per promuovere e/o mantenere le posizioni nei settori strategici, richiedenti un’alta intensità e qualità di risorse infrastrutturali, economiche e manageriali. È invece auspicabile, come alle volte avviene, una vicendevole integrazione tra filiere di produzione e distribuzione dei prodotti originati da imprese a dimensione variabile. L’incapacità della politica nell’affrontare la questione del debito pubblico accumulatosi a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso (esploso negli anni Ottanta) e gli impegni assunti in sede europea, hanno portato alla dismissione, più o meno opportuna, di tante società in proprietà dello Stato sul finire del ‘900. Una di queste, l’ILVA appunto, è stata ceduta nel 1995 alla famiglia Riva chiamata a rilanciare l’azienda. Da subito, però, emergono i primi problemi seri di inquinamento della città collegati alla sua area industriale e il numero dei decessi per tumore registrati nella zona comincia a destare sospetti. Nel 2012 la magistratura tarantina dispone il sequestro dell’acciaieria per gravi violazioni ambientali. Vengono disposte le misure cautelari per alcuni indagati nell’inchiesta per disastro ambientale a carico dei vertici aziendali, tra questi lo stesso Emilio Riva. Il gip del tempo scrive che l’impianto è stato causa – e continua a esserlo – di “malattia e morte” perché “chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato in tale attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”. Nel 2013 a Taranto si tiene un referendum cittadino per chiudere la fabbrica che raccoglie una percentuale di oltre l’80% riferita al 20% degli aventi diritto recatesi alle urne, ma privo di effetti in assenza del quorum richiesto pari al 50% più 1degli elettori. Per sbloccare dai sequestri gli impianti da sottoporre a lavori di risanamento e garantire allo stesso tempo la tutela dei posti di lavoro (poco più di 8.000 unità nel polo pugliese), il governo Monti emana un primo decreto che autorizza la prosecuzione della produzione dell’azienda. Da allora e fino ad oggi, si assiste ad una tragica telenovela; da una parte i Governi che assumono decreti utili a mantenere i livelli occupazionali e dall’altro la magistratura penale che -in assenza di risanamento ambientale e sicurezza sui posti di lavoro- prosegue nel solco già tracciato per evitare altri morti e/o ricoveri causati da tumori maligni, infarti, ricoveri per malattie respiratorie, emissioni nocive, tumori infantili. Nel periodo gestito dalla famiglia Riva 1995-2005, ad esempio, la macabra contabilità registra ben 1824 casi. A giugno 2017, arriva -Governo Gentiloni- l’affidamento dell’ILVA alla cordata Arcelor- Mittal che dopo il lungo tira e molla con il Conte 1 diventato nel frattempo Conte 2 s’incartoccia sulla questione scudo penale, prestando il fianco all’abbandono del campo e degli accordi sottoscritti dalla multinazionale franco-indiana. Tempo rimasto per risolvere, poche settimane considerato che i due altiforni -cuore pulsante dell’impresa ma non ancora bonificati- potrebbero essere definitivamente spenti a gennaio 2020. Tra posti diretti ed indiretti, il calcolo si avvicina a circa 11.000 unità, perdita di 1.4% del Pil nazionale, costo all’Italia circa 24 miliardi. La vicenda è ora ritenuta d’interesse nazionale, essendosi date le parti sociali e politiche finalmente un’impostazione coerente, al fine di scongiurare un eventuale prossimo e definitivo knock out. Stante il fatturato e gli occupati, massima allerta ed attenzione doveva esserci fin dai tempi della cessione alla famiglia Riva da parte dei governanti nazionali e locali, soprattutto per verificare che una parte degli utili fossero re-investiti in modo proficuo nella tutela e sicurezza del polo industriale affidato. Per altri aspetti, il compito spettava alla filiera pubblica sia statale che regionale con la finalità di accertare lo stato di salubrità e di perfetta manutenzione degli impianti a più alto rischio per la salute e l’ambiente. Inoltre, difficile ritenere che i dirigenti sindacali non si fossero accorti che la scarsa manutenzione agli impianti li rendeva tossico-nocivi per gli operari. A partire dai primi anni duemila, sono stati alcuni medici ad attestare la correlazione esistente tra ambiente lavorativo e cause di morte tumorale o ricoveri coatti, contabilizzandone il numero utile alla magistratura penale per mettere i sigilli agli impianti. Secondo gli slogan tuttora risuonanti nei cortei importante è “il posto di lavoro”, vero e se questo uccide? Non esiste futuro se ci balocchiamo e blocchiamo nel dilemma fasullo tra privilegiare l’occupazione (cioè lo sviluppo economico) anche con danni ambientali rilevanti; oppure la salvaguardia dell’ambiente, anche se porta alla cessazione di attività produttive. Le soluzioni di compatibilità e sostenibilità reciproca di ambiente e salute esistono e sono già state sperimentate in altri paesi europei od anche in qualche parte d’Italia, basta copiare e non sprecare tempo e soldi pubblici. Il partito ed i patiti del PIL ad ogni costo non conseguono una migliore qualità della vita, anzi! Viceversa, la decrescita felice riguarda poche situazioni, per tantissimi altri casi significa tornare alla fame ed alla disperazione anche se a marzo 2018 i tarantini hanno votato per il 47% un movimento stellare, chissà forse lo avranno fatto a loro insaputa.

