(Dino Bertocco)
In principio ci fu la fuga bossiana della minacciata secessione a cui fece seguito l’inseguimento populista del Centrosinistra con un progetto di destrutturazione velleitario e dissipativo delle responsabilità istituzionali e della gestione delle risorse finanziarie pubbliche, ispirato dal Ministro Bassanini e completato dal Governo di Giuliano Amato nel 2001 con quella sorta di polpettone avvelenato costituito dalla presuntuosa e demagogica Riforma del Titolo V della Costituzione, foriero di un disastroso deragliamento delle funzioni e di degrado politico amministrativo che hanno mascherato per un ventennio le questioni strutturali sottostanti alla sacrosanta domanda di riorganizzazione complessiva del Sistema: in primis la dotazione di competenze specialistiche della Dirigenza Pubblica, in secundis la reingegnerizzazione (supportata dalla digitalizzazione) di tutti gli Apparati, tertium la rifondazione della Rete degli Enti locali in particolare con il superamento della polverizzazione comunale e il ridisegno della missione delle Province baricentro territoriale del governo dei servizi e di quella delle Regioni potenziate per le attività della Programmazione, quartum l’iniezione del federalismo fiscale finalizzato alla responsabilizzazione diretta di tutti i centri di spesa.
C’è da strapparsi i cappelli nel ripercorrere l’ultimo quarto di secolo e catalogare la serie infinita di chiacchiere e demagogia con cui un intero ceto politico ha evitato accuratamente di affrontarle, rifugiandosi nella spesa assistenzialistica sfrenata, nell’uso dissennato dello spoil system, nello sfacelo di processi decisionali riguardanti infrastrutture ed opere pubbliche appesantiti se non bloccati dalla confusione e sovrapposizione delle competenze aggravate – guarda caso – dalla follia della ‘concorrenza tra Stato e Regioni’ introdotta dall’articolo 117 del Titolo V.
Questo autentico disastro annunciato si è avviluppato con una narrazione che ha ‘offerto’ all’opinione pubblica due telenovele: da un lato quella di un’altra Riforma costituzionale, stavolta ‘decisiva’ (leggi il generoso e sfortunato tentativo di Matteo Renzi), dall’altro quella del risanamento del corpo malato dello Stato, rafforzandone la guida (leggi Presidenzialismo) e spezzetandone le membra (leggi Autonomia differenziata).
Ora il Progetto di legge Calderoli opera una scelta paradossale con cui saremo costretti a fare tutti i conti: getta legna sul fuoco sotto il calderone della persistente confusione istituzionale, in un contesto di peggioramento delle fratture sociali e territoriali nel Paese.
Dino Bertocco
L’ANALISI
Autonomia, una riforma giusta fatta in modo sbagliato. Cosa non torna nel metodo Calderoli
OSCAR GIANNINO 2 FEB 2023 – il Foglio
Abbiamo realizzato un sistema che ha tutti i peggiori difetti del centralismo e del decentramento senza avere i vantaggi né dell’uno né dell’altro. Ragioni per guardare con disincanto la bandiera di Salvini approvata in cdm
Sono un sostenitore del principio del beneficio einaudiano e del modello decentrato di Stato che aveva in mente Luigi Sturzo (e non pochi membri non solo democristiani della Costituente). Credo nei vantaggi degli Stati federali, ma so bene che la storia italiana di recente e malfatta unità ci pone una sfida enorme. Abbiamo realizzato un sistema che ha tutti i peggiori difetti del centralismo e del decentramento (che non è autonomismo) senza avere i vantaggi né dell’uno né dell’altro. Ecco perché guardo con disincanto alla bandierina trionfante di Salvini apposta giovedì all’approvazione in Consiglio dei ministri della bozza di disegno di legge di attuazione dell’autonomia differenziata delle regioni ordinarie.
