La politica come una fiaba

di  Vittorio Lago

Spunti di riflessione per rimedi gentili contro la disaffezione alle urne


Il momento in cui la mia generazione è diventata diciottenne – diciamo il periodo tra il 2010 ed il 2015 – è coinciso perfettamente con il periodo in cui il trend dell’affluenza percentuale alle urne – ormai da parecchio tempo discendente – ha registrato il più ripido picco discendente dall’avvento della democrazia nel Paese (circa il 10% di differenza tra l’affluenza del 2008 e quella del 2018).

Non è quindi un caso se, personalmente, mi sono sempre affacciato al mondo politico con la forte consapevolezza – o convinzione – che la reale sfida della mia generazione sarebbe stata quella di invertire questa tendenza, sulla scorta di quel moderno brocardo per cui toccato il fondo, si può solo risalire, eccetera eccetera. Quel che è curioso, però, è il fatto che la mia attitudine mentale – così come quella di tanti pari età, compagni di dibattiti politici – verso l’impellente tema della disaffezione politica era di una consapevolezza meramente passiva, alimentata dalla convinzione che l’unica strada percorribile, al fine di curare i malanni individuati dall’infallibile (o supposto tale) occhio diagnostico della gioventù più illuminata (la nostra, appunto), fosse quella di applicare (o attendere) il più semplice dei rimedi: il cambio di generazione.

E, quindi, una sequela di “siamo schiavi di un sistema vecchio e malconcio, non tiene il passo della tecnologia che corre”, “pensa che è la quarta volta che mio padre è la quarta volta questa settimana che mi chiede come si legga il quotidiano online”, fino ai più recenti “bombardati come sono dalle fake news, nemmeno io andrei a votare, d’altronde per chi non c’è nato è più difficile riconoscere la differenza tra bufale e notizie reali”, hanno celato per anni un pigro fatalismo fatto di convinzioni drammaticamente distanti dalla dura verità, ossia che non solo con il passare degli anni si è registrato come pressoché nullo l’apporto di queste famigerate nuove generazioni di politicanti, ma soprattutto che erano proprio le nuove generazioni quelle che in maggior percentuale si sottraevano dalle urne.

Il rischio dello scollamento tra realtà narrata e realtà vissuta

E allora, era tutto sbagliato? Chi lo sa. Probabilmente esisteva pure un fondo di verità nella tesi per cui la classe politica ha faticato a tenere il passo, quantomeno a livello di narrazione verso l’esterno, della rapida evoluzione tecnologica, geopolitica e sociale. È legittima pure l’argomentazione secondo cui il digitale ha prodotto un cambiamento effettivamente epocale. Quel che però certamente aveva fatto oggetto di imperfetta rappresentazione, invece, era la presunta immunità da parte delle generazioni più giovani allo scollamento tra realtà narrata e realtà vissuta.

Giriamo la lancetta a un paio d’anni dopo, incamerato il dato statistico dello zero barrato alla voce dell’apporto delle nuove generazioni al processo di riforma della classe politica, nuova diagnosi: è proprio la rivoluzione digitale a creare una disaffezione alla politica (ed alla realtà sociale).

Essì, è l’epoca ad essere nociva. Il problema non era la difficoltà delle generazioni più anziane all’adattamento al mondo digitale, ma il tracimante potere distruttivo della rivoluzione digitale, che distrae, impedisce l’approfondimento, insomma…rincitrullisce. Tutti. Giovani e vecchi. Anzi! Proprio perché i giovani usano meglio e di più i dispositivi tecnologici, giocoforza sono loro ad essere in maggior numero assenti dalle urne, assuefatti in chissà quale famigerato, lobotomizzante social network. Tutto chiaro, soluzione ovvia: siamo destinati a retrocedere come specie.

Troppo facile fare ironia da narratore esterno, esco allo scoperto: io stesso ero (e in parte sono tutt’ora) tra coloro che in qualche misura hanno sostenuto questa teoria.

La lezione di Daniel Pennac

Ellissi. Un paio di mesi fa, mi è capitato tra le mani in via del tutto fortuita un testo di Daniel Pennac, uno di quei libri che si trovano nelle librerie di casa da sempre senza venir toccati mai.

Il saggio in questione si intitola Come un romanzo, e con esso Pennac sgretola con delicatezza e grande senso dell’umorismo alcune delle convinzioni dell’epoca (la pubblicazione è del 1992) relative alla presupposta crescente fatica delle giovani generazioni ad affacciarsi al mondo della lettura. Seppur scritto più di trent’anni fa, si rivela un testo tremendamente attuale, e rimane incollata al lettore l’immagine – dipinta con magistrale ironia – dei genitori al piano di sotto, che pigramente commentano la svogliatezza delle nuove generazioni, incolpando l’avvento della televisione, i troppi agi, la globalizzazione, il tutto seduti avanti lo schermo della tivù, mentre il figlio al piano di sopra si dispera davanti al mattone di 377 pagine che il professore aveva assegnato per le vacanze, ma la cui lettura ha inevitabilmente procrastinato fino alla sera prima del ritorno a scuola.

