La ricostruzione dei leganti comunitari e le inedite responsabilità delle Associazioni di rappresentanza/ Intervista al dott. Mirco Casteller
Ha fatto una furtiva apparizione nei giorni la scorsi notizia di un altro povero artigiano che, sopraffatto dalla notifica di un debito molto superiore alla sua capacità di farvi fronte ha tentato il suicidio in Tribunale a Treviso.
Una storia come tante, iniziata nel 2008 con la crisi economica e aggravata oggi dall’emergenza sanitaria in atto, che non stupirebbe se ad aggravare la condizione finanziaria del malcapitato non avessero contribuito anche i debiti verso una delle Associazione più importanti della provincia di Treviso.
Un episodio che inquieta molti imprenditori e cittadini perché vi si legge una sorta di tradimento, ovvero il disconoscimento della delega fiduciaria che attraverso la rappresentanza viene affidata alle Associazioni di categoria degli imprenditori.
Cosa sta succedendo? Perché si arriva al limite di chiedere i soldi ai propri soci in mora senza averli preventivamente assistiti ed orientati ad affrontare i problemi?
Le risposte vanno ricercate nel tramonto del principio mutualistico che ha generato la partecipazione associativa e nella deriva di ‘logiche di bilancio’ subentrate con la ‘vendita dei servizi’.
Cosicchè la gestione di una busta paga e la consulenza per la contabilità hanno assunto più importanza e valore rispetto all’esistenza stessa delle imprese e, soprattutto, dei loro titolari.
Abbiamo così assistito, in questi ultimi anni, a molti tragici epiloghi di crisi aziendali ed a molte vicende nelle quali ha prevalso la straziante realtà della morte per suicidio di un congiunto del titolare.
In particolare sono state le vite degli imprenditori del Nord Est ad essere oscurate da questa nube tossica.
Una recente indagine dell’Osservatorio ‘Suicidi per motivazioni economiche’ della Link Campus University ha evidenziato che i casi di suicidio sono in crescita, quasi mille morti dal 2012 ed un tasso di crescita del 23,6%.
Il dato statistico evidenzia che I suicidi per ‘motivazioni economiche’ sono in aumento ed il fenomeno riguarda principalmente il Nord-Est Italia. Esso va in controtendenza rispetto al tasso di suicidi nel mondo che, dal 1994 ad oggi, è sceso del 38%, che sta a significare più di 4 milioni di persone in meno.
L’anno con più suicidi per ‘motivazioni economiche’ è stato il 2014 con 201 morti seguito dal 2015 con 189. La fascia d’età più colpita è quella che va dai 45 ai 54 anni con il 34,1% dei casi, seguita dalle persone dai 55 ai 64 anni per il 25,2% dei suicidi.
Se si guarda il dato complessivo dei 7 anni presi in esame, inoltre, si osserva come sia il Nord-Est che ha il tasso di suicidi per ‘motivazioni economiche’ maggiore, con il 24,5% dei casi, ed in particolare il Veneto con le province di Padova, Venezia e Treviso.
La categoria ad essere più colpita infine è quella degli imprenditori. Il 45,8% dei casi riguarda loro, mentre al secondo posto di questa triste classifica troviamo i disoccupati con il 40,1%.
E proprio prendendo spunto dalla cronaca trevigiana abbiamo voluto chiedere al dott. Mirco Casteller – Psicologo ed Economista – docente presso la LUMSA Roma, ma anche residente e profondo conoscitore della Marca, di farci comprendere il significato e le correlazioni dell’ultimo episodio con la fenomenologia dei lutti nella nostra storia recente.
Che cosa sta succedendo nel Nord est ?
In tempi recenti, un numero sempre crescente di persone preoccupate vengono presso il mio studio e si chiedono “perche?” e “che cosa possiamo fare per quello che è successo”?
Fino a poco tempo fa, il suicidio era raro in Italia. E Tuttora resta raro in molte parti del mondo. Sono molteplici i fattori della nostra cultura che hanno costituito la causa principale dei traumi psicologici vissuti dai protagonisti economici.
