VIRITALY 2020. Paure, incertezze e speranze nell’Italia contagiata

Presentazione del libro “Viritaly. Paure, incertezze e speranze nell’Italia contagiata” pubblicato dalla casa editrice ferrarese La Carmelina.
Un instant book scritto a due mani da Paolo Giaretta, sindaco di Padova dal 1987 al 1993 e sottosegretario al Ministero dello sviluppo economico del secondo governo Prodi, e a Filiberto Tartaglia, sociologo e semiologo, docente di marketing, teoria e tecnica della comunicazione pubblica all’Università di Ferrara nonché sociologia del lavoro e dell’organizzazione all’Università di Firenze

Da un punto di vista evoluzionistico,
la lotta dell’uomo alle malattie
appare più che altro come una resistenza
a una guerra senza fine.

Roy Porter, Breve ma veridica
storia della medicina occidentale

Tutta l’infelicità degli uomini proviene
da una cosa sola: dal non saper
restare tranquilli in una camera.
Blaise Pascal, Pensieri


Quello che è accaduto e sta accadendo e di conseguenza accadrà ci obbliga a ripensare parecchie cose, forse quasi tutto. Anche la globalizzazione. Da più di quarant’anni, ormai, economisti e sociologi ci hanno spiegato a sufficienza cosa vuol dire. Significa che per mercati e finanza le frontiere non esistono più. La Storia ci insegna che prima della globalizzazione economica erano gli eserciti a violare i confini. Ora sono i turisti e i migranti.

Graditissimi i primi, meno i secondi. In ogni caso, le persone che si muovono da un capo all’altro del pianeta portano con sé le loro esperienze e i loro modi di vivere. Ma trasportano anche i virus. Da sempre.

«Quando gli uomini colonizzarono il pianeta, essi stessi furono colonizzati dagli agenti patogeni. Fra questi vanno annoverati i parassiti e gli insetti – elminti, pulci, zecche e artropodi – come pure microrganismi quali batteri, virus, e protozoi, la cui velocissima riproduzione dà luogo a varie malattie in un ospite, sebbene – di solito non tutto il male viene per nuocere – provochi nei sopravvissuti una certa immunità rispetto al rischio di una nuova infezione. Questi microscopici nemici rimasero intrappolati nelle lotte per la sopravvivenza caratterizzate non da vincitori e vinti ma da una scomoda coabitazione».

Citazione scientifica, da Roy Porter, docente di Storia Sociale della Medicina allo University College di Londra.

Scomoda verità, la sua. Non dimentichiamo che il virus del morbillo è passato all’homo sapiens dopo che aveva addomesticato i bovini. Gli esseri umani, al netto dell’immunità innata, sono tutti infetti, anche quando non si ammalano. Ce lo dice la scienza. I virus, insomma, li ospitiamo da sempre nel nostro corpo. E la linguistica ci ricorda la contraddittoria radice di hospes, che vuol dire anche nemico. Del resto, il genocidio che gli europei realizzarono con i conquistadores in America Latina fu sostenuto anche dal diffondersi di bacilli e virus che gli invasori portarono con sé, per i quali quelle popolazioni non possedevano gli anticorpi: colera, morbillo, influenza suina.

Siamo troppo abituati alla semplificazione, alla superficialità, alla rimozione. Una caratteristica dei nostri tempi è la scarsa fiducia nella scienza anche se, stranamente, ne abbiamo addirittura troppa nella tecnologia che le è figlia. La prima, vuole spiegare i fatti del mondo con metodo e dubbio. La tecnologia è sempre stata più arrogante, soprattutto da quando ci ha abituato alla spettacolare velocità delle innovazioni digitali.

Entrambe non ci hanno certo liberato dall’irrazionalità, dalle  superstizioni, dai pregiudizi, dalla paura, nonostante il supporto oracolare del web. Anche la medicina soggiace al principio di indeterminatezza, che è l’onesta ammissione dei limiti di conoscenza e previsione della scienza. L’arte di Ippocrate si definisce addirittura, con umiltà, come la scienza dei rimedi possibili.

Ai tempi del Coronavirus vale proprio la pena di ricordare tanto minimalismo, associandolo magari all’altrettanto umile principio del primum non nŏcēre, “per prima cosa, non nuocere”.

Di fronte al veloce propagarsi della pandemia ci siamo spaventati. Come succede da millenni davanti a qualsiasi accadimento inaspettato. Grandi paure collettive, come quella di contrarre la peste e la lebbra. Ne parlano antichi testi egizi ed ittiti e anche la Bibbia. Nell’Antico Testamento è castigo di Dio.