Quello che segue è un estratto del saggio, in cui l’autore, rivolgendosi direttamente ai genitori rappresentati nel racconto, rammenta come non sia passato poi così tanto tempo dai giorni in cui era il figlio a pregare i genitori a leggergli un’altra storia prima di andare a dormire, ed è semplicemente troppo bello per non venir riportato in esteso:
Cos’è dunque accaduto fra l’intimità di allora e lui adesso, arenato davanti ad un libro-scogliera, mentre noi cerchiamo di capirlo (cioè di tranquillizzarci) incolpando il secolo e la televisione – che forse abbiamo dimenticato di spegnere?
È colpa della tivù?
Il ventesimo secolo troppo “visivo”? Il diciannovesimo secolo troppo descrittivo? E perché no il diciottesimo secolo troppo razionale, il diciassettesimo secolo troppo classico, il sedicesimo troppo rinascimentale. Puskin troppo russo e Sofocle troppo morto? Come se i rapporti fra l’uomo ed il libro avessero bisogno di secoli per diradarsi.
Basta qualche anno.
Qualche settimana.
Il tempo di un malinteso.
All’epoca in cui, ai piedi del suo letto, evocavamo la mantellina di Cappuccetto rosso, e fin nei minimi dettagli, il contenuto del suo cestino, senza dimenticare le profondità del bosco, le orecchie della nonna d’un tratto divenute stranamente pelose, e il paletto dell’uscio, non ricordo che trovasse le nostre descrizioni troppo noiose.
Da allora non sono passati secoli. Ma momenti che chiamiamo la vita, a cui diamo un’andatura di eternità a forza di principi intangibili: “Bisogna leggere”
.”

Ecco, non è forse replicabile la medesima riflessione che Pennac fa per la lettura anche per la progressiva disaffezione all’agone politico, per la sempre più unanime diffidenza verso tutto ciò che è la rappresentanza partitica? Anziché riflettere su come sia cambiata la società, sulla pericolosità del digitale, sul fatto che non vi sia cura al populismo e allora tanto vale adeguarsi alla dialettica più becera e superficiale cercando di essere meno ingannevoli possibile, perché non ripercorrere che cos’è cambiato nel modo di rappresentare la politica al cittadino?

D’altronde, quel bambino che accoglie con entusiasmo la racconto di Cappuccetto rosso non è poi così diverso dal giovane che accoglie con entusiasmo la pedonalizzazione del centro storico, o di chi ascolti con altrettanto entusiasmo l’affascinante racconto di quali fossero i retroscena parlamentari a monte della privatizzazione dell’energia elettrica.

D’accordo, è ovvio che il parallelo qui rappresentato non è propriamente calzante: azione politica e lettura non sono attività sovrapponibili. Eppure, entrambe sono attività complesse, che richiedono molto tempo e che alimentano una passione graduale. E forse quindi, così come Pennac insegna rispetto alla lettura, anche per la politica lo spauracchio dell’astensionismo può venir combattuto mettendo innanzitutto da parte i dogmi del “bisogna andare a votare”, o ancor di più “bisogna attivarsi, scendere in campo, schierarsi”, che presentano il rischio di sortire l’effetto contrario, oltre che disvelare (forse) il reale obiettivo egoistico di chi le pronunci: sentirsi meno soli.

In fin dei conti siamo esseri umani, adulti o bambini, e se la soluzione per risvegliare l’amore per il libro è quello di riaccompagnarvici all’interno di esso l’adolescente come se questi fosse bambino, leggendogli un classico, perché non pensare di far lo stesso con la politica?

Senza la promessa di spostare montagne, senza il presagio di un avvenire funesto in caso di immobilismo, prendiamo per mano anche noi il nostro interlocutore “allergico alla politica”, raccontando gli aspetti più umani di essa, di quella volta in cui il consigliere di opposizione abbia starnutito così rumorosamente da svegliare il segretario che si era appisolato, e di come questo abbia aiutato a smorzare la tensione e gli abbia permesso di pronunciare un’arringa che mai in passato era stata così convincente, o di quella volta in cui, impietosito nel vedere la propria cugina alle prese con i neonati gemelli, il Ministro abbia preso a cuore l’impegno di estendere gli orari degli asili nido – per la gioia della medesima cugina e di suo marito, non tanto per i gemellini che avevano a quel punto iniziato a frequentare la materna, ma per l’ulteriore figlioletta di cui erano in dolce attesa – o, ancora, di quell’altra volta in cui la delegazione del Senatore se n’era andata in fretta e furia al termine della premiazione al Circolo Canottieri, dimenticandosi proprio del Senatore che se ne stava a fumare nel cortile interno e costringendolo così a prendere l’autobus, ma in tal modo regalandogli l’opportunità di conoscere un’insegnante di lettere orientali con cui ancora si confronta quando in aula si dibatte di risoluzioni internazionali (e, chissà, forse tra di loro c’è anche del tenero).

E di qui, non è poi così lontano il passaggio a una minor ritrosia nell’ascoltare quali siano secondo noi i benefici concreti di quella deliberazione sulla qualità dell’area che è passata l’altro giorno, quale sia il significato concreto di una tassa sugli extraprofitti, che cosa può voler dire investire sul nucleare.

Un processo graduale, gentile.

E chissà che il nostro interlocutore “allergico” non voglia approfondire anche per conto suo com’è fatta l’aula in cui il consigliere quella volta aveva starnutito così rumorosamente, o quella in cui il senatore ascolti concentrato gli interventi dei colleghi al fine di riportare fedelmente quanto udito alla sua graziosa confidente, e così facendo magari il nostro interlocutore avrà intercettato senza volerlo un interessante dibattito, poi un altro, e un altro ancora. Il piano si inclina sempre di più, la pallina scorre.