Mi spieghi in che senso
Se noi guardiamo al passato, nella storia di qualsiasi società moderna, si è assistito ad un incremento delle morti volontarie proprio nei momenti di crisi o di disastro economico, prima o dopo le rivoluzioni, nei casi di improvvise variazioni dello status socio-economico, in quei momenti cioè in cui l’equilibrio sociale vigente si rompe e si orienta verso una trasformazione futura.
Codesta prevedibilità, lei afferma, significa che tutti noi siamo co-responsabili delle morti a cui abbiamo assistito?
Come detto se viene meno la regolamentazione che garantiva equilibrio, le persone non trovano più nella società un’autorità che segni con precisione i limiti oltre ai quali essi non possono andare ed entro i quali essi devono rimanere.
Nella società moderna non ci sono più forze espresse da alcuno in grado di porre quei limiti.
Quindi si cade in quello che viene detto dagli studiosi suicidio anomico.
E la solitudine, le difficolta economiche che spesso vengono additate per ‘giustificare’ gli atti estremi?
Appunto, dice correttamente giustificare. Ma il tema non è giustificare; i soggetti che si tolgono la vita oggi, rispetto a 10 anni fa o a 20 anni orsono hanno un fattore costante e comune che li contraddistingue …. non sanno più che cosa è possibile e che cosa non lo è, ciò che è giusto e ciò che non è giusto, quali sono le speranze legittime e quali quelle che vanno oltre la misura del reale.
In sostanza oggi, i suicidi in Veneto, e anche recentemente nella nostra castellana, avvengono in concomitanza della rapida trasformazione che la crisi economica ha innescato nel tessuto produttivo sociale del nostro territorio.
Ma sono per la gran parte suicidi anomici, come li definì Durkheim, e sono frutto di un processo disgregativo della Comunità.
La forte connessione tra economia e società amplifica la crisi e diventa una delle cause principali che genera insicurezza e turbamento.
La trasformazione in atto e l’incertezza sanitaria provocata da Covid 19, stanno penetrando ancor più profondamente del passato nel tessuto sociale tanto da lasciare un segno indelebile nella coscienza di tutti, non solo di coloro che hanno deciso di togliersi la vita e di chi stava loro vicino.
Quali sono allora i fattori principali che determinano le scelte estreme?
Esistono delle costanti che danno vita ai suicidi anomici.
Due sono i fattori determinanti, l’individualismo crescente del tessuto sociale veneto e l’onore e l’impegno messi a dura prova dalla condizione di precarietà.
Sul primo fattore basti pensare a ciò a cui assistiamo, con l’erosione di quelle forme di vita associative che un tempo garantivano efficacemente la coesione sociale (la crisi della politica, dell’associazionismo e l’allontanamento dalla Chiesa sono dei buoni esempi) e questo pone chiunque di fronte alla necessità di darsi delle risposte individuali.
Le protezioni del passato non ci sono più, siamo soli con noi stessi e ci dobbiamo guardare alla specchio.
Il secondo fattore, l’onore e l’impegno, è decisivo per capire cosa sta avvenendo.
Nel nostro Nord Est se parlassimo solo di individualismo non capiremmo: esiste un altro elemento che a mio avviso porta alle scelte drammatiche di questi uomini e donne che decidono di compiere un gesto estremo, non esiste solo una cupa visione del futuro sempre più ambiguo, ma anche un profondo senso dell’etica.
I veneti ritengono che licenziare o avviare alla cassa integrazione i propri collaboratori, fallire o risultare insolventi, è considerato una vergogna. Siamo di fronte ad imprese famigliari, fatte di piccoli imprenditori che prima erano spesso dipendenti, e dopo anni di sacrifici hanno dato vita a un’attività che spesso viene vista e considerata come un figlio, forse il primogenito, da accudire.
Il rispetto degli accordi, la parola data, il ‘fare’, sono valori fondamentali nella società veneta, che si traducono in un codice d’onore non scritto, talmente ‘riconosciuto’ da far preferire la morte alla perdita di onore.