Nel Medioevo, la sua ricorrenza ciclica generava uno stato di angoscia permanente. La demografia e l’economia di intere nazioni ne uscivano sconvolte. Le due malattie hanno generato  il capro espiatorio: alla peste corrispondeva l’untore, il lebbroso era il diverso per antonomasia.

Se l’appestato era sospettato di diffondere il contagio con sostanze infettanti, il lebbroso evidenziava nella mutilazione e corruzione del corpo la sua colpevole pericolosità sociale.

Entrambi erano passibili di linciaggio, evento vittimario che fin dalla notte dei tempi traduce in azione violenta stereotipi mentali e atteggiamenti persecutori. Poi, altre paure storicamente più recenti: la sifilide, la spagnola, l’asiatica, l’Aids, l’aviaria, la mucca pazza, la SARS, l’influenza suina, Ebola. Ne possiamo aggiungere altre non sanitarie come il baco del millennio, l’11 settembre 2001, Lehman Brothers nel 2008 e i millenarismi vari, come la profezia dei Maya che fissava la fine del mondo nel 2012. Angosce sempre distribuite democraticamente, interclassiste, trasversali e comunque globalizzate, con l’invariante universale del capro espiatorio e della caccia all’untore. E della paura, naturalmente. Eppure noi postmoderni, inebriati dai fantastici progressi della medicina, avevamo dimenticato la nostra costitutiva fragilità biologica. Come dire che il Coronavirus ci ha trovati impreparati anche culturalmente.

La nostra è piuttosto una cultura alimentata del mito dell’onnipotenza.

E non ci rassicurano i media, colonizzati da esperti di tutti i tipi, equamente divisi fra apocalittici e integrati. Qualcuno di loro ha ricordato la teoria del cigno nero, metafora riferita a un evento non previsto, che ha effetti rilevanti, razionalizzato inappropriatamente a posteriori e poi giudicato presuntuosamente prevedibile. Dobbiamo questa teoria al matematico Nassim Nicholas Taleb che l’ha applicata in tutti i campi, dalle scienze cosiddette esatte a quelle cosiddette umane. Riguarda gli eventi anormali, rari, eccezionali, incontrollabili, inaspettati, straordinari, di cui è impossibile calcolare la probabilità che si verifichino.

L’impossibilità delle previsioni disorienta gravemente persone e istituzioni, costitutivamente impreparate a governare l’imprevisto. Vedere anche un solo cigno nero quando li si credeva tutti bianchi ha messo in crisi pure la scienza, modelli pre-visionali compresi.

Nei dibattiti televisivi e nei giornali è stato scarsamente utilizzato un aggettivo, complementare a globalizzato: glocale.

Si tratta – come è facilmente intuibile – di una parola composta da globale e locale e la sua origine ha a che fare con l’economia.

Infatti, significa «adattare un prodotto standardizzato a livello globale a differenti mercati locali». L’uso linguistico si è esteso ad altri aspetti della nostra complessa postmodernità. Naturalmente, abbiamo tutti la possibilità di essere glocali, anche grazie al web. Il termine può consentirci di concettualizzare assieme il particolare e l’universale, come pure l’individuale e il collettivo, lo specifico e il generale. Ma, soprattutto, apre alla possibilità di considerare il duplice aspetto di qualsiasi crisi, il rischio e l’opportunità. Insomma, al tempo del Covid-19, non sarebbe male pensare glocalmente.

Di questo e altro ci siamo impegnati a scrivere a quattro mani, in una concordata divisione dei compiti, ovviamente da remoto. Nelle rispettive argomentazioni ci sono dei punti di contatto che sfiorano la sovrapposizione, come in qualsiasi dialogo che condivida un comune sentire.

Abbiamo cominciato, nel primo capitolo, da non specialisti, con una timida incursione negli sterminati territori della biologia, indugiando con una certa soggezione nei dintorni dell’epidemiologia.

Nel secondo capitolo è descritto l’itinerario del virus che è partito in data incerta da Wuhan, Cina. L’approdo a Vo’ è anche stata la linea ideale di congiunzione fra due metodi d’intervento sostanzialmente simili, estesi poi anche altrove, sia pur con significative varianti.

I primi due capitoli sono i più difficili (per noi!). Per riportare l’interpretazione scientifica della pandemia è opportuna l’autocritica preventiva: si parla cartesianamente di metodo e di dubbio, ma in situazioni come questa, la prudenza non è  mai troppa. Meglio affidarsi al condizionale, un modo verbale che implica una successiva, necessità di verifica. Ce lo confermano anche gli scienziati, che ci ricordano che la ricerca si alimenta anche dei se e dei ma. Per ulteriore sicurezza, è stato utile ricorrere agli avverbi di dubbio, che possono moderare predicati già prudenti. Ciò, per mettere il più possibile ordine sui dati riferiti ai fatti e sulle citazioni. Dati, dati e ancora dati. Di questi si ha bisogno, anche se c’è chi dice che i fatti non esistono, che esistono solo le opinioni.

