Il giornalismo dello Zaiastan, il paese dei farlocchi

Indifferenza generale per l’intimidazione al cronista di Verona. Solo l’ultima conferma di uno spaventoso vuoto d’informazione alternativa nella Regione a pensiero (e partito) unico


La notte dello scorso 23 giugno ignoti hanno imbrattato di spazzatura l’auto parcheggiata a due passi da casa del giornalista Andrea Tornago, collaboratore del settimanale L’Espresso e recentemente co-autore, assieme a Paolo Biondani, di un’inchiesta sull’abitazione del sindaco di centrodestra di Verona (“L’affare d’oro del sindaco di Verona Federico Sboarina: super casa in centro con maxi sconto”, 31 maggio). All’indomani del servizio, il primo cittadino del capoluogo scaligero aveva replicato parlando di “spazzatura giornalistica”. Evidentemente, sapendo dove risiede il cronista e vandalizzando di rifiuti la sua macchina, qualcuno deve averlo preso alla lettera. Tuttavia, fatta salva la doverosa solidarietà al collega, non è questo il punto che qui vogliamo toccare. E’ l’inesistente reazione dell’opinione pubblica a confermare quanto il Veneto con il tempo peggiori, anzichè migliorare: sempre più anestetizzato, indifferente, catafratto nella sua armatura di impassibilità e feudalizzato nei campanili di provincia, talchè una notizia obiettivamente grave come questa non travalica i confini veronesi, restando oggetto di indignazione soltanto per gli addetti ai lavori (sindacato della stampa) e, prevedibilmente, per le opposizioni locali (Pd, M5S). Dice: eccolo che ci rifila l’obbligata giaculatoria corporativa che lascia il tempo che trova. Niente affatto. Non è il menefreghismo per il singolo episodio, per quanto ignobile, che ci allarma. A deprimerci è la causa a monte che lo genera.

Ripassare Freud

Una causa nota ma rimossa: l’assenza pressocchè totale di giornalismo critico, ossia di giornalismo tout court, nel Veneto delle meraviglie dove tutto va da dio, ogni sfida è vinta e i treni arrivano in orario. I Veneti si dicono spessissimo da soli, ogni santo giorno, che sono gente che si rimbocca le maniche, formidabili nel privato, efficienti nel pubblico, industriosi, lungimiranti, tutti volontà d’acciaio e bontà di cuore. Praticamente perfetti. Ad aver fondato le sue fortune su tale edificante autoritratto è Luca Zaia, finora imbattibile nell’impersonare lo specchio riflesso di un’immagine tanto oleografica quanto, ovviamente, falsata. Perchè è questa la tara del veneto medio, senz’altro dotato di indubbie qualità: essere campione di quel subdolo e distorcente meccanismo che è la rimozione. Non si contenta che le cose funzionino, esige che si neghi nel modo più assoluto che vi sia qualche cosa, com’è naturale, che non funzioni. Non accetta che gli vengano riconosciuti solo i meriti, pretende che non si parli dei demeriti. Intollerante alle divergenze d’idee, malsopportate come tignosità da disturbatori, si compiace di un racconto di sè unilaterale, monco delle zone d’ombra e dei risvolti necessariamente negativi che anche l’abitudine più sana si trascina dietro, se stirata all’eccesso e resa totalizzante.