Vista così sembra un paradosso!
Si è così, a ben guardare si realizza una sorta di paradosso in cui il gesto degli imprenditori che decidono di togliersi la vita rappresenta quasi una ribellione estrema e fatale contro l’incertezza che accentua ogni fatica e difficoltà.
Sembra in altre parole che gli imprenditori si sacrifichino in nome di un senso di giustizia sociale ed economica che non riescono più a trovare, non riconoscendo un Veneto diverso e profondamente trasformato.
Dobbiamo avere grande attenzione e rispetto per le scelte di questi uomini e donne.
Mi vien da dire che non possiamo esimerci dal cercare soluzioni
Se cerchiamo soluzioni morali, possiamo illuderci che le varie iniziative messe in atto costituiscano una risposta valida.
Personalmente, da psicologo costruttivista e cattolico ritengo che dentro a ogni persona esista una condizione di equilibrio nella quale la vita rappresenta una parte ma non il tutto.
Prendere consapevolezza della sofferenza, affrontarla e poi superarla con l’aiuto di una rete vera di relazioni, non di like, rompendo il muro del codice d’onore e dell’individualismo e parlarsi potrebbe essere il primo passo verso la direzione giusta.
Naturalmente la Rete quella virtuale di internet non ci aiuta; in essa, mi creda, l’unico prodotto che viene venduto è uomo, e se uomo è il prodotto della rete la vita dell’uomo è semplicemente una variabile economica per fare profitto, e spegnerla può essere una scelta possibile, persino utile.
Dobbiamo far capire che non si può decidere di spegnere la vita, bisogna far capire che farsi aiutare non è segno di debolezza ma è normale in una società così diversa.
In questa situazione inedita quale compito spetta alle Associazioni di categoria?
Alle Associazioni è affidata molta parte della democrazia economica in Italia, ma esse ormai vivono la sindrome della ‘sofferenza di rappresentatività’ dovuta a problemi di gestione interna, ovvero ad incapacità di adeguarsi ai mutati scenari e soprattutto ad una perdita di contatto e di dialogo con la base
In sostanza, le risposte vanno ricercate, non più nel principio mutualistico con cui questi organismi hanno avuto origine, ma nella deriva spinta nel rispondere a logiche di bilancio sovraordinate dalla vendita dei servizi.
Sembra quasi che la gestione di una busta paga, la consulenza per la contabilità abbiano assunto più valore della vita delle imprese e dei loro stessi titolari.
Per questa ragione non si ha interesse ad avvisare per tempo l’imprenditore dei rischi che corre ed addirittura ci si costituisce parte lesa nei suoi confronti nella fase ormai letteralmente terminale della vita dell’impresa (che nei casi più drammatici coinvolge anche il suo titolare).
E necessario a questo punto ritrovare e ridefinire a mio avviso alcuni punti fermi:
- la rappresentanza deve tradurre valori di identità, di sussidiarietà, di condivisione, operando una torsione da “rappresentanza di servizi” al “servizio della rappresentanza”.
- La centralità del socio: non un numero corrispondente alle pratiche di paghe, contabilità , bilanci… ma una realtà esistenziale (individuale, familiare, economico-sociale).
- Inoltre e soprattutto la rappresentanza non è una leva per ‘percorsi e vantaggi individuali’ di potere: il collateralismo con le istituzioni deve mirare al bene comune.
- E’ quindi necessaria la creazione di un sistema in cui fornire non solo benefici materiali, pur essenziali (pensiamo alla gamma di servizi alle imprese che nel corso degli anni si sono moltiplicati in rapporto alle incombenze burocratiche-amministrative-fiscali introdotte dalla legislazione), ma soprattutto beni immateriali quali il senso di responsabilità, comportamenti etici, credibilità, reputazione, fondamentali per l’avvio di un nuovo modello di sviluppo che diventi fattore di crescita per tutti ed efficace, tempestivo ombrello protettivo per i soggetti più fragili.
Dino Bertocco