Il terzo capitolo parla appunto di dati, numeri e delle parole per dire l’ansia, l’incertezza e la paura degli italiani, e non solo. Comprende anche qualche riflessione sull’opportunità di rivisitare vecchi significati e accoglierne di nuovi. Un accadimento imprevisto può avere bisogno di parole nuove. Il capitolo tratta di comunicazione, di pretese di verità, credibili e discutibili, di informazioni vere e false. E delle loro conseguenze. Soprattutto qui dichiariamo anche le nostre opinioni, oltre a riportare quelle degli altri, esperti e non.

Il quarto capitolo invita a riflettere sulle nuove forme della paura generate dal Covid-19. Non manca in questa sezione l’uso delle metafore, che sono formidabili strumenti semantici per farsi capire meglio. Come parlare del rischio contagio analogamente a quello di andare contromano in bicicletta.

Il Coronavirus ha provocato, sta provocando e provocherà effetti epocali. Sebbene sia diventato difficile distinguere tra la gravità di eventi concatenati, separare ancora quelli collaterali dalla causa principale può aiutare a riclassificare priorità e urgenze.

Incombenza che è già cominciata ma che, quando tutto sarà finito, diventerà…prioritaria e urgente per ciascuno di noi e per le istituzioni. Tutte, nazionali, europee, mondiali. Si è cercato di dirlo al meglio nel quinto capitolo.

Ma l’agenda politica è già cambiata, come si legge nel sesto capitolo. Sparite le presunte invasioni di barconi, i temi della sicurezza urbana, bisogna fare i conti con un’altra invasione reale, che non si presta ad essere affrontata con slogan. Non ci dovrebbero essere, almeno stavolta, nemici da additare all’opinione pubblica.

Una delle conseguenze – niente affatto collaterale – dovrebbe essere una nuova, inedita, coraggiosa assunzione di responsabilità, a partire da quella individuale. Se ne trova l’auspicio e se ne spiega la necessità nel capitolo sette.

E bisogna avere la giusta misura delle cose, per poterne parlare sensatamente. Si deve riscoprire il valore di una parola detta discretamente, con competenza e rispetto. Lo si propone nell’ottavo capitolo.

Il nono capitolo se la prende con i tweet, negazione digitale del concetto di lungimiranza. Vanno bene quando le cose vanno bene. Ma la crisi della pandemia richiede altro. La veduta corta, l’azione politica schiacciata sul presente, la mancanza di una visione e di uno sguardo aperto sul futuro spiegano molto della crisi della democrazia e della sfiducia crescente nei processi democratici.

Nel decimo e ultimo capitolo, ci chiediamo cosa succederà quando la pandemia sarà cessata. Dignitosamente incerte le risposte.

Segue la conclusione che non può che essere provvisoria, con le nostre sintesi argomentative, che hanno solo la modesta pretesa riassuntiva di dire di aver detto. Non ci è possibile fissare alcun giudizio o previsione definitivi, come farà sicuramente il paziente, tollerante lettore. A proposito, gli ricordiamo che, nella divisione del lavoro argomentativo, sono di Filiberto Tartaglia i primi cinque capitoli e il decimo, mentre Paolo Giaretta è l’autore dei capitoli sesto, settimo, ottavo e nono. Sono frutto di una comune scrittura l’introduzione e la conclusione.

Un’ultima cosa. Ci sarebbe piaciuto risparmiarci e risparmiare a chi si accinge a leggere questo saggio l’abusatissima frase di Franklin Delano Roosevelt, pronunciata nel discorso di insediamento alla Presidenza degli Stati Uniti il 4 marzo del 1933, «l’unica cosa di cui aver paura è la paura stessa», ma ci è sembrata piuttosto congrua. Anche perché nel suo precedente discorso di accettazione della candidatura, davanti alla Convenzione del Partito Democratico, quello altrettanto famoso del New Deal, ricordava che si era di fronte a tempi senza precedenti ed inconsueti ma che «l’umanità esce da ogni crisi, da ogni tribolazione, da ogni catastrofe con una accresciuta dose di consapevolezza e di rispetto, con obiettivi più elevati». E anche su questa speranza vorremmo confidare.

Dino Bertocco