Gangemi, esperto di ricerca sociale e scienza politica: “Si preferiscono i cortigiani e i sondaggisti, e i risultati poi si vedono”. L’autonomia di Zaia? “Una bubbola: senza banche, che autonomia è?”.
La politica, e ancora più colpevolmente la politica di sinistra, ignora la cultura. Schemini elettoralistici e industria dei sondaggi mettono il salame sugli occhi impedendo la comprensione dei livelli più profondi della partecipazione, legati ai miti e ai simboli. E in Veneto, il centrosinistra non ne azzecca una da un bel pezzo perchè privo di uno spessore intellettuale minimo, presupposto di qualsivoglia intelligenza politica. Il compito di chi per mestiere lavora con l’intelletto dovrebbe essere questo: denunciare difetti, errori e storture. Invece, secondo l’impietosa analisi di Giuseppe Gangemi (docente di metodologia della ricerca sociale e di scienza politica e dell’amministrazione a Padova, oggi in pensione), “c’è un problema italiano, non solo veneto, per cui gli intellettuali non si trovano più fra loro, non c’è più un dibattito, perchè come riferimento hanno i partiti loro committenti”. E se la committenza vuole sentirsi dire una certa cosa, loro gliela dicono. “Certo, anche perchè – ironizza il professore – i politici oggi sono dei tuttologi, non lo sa? Hanno la scienza infusa. Non si preoccupano affatto di avere una formazione. E questo avviene ormai da anni, pensi che nel 1999, per dirle un piccolo ma significativo aneddoto, si doveva fare finalmente un convegno a Venezia sull’autonomismo per cui mi ero molto battuto. Bene: D’Alema, Veltroni e Cacciari avrebbero dovuto parlare per ore, mentre a noi esperti erano concessi solo 7 minuti a testa. Questa era ed è la realtà”.
Partiti leggeri, controllo ancora forte
Con queste premesse, per il deluso uomo di sinistra Gangemi (“io lo sono ancora, è la sinistra che non lo è più rinunciando a cambiare il mondo, per lo meno dalla morte di Berlinguer in poi”), capire l’oggi diventa un esercizio di scavo del passato. “In Italia c’erano due grandi partiti di massa, radicati e capillari: la Dc e il Pci. Il declino di quest’ultimo è cominciato già quando non capì quanto stava facendo Gorbaciov in Russia, e l’anno del disastro finale non fu il 1994, quando la coalizione capeggiata dal Pds perse contro il centrodestra di Berlusconi, ma il 1992: è in quel momento che sfuggì di mano l’occasione di diventare il primo partito”. Secondo il metodologo Gangemi, un toppata madornale fu adottare il metodo Goodman, il modello dei flussi che servì alla dirigenza comunista per guidare la trasformazione del Pci nella nuova ‘Cosa’. “Quel modello era una bufala. In sostanza, prevedeva una continuità basandola anche su numeri negativi, ma i numeri negativi non esistono, meno di zero c’è solo lo zero. Il motivo era politico: la base del partito non era così docile al cambiamento ideologico, e così, anzichè andare a discutere nelle sezioni, si preferì calcolare con criteri astrattamente matematici. Ma tu non puoi imporre una verità matematica, devi discuterla!”. In altre parole, si aggirò la fase partecipativa della democrazia diretta, arrivando all’appuntamento del ’94 con una “gioiosa macchina da guerra” (copyright Achille Occhetto) che prevedeva un range dal 20 al 17% per poter dirsi soddisfatti, mentre si raccolse un 16% (“ma Occhetto, che aveva promesso le dimissioni in caso si finisse sotto quota 17, si guardò bene dal dimettersi, ci mise un anno, e chi arrivò dopo, non si rivelò certo meglio di lui”, ovvero Massimo D’Alema, ndr). Adesso i partiti sono un’altra cosa: “Sono leggeri, ci si entra per costruirsi una carriera personale, ma il controllo lo mantegono esternamente, attraverso le banche, l’apparato pubblico, i media”. Gangemi lo sa bene perchè ha vissuto l’ostracismo sulla sua pelle: “Un bel giorno non mi fecero più scrivere sul Mattino di Padova. Così, senza dirmi niente non mi pubblicarono più. Le mie idee non erano più gradite”.