L’accelerata in vista delle regionali lombarde ha trasformato una questione molto seria in un torneo contrapposto di urla. E così non si va da nessuna parte. Cerchiamo di capire perché. Non è vero – glie ne va dato atto – che il ministro Calderoli non abbia introdotto novità. Cerca abilmente di evitare il primo grande problema: le 23 materie apposte in Costituzione 22 anni fa da una sinistra che credeva così di levare la bandierina alla destra, e poi fatte sornionamente approvare in referendum popolare consultivo da una destra trionfante. Molte di quelle materie sono state scelte coi piedi: spezzano in maniera suicidaria l’economia italiana su reti di trasporto, reti energetiche, rapporti commerciali con Ue ed extra Ue. L’esperienza pandemica e ucraina insegnano che bisogna semmai portare molte di quelle materie a scelte e risorse comuni europee, non certo a micromercati regionali italiani divisi e contrappoosti. Calderoli proporrà uno “spacchettamento” in ambiti di queste materie, per sminare il problema. Bene: ma finché non capiamo cosa e come, impossibile esprimersi. Era molto meglio un confronto preliminare serio di un paio di mesi in Conferenza Stato-Regioni, una riflessione comune sul fatto che diverse delle 23 materie in Costituzione sono richiedibili, ma è meglio per responsabilità nazionale non chiederle.
Secondo: è impossibile dare un giudizio sui rischi di ulteriore aggravio dei divari nei servizi pubblici essenziali tra nord e sud, finché non si capirà come si vogliono calcolare i Lep (livelli essenziali di prestazione). E qui vengono i tempi e i modi. Dopo il sì sulla bozza in cdm, il testo va per un parere alla Conferenza Unificata, poi torna in cdm. Poi va in Parlamento che dovrebbe votare la legge di attuazione. Ma prima che si stabiliscano i Lep e senza sapere un’acca di che cosa potrebbe venirne fuori. Perché sui Lep nasce una cabina di regia ad hoc, con 6 mesi per decidere su cosa calcolarli – non solo sanità e scuola, anche sui servizi per il lavoro, costo opere infrastrutturali e via proseguendo – dopodiché altri 6 mesi per calcolarli in concreto, con vasto concorso di tutti gli enti pubblici da Istat a Sose a Inps a Ragioneria di Stato. E siamo già arrivati a metà 2024. Dopodiché sui Lep il Consiglio dei Ministri emette un Dpcm, su cui Conferenza Unificata e Camere si limitano a dare un parere. Non ci siamo per niente.
Con questa procedura di voto parlamentare su una legge di attuazione senza Lep, e di un Dpcm emanato al governo senza controllo né voto parlamentare se non a numeri fatti, l’atmosfera sarà così rovente che ogni serio ragionamento di merito verrà travolto. Solo a quel punto partono le prime richieste delle regioni, dopo un mese inizia la trattativa col governo, per tutto il tempo finché non si raggiunge l’intesa che viene votata in cdm, dopo la si invia al parere di Conferenza Unificata e Camere, le cui osservazioni il governo è libero di accogliere o meno in 60 giorni. A quel punto l’intesa modificata torna alla regione. Dopodiché torna in Consiglio dei ministri che la emana come disegno di legge, e sul disegno di legge si esprime il parlamento con maggioranza assoluta dei voti. Nel più liscio dei casi, un’intesa operativa di autonomia differenziata ci sarà solo a inizio 2025. Ma il punto politico è che non si è partiti da un confronto serio né sulle materie richiedibili, né sui servizi su cui calcolare i Lep, né sul criterio finanziario e sui benchmark da utilizzare per calcolarli. E senza questi numeri nessuno sa davvero quanto tutto questo costerà, visto che è impensabile affrontare i gap del sud a finanza invariata, né chi lo pagherà e come, tra contribuente nazionale e locali. Su una materia così delicata, decidere di decidere senza dati è la certezza di decidere male. Il peggior errore da evitare.