Sine grano salis

Mi spiego. L’asse portante dei tipici valori da agiografia venetista è lo sviluppo economico, senza il quale non c’è benessere, alias ricchezza (intesa come soldi da investire per fare altri soldi). Senza richiamare qui la differenza fra sviluppo come progresso e crescita come aumento puramente numerico – di tutto, ma proprio tutto, purchè calcolabile: più Pil, più export, più strade, più, più, più – va da sè che se al centro delle condizioni di vita viene messo l’accrescimento quantitativo e non si ragiona mai sull’innalzamento qualitativo, l’esito non potrà che essere, come infatti è, uno: l’ostracizzazione dei mali inevitabili che una tale ipertrofia comporta, ineluttabilmente. Detta semplice: non si vede perchè mai il Veneto debba risultare esente dai problemi per cui, facendo qualche esempio, se Venezia viene piallata da un turismo scriteriato e navi-godzilla, ci si ammuttolisce stupiti quando scatta, giustamente, il pesantissimo anatema dell’Unesco; o se il paesaggio è ricoperto con nastri d’asfalto pagati uno sproposito (Pedemontana) nessuno debba permettersi di ostacolare il manovratore, guai, alla gogna; o se collassa l’intero sistema bancario locale, un tempo gloria e fasto del tanto declamato spirito d’iniziativa, beh, pazienza, nessuno ai piani alti fa un plissè, chi ha avuto ha avuto chi ha dato chi ha dato; o se la sanità va tutto sommato bene ma non è questa decantata eccellenza (sanguinosissimi project financing, liste d’attesa da bestemmia multipla, tagli di ospedali con relativi disagi), solo a dirlo si passa per traditori disfattisti nemici del popolo. Il perchè è chiaro come il sole: chi osa incrinare lo storytelling da marketing aziendalista, quindi logicamente perculante e farloccone come ogni brava pubblicità ha da essere nel mostrarti la mela liscia e luccicante che poi non sa di niente, è un rompiscatole non solo inutile, ma specialmente dannoso. Un ostacolo da rimuovere, un impedimento che la mentalità padronale neppure concepisce , tanto appare alieno dall’obbiettivo, a maggior ragione se l’obbiettivo è esclusivamente assicurare che giri più grano, punto e stop.

Squilibrio permanente

Un giornalista che faccia il giornalista è uno straniero, qui. Non è che venga semplicemente osteggiato: non viene proprio capito. Per quale stramaledettissimo motivo deve incaponirsi a ravanare nel torbido? Meglio se ne stia buono, a trasformare veline in articoli e camuffare monologhi senza contraddittorio in conferenze stampa. Il suo ruolo, che sarebbe quello di scovare le magagne e non di affiancarsi agli uffici stampa nel suonare flauti e trombe, trova la terra bruciata intorno. Fino a quando, di tanto in tanto, non si sente qualcuno, neanche pochi, lamentarsi per il vuoto di informazione non diciamo d’assalto ma appena decente, equilibrata, nel senso di ridare un minimo di equilibrio a un’orchestra che esegue un solo spartito, sempre quello, filo-governativo per antonomasia, immancabilmente dalla parte del più forte (cioè di chi scaraventa sulla bilancia più schei e più influenze), delle solite compagnie di giro, della giostra dei casca-in-piedi succhiasangue dal sorriso Durban’s. I fabbricanti matricolati di soffietti ingolfano le testate, mentre l’ingenuo che aspirerebbe a svolgere uno dei mestieri teoricamente più belli del mondo si vede costretto o a mollare o a chinare il capo, umiliandosi a una vita professionale da impiegato kafkiano.

Super? Chissà

Dove sono, accidenti, i veneti stufi di questa turpe salmodia da truffatori, i veneti di mente giusto un po’ più aperta, che pure ci sono? In quale bugigattolo di ignavia si nascondono i veneti che avrebbero i denari – non che ne servano molti – per rompere la parete da Truman Show al baccalà, che oggi chiamasi Zaiastan e un domani avrà solo una diversa intestazione? Esistono ma non lottano in mezzo a noi, pare, i Superveneti – scuserete l’autocitazione, ma quest’ultimo contributo prima della pausa estiva mi consente la licenza poetica – cioè quella consistente minoranza di non omologati di cui parlava Natalino Balasso in un video di cui sono il principale colpevole. Se ci siete, veneti a cui preme al fondo dell’anima vivere in un posto non solo più funzionale, econometrico e zamb zamb tumb tumb, ma pure un po’ più trasparente, democratico, respirabile, ricco di vivacità culturale e, se Dio vuole, a misura d’uomo, l’uomo in carne e ossa, come me e come voi, non il facchino mangiacemento che suda per arrivare ulcerato alla pensione, allora, cari i miei dormienti non del tutto ancora arresi, fatevi un piacere: battete un colpo.

Alessio Mannino

alessio.mannino@gmail.com