Verità effettuale, non di comodo
Le sue idee erano quelle di uno scienziato che badava all’accertamento della verità effettuale della cosa, per citare un suo autore d’elezione, Machiavelli. “Nel 20214 sostenni la lista ‘Padova 2020’ di Francesco Fiore. Tiravano fuori un sacco di sondaggi, ma io non credevo per niente a certe percentuali, mi sembravano troppo alte. Così, senza spendere un euro, mandai in giro per la città i miei studenti a intervistare i cittadini, in tre diversi passaggi della campagna elettorale. Venne fuori quel che poi accadde, e cioè che vinse il leghista Massimo Bitonci. Ma il centrosinistra preferiva affidarsi a sondaggisti che preparano misurazioni che non badano al risultato, ma a convincere, a fare propaganda. Andando avanti con i cortigiani, però, prima o poi la realtà ti viene addosso”. La morale è di una semplicità disarmante: “Girano troppi soldi nel mercato dei sondaggi”. La comunicazione, del resto, è diventata l’essenza stessa del far politica, sostituendo ideali, programmi, contenuti. Un maestro di comunicazione è certamente il presidente della Regione, Luca Zaia. “Sicuro, anche se lo stratosferico successo dell’anno scorso alle regionali non è merito suo, il Covid gli ha dato una mano. Io stesso, inizialmente, quando si affidò al virologo Crisanti, ero contento di vivere in una regione con un governatore che si attorniava di buoni consiglieri come lui. Quando, dopo il litigio su chi doveva prendersi il merito della gestione della prima ondata pandemica, i due ruppero, il Veneto se l’è vista brutta. Ma quel che voglio dire è che Zaia centra tutto sulla comunicazione perchè la sua bussola in realtà è il soldo, inteso come economia. Esempio: quando il 6 aprile Draghi parlò di ‘etica’ (un banchiere che parla di etica mi fa sempre strano) condannando chi si vaccinava passando davanti agli anziani, lo faceva perchè i tedeschi anzichè venire in Italia andavano nelle Baleari, per il semplice fatto che guardavano gli indici di mortalità, mica se vaccinavamo i bagnini, come diceva qualcuno fra cui Zaia. Il quale se la prese parecchio ma, non essendo stupido, ha fatto velocizzare la vaccinazioni per gli over 60. E lo ha fatto pensando al turismo”.
Autonomismo fasullo
Prima dell’era Covid, però, Zaia aveva fabbricato il suo personale mito di consenso pescandolo nell’immaginario della primigenia Liga Veneta: l’autonomia. Gangemi già più di vent’anni fa metteva in guardia la sinistra dal sottovalutare la potenza dell’aspetto identitario. Ora, tuttavia, la faccenda è diversa: “Ha detto bene: il suo mito. L’autonomia di oggi è una bubbola, una colossale stupidata. Il referendum del 2017 è servito solo a Zaia, perchè l’autonomia nella Costituzione c’è già, si tratta di attivarla, e infatti ora è ferma nel negoziato a Roma. La differenza la fa chi sta al governo, perchè è il governo che poi stabilisce i decreti attuativi, è lì che si gioca la partita. Fu così anche con la riforma del Titolo V della Costituzione, che non giunse ad una applicazione estrema, pericolosa, solo perchè il governo Berlusconi che raccolse il risultato del referendum cadde”. Secondo Gangemi, Zaia è solo un abile galleggiatore: “Diventò un esponente nazionale quando Bossi lo scelse come ministro dell’Agricoltura in quanto non rappresentava un pericolo, per lui. E fu con Zaia che liquidò la vecchia guardia lighista”. Resta che l’autonomia per i Veneti è un totem popolarissimo, segno che tocca le corde dell’animo della maggioranza. “I veneti sono autonomisti proprio per mentalità. Ma allora il centrosinistra dovrebbe proporre una sua alternativa di autonomia con un senso, non come fa Zaia che la lascia indefinita”. Il senso si rintraccia in realtà molto solide, tutt’altro che sentimentali: “Il Veneto ha avuto una sua importanza perchè fin dal’Ottocento ha creato un sistema locale di banche cooperative. Oggi non ce l’ha più, per colpa della politica che le ha fatte fallire, oltre che degli amministratori che hanno le loro responsabilità. Senza banche, senza un mito autentico, che autonomismo vuoi fare?”. Nel frattempo Zaia domina incontrastato e il centrosinistra veneto vivacchia. Gangemi, allargando le braccia, conclude: “Le racconto questa. Nel 2000 si doveva scrivere il nuovo Statuto regionale. Ho partecipato anch’io al gruppo di lavoro che doveva fornire una proposta diversa da quella dell’allora governatore Giancarlo Galan. Aspettammo invano, con Cacciari e altri, il costituzionalista Mario Bertolissi, che infatti poi lavorò per Galan e successivamente per Zaia. Io avevo proposto la formula ‘la sovranità appartiene al popolo veneto’. Martinazzoli (primo segretario del Ppi dopo la fine della Dc, ndr) disse che era troppo ‘radicale’. Radicale lo era, ma senza effetti concreti. La fecero cambiare, sostituendola con ‘la sovranità appartiene al consiglio regionale’. Ma questa sì che aveva effetti concretamente secessionisti! La verità è questa: il centrosinistra non solo non ha un Bertolissi, ma non aveva e non ha proprio le basi”. Sipario.