L’agonia di Venezia

Gli eventi del 12 e del 13 novembre 2019 e il livello di 187 centimetri ha riportato alla memoria i 194 cm raggiunti dall’acqua “granda” il 4 novembre 1966 a Venezia, frutto di una marea eccezionale. Da quell’anno sono passati 53 anni e la Serenissima non ha ancora alcuna protezione dal mare che entra in laguna ed alza il livello dell’acqua, arrivando a coprire buona parte del centro storico e delle isole lagunari. L’argomento è stato oggetto di aspre discussioni fin da subito, tutti alla ricerca della soluzione più idonea. Indro Montanelli negli anni Sessanta sostenne la tesi che “Venezia non aveva, per restare Venezia, che una scelta: mettersi sotto la sovranità ed il patronato dell’Onu per riceverne il trattamento, che certamente le sarebbe stato accordato, dovuto al più prezioso diadema di una civiltà non italiana, quale la Serenissima mai fu né mai si sentì, ma europea e cristiana, intesa unicamente alla conservazione di sé stessa, quale tutto il mondo civile la vorrebbe”. L’idea immaginifica cadde nel più assordante silenzio dei decisori politici nazionali e locali, ebbe unicamente qualche eco a livello internazionale. In ogni caso pur essendo al di fuori del quadro istituzionale vigente ieri (come oggi), poteva essere tentata una richiesta per istituire una zona franca almeno per l’Area Marciana e per lo stesso Porto di Venezia, ricalcando lo status speciale ritagliato per il porto di Trieste e concesso il 18 marzo 1719 dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo e finora conservato per quel territorio dallo Stato italiano. Ma si sa, da noi abbiamo il pallino delle grandi opere che tutto risolvono, giusto per scrivere fake news. Tornando all’immarcescibile normalità, nel corso degli anni seguenti la grande alluvione furono vagliati molti progetti e nell’aprile del 1984 fu scelta la soluzione delle dighe a scomparsa. Successivamente fu un comitato interministeriale per la salvaguardia di Venezia, meglio noto come Comitatone, che il 3 aprile del 2003 approvò in via definitiva il progetto del Mose. Il mese dopo, l’allora Premier Silvio Berlusconi pose la prima pietra, accompagnato nell’occasione dal fedele Giancarlo Galan, Presidente della Regione Veneto poi indagato nel 2014 e condannato successivamente per corruzione continuata. Oltre al detronizzato governatore, sempre sostenuto dalla Lega che con il “prode” Zaia in Giunta in quegli anni nulla vedeva, sentiva, percepiva; sono state coinvolte altre 35 persone per aver preso mazzette e falsificato fatture. Alcuni nomi eccellenti, Altero Matteoli già ministro dei governi Berlusconi deceduto, Giorgio Orsoni sostenuto dal PD ex-sindaco di Venezia, Giampietro Marchese tesoriere e consigliere regionale PD, Renato Chisso Forza Italia, l’ex -generale della Guardia di Finanza Emilio Spaziante, l’ex magistrato delle Acque, Patrizio Cuccioletta ed, infine, due personaggi chiave, il Re del Mose morto quest’anno nella sua villa in California ovvero il Presidente del Consorzio Venezia Nuova ing. Giovanni Mazzacurati e, “l’oliatore” del sistema tangentizio Ing. Piergiorgio Baita. In totale il 16 ottobre del 2014 furono 19 gli indagati che patteggiarono davanti al giudice di Venezia ed 1 a Milano. Con il Mose ed a differenza di tangentopoli dei primi anni Novanta del secolo scorso, il salto di qualità nel rubare soldi e legalità alle comunità amministrate è evidente. Non solo esponenti di partiti, come di consueto, ma anche pezzi importanti di apparati statali tramite i propri dirigenti apicali. A trent’anni da mani pulite, nulla è cambiato; sono cresciuti l’impegno e l’ingegno per saccheggiare più in profondità le risorse pubbliche, associando anche chi -per compiti d’ufficio- doveva controllare. Davvero comico leggere sulla stampa articoli eruditi che i ritardi nella consegna del manufatto Mose, sono dovuti per lo più alla farraginosità delle procedure, allo spezzettamento delle competenze tra decine di enti. Non occorre essere eccessivamente acculturati, per sapere che in caso di gravi reati penali commessi da un’organizzazione dedicata ad uno scopo, il Consorzio Venezia Nuova casualmente l’unico concessionario per i lavori nella Laguna di Venezia, tutto procede al rallentatore. Viene il sospetto che il groviglio estenuante di procedimenti, la parcellizzazione dei poteri mal distribuiti, l’assenza di premi e vantaggi legati per chi occupa posizione di vertice assumendosi in tempo e per tempo le responsabilità connesse al ruolo, sia in effetti un tappeto predisposto perché è più facile delinquere da parte di chi ne ha la volontà e la possibilità per la funzione ricoperta. Il Mose per salvare Venezia dalle acque alte è quasi finito. In quel “quasi”, ciò che manca è appunto il motorino d’avviamento. Per questo motivo non è stato fatto funzionare di recente. È completa e pronta la parte pesante e colossale di cemento e acciaio; deve essere finito ciò che farà muovere le paratoie per chiudere fuori dalla laguna l’acqua alta. Vanno istallati compressori, attuatori, sensori, cablaggi e così via; il famoso 5% assente. Finora sono stati spesi 5,3 miliardi (tangenti comprese) su una spesa totale e finale di 5,5 miliardi stimati. Trattandosi di un modello “sperimentale” non è detto che una volta terminata la prima fase, tutto debba filare liscio. Le cerniere delle paratoie mostrano già segni di corrosione, prima ancora che il Mose sia operativo. La data di entrata in opera è prevista alla fine del 2021, con cinque anni di ritardo rispetto alla precedente tabella di marcia che fissava la data di consegna nel 2016. Trascorsi i primi tre anni di funzionamento a carico del Consorzio alias lo Stato, il costo di gestione ordinario – a norma vigente- sarà a carico degli enti locali per un costo stimato tra gli 80 ed i 90 milioni ad anno. Va da sé che i politici regionali e comunali chiederanno l’accollo della spesa al Governo, essendo questo formalmente un cantiere statale. Dubbi più pesanti sono sollevati sull’utilità stessa del Mose da parte del Prof. Carlo Giupponi, docente di Economia dell’Ambiente a Ca’ Foscari e rettore della Venice International University di San Servolo, oltre che esperto di Scienza e gestione dei cambiamenti climatici. Afferma il docente in una sua recente intervista “Venezia si è sempre adattata, nei secoli, ai fenomeni naturali a cui era esposta, a partire dall’innalzamento del livello della laguna sulla quale fu costruita oltre mille anni fa, ma ora, con l’accelerazione dei fenomeni, la sua capacità di adattamento è messa a dura a prova, e nemmeno un progetto concepito meno di vent’anni fa come il Mose riuscirà a far fronte ai cambiamenti climatici in atto. Aggiunge, per chiarire meglio il suo pensiero Gli eventi estremi sono sempre più frequenti. La situazione di questi giorni a Venezia è simile a quella che l’anno scorso ha provocato la tempesta Vaia: forti precipitazioni associate a forte vento di scirocco. Se in mille anni un fenomeno come questo ricorre un paio di volte, il fatto che queste siano avvenute in due anni consecutivi è significativo”. Staremo a vedere dopo il 2021, se Venezia sarà salvata dall’acqua “granda” in virtù del Mose o se invece, sarà sovente alluvionata causa le frequenti maree oltre i 160 cm. Comunque, non c’è da preoccuparsi accantonato l’esperimento non riuscito a danno della città e della collettività, potranno essere chiamati gli olandesi che hanno già risolto- da tempo- un analogo problema dalle loro parti e che con un decimo di quanto sperperato per il Mose, daranno la soluzione pronta e scodellata. Dove sta il problema?

Lettura suggerita: “Come fare propaganda elettorale. Gli 11 punti di Goebbels” (da “Sul Romanzo”): http://www.sulromanzo.it/blog/come-fare-propaganda-elettorale-gli-11-punti-di-goebbels

Enzo De Biasi