(di Dino Bertocco)
Mettiamo subito le cose in chiaro
- La cultura liberaldemocratica e riformista in tutto il mondo è sottoposta a scosse telluriche che ne stanno ridefinendo la cosmogonia valoriale, ridisegnando le mappe di radicamento sociale, riorientando la visione sulle scelte fondanti e discriminanti che attengono la funzione pubblica in economia, il governo dei processi di innovazione tecnologica e la loro torsione ai fini di uno sviluppo reso armonico con i criteri etici e scientifici dello sviluppo sostenibile.
Sul piano più proprio e specifico della riflessione critica sull’impatto che gli ideali progressisti hanno determinato per l’evoluzione della condizione socioeconomica delle popolazioni e delle nazioni più deboli e con un maggiore carico di arretratezza e di speranze di fuoriuscita dalla povertà, i risultati delle ricerche sono univoci nel dare conto del portentoso avanzamento avvenuto nell’ultimo trentennio, anche se i dati che lo testimoniano suggeriscono l’esigenza di adottare cambiamenti profondi del modello di globalizzazione e soprattutto impongono alla Sinistra di dotarsi di un nuovo pensiero in grado di aggornarne e renderne efficace l’azione di rappresentanza a e tutela degli interessi e delle attese dei cittadini ed elettori che continuano a riporre la loro fiducia ed il loro voto (come è avvenuto negli Usa con Biden) ai Leader democratici.
A tal proposito ci limitiamo a registrare il monito e le indicazioni operative formulate da Michael Sandel nel suo ultimo libro, La tirannia del merito, nel quale suggerisce di assumere come inedito baricentro strategico l’umiltà intesa come virtù essenziale ed antidoto alla Hybris meritocratica che ha egemonizzato (anche) l’universo dei leader democratici e propone una rivisitazione critica della tradizionale concezione dell’uguaglianza, facendola diventare effettivamente “una parità di condizioni ampia e democratica che consenta ai cittadini di tutti i ceti sociali di tenere la testa alta e di considerarsi partecipanti a un’impresa comune”.
- Per andare poi ad una verifica storica grossolana, ma veritiera, della filosofia politica, dei comportamenti e delle coerenze che hanno guidato i maggiori rappresentanti dello schieramento liberaldemocratico nel mondo occidentale, da Bill Clinton in poi, possiamo affermare – senza tema di smentita – che quasi tutti si sono conformati ad una concezione personalistica della meritocrazia, dandone una interpretazione entusiastica ed una applicazione estensiva di cui sono avvantaggiati tutti gli Operatori finanziari e le Grandi Imprese Multinazionali gettatisi sulla scia della liberalizzazione alla conquista ed occupazione dei Mercati globali.
Bisogna annotare che essi si sono mostrati coerenti poi nel perseguire la propria individuale affermazione diventando protagonisti profumatamente remunerati con le loro Consulenze, globali appunto in virtù dell’esperienza maturata sul campo politico-istituzionale: da Barak Obama a Tony Blair, da Gerhard Schröder a Massimo D’Alema per finire all’apprendista Matteo Renzi, si può ben dire che si sono fatti testimonial di una visione aperturista, ottimistica, espansiva degli affari trainati dalle Agenzie finanziarie nella loro molteplice varietà di settori d’intervento e di Servizi.
Il paradosso dei progressisti disattenti
La cosa curiosa e paradossale è che mentre tutto ciò accadeva, in buona parte della Sinistra politica cresceva il borbottio ideologico ed emergevano posizioni molto critiche nei confronti della Globalizzazione ritenuta la causa determinante della crisi che colpiva molti Paesi Occidentali e mordeva dolorosamente la condizione di vita di vasti strati popolari che tradizionalmente confidavano nella rappresentanza e tutela da parte della Sinistra stessa.
Ciò che in realtà è avvenuto è stato il progressivo allineamento dei Gruppi dirigenti democratici con l’establishement che si faceva carico di riorganizzare i meccanismi di regolazione dello sviluppo e di riposizionamento delle economie nazionali nello scenario internazionale in profonda mutazione.
Tutto molto opportuno e tempestivo, senonchè nel frattempo l’intera filiera della rappresentanza sociale, culturale, amministrativa, partitica e parlamentare si è posizionata ed appiattita su una lettura e concretizzazione delle strategie di cambiamento, ‘dimenticando’ di monitorare i beneficiati e gli svantaggiati di quella che retoricamente veniva giustificata e propagandata come Terza Via.
La conseguenza più clamorosa è stata che tale disattenzione ha determinato delegittimazione ed un malessere diffuso che ha gonfiato le vele della protesta populista.
Ma quella più devastante si è manifestata nel progressivo e diffuso impoverimento delle competenze necessarie per gestire la gigantesca ristrutturazione degli assetti istituzionali, degli apparati produttivi, del mercato del lavoro e dei sistemi di welfare, delegando, anzi consegnando scelte e procedure decisionali ai tecnici in possesso delle conoscenze di sistema ed in primis a quelli con le chiavi di regolazione monetaria e finanziaria.
Si è in buona sostanza innescato un meccanismo infernale di atrofizzazione della classe dirigente surrogata nelle sue funzioni eminentemente politiche da una generazione di banchieri, operanti sia nelle Istituzioni nazionali sia pubbliche che private.
L’ho fatta breve e semplice, ma a ben vedere la ‘chiamata’ di Mario Draghi da parte del Presidente Mattarella costituisce la conclusione logica e per niente sorprendente di un collasso prevedibile del sistema di rappresentanza.
Qualcuno si era fatto carico masochisticamente di annunciarlo ed ora rivendica pateticamente di avere proposto la candidatura Draghi già un anno fa non rendendosi conto dell’autodenuncia di impotenza politica (leggi il catartico Carlo Calenda) .
Qualcuno, con un tatticismo degno di migliore causa e tempismo si è assunto il compito di fare il Canary in a coal mine, ovvero di esercitare la funzione del canarino in gabbietta (leggi Parlamento) che un tempo i minatori di carbone portavano con sé in miniera per rilevare la presenza di gas letali come il grisou, e cinguettare con tutto il fiato che la governance stava per scoppiare (si chiama Matteo Renzi).
Sturm und drang all’italiana
Naturalmente il banchiere a capo del Governo, seppure evocato e/o minacciato da tempo, non poteva non provocare uno Sturm und Drang all’italiana, con una polarizzazione di cui posso dare conto segnalando gli opposti sentimenti anche di amici che stimo per la tensione intellettuale che li nutre nell’osservare e valutare il discorso pubblico.
Fatevi un breve ma esauriente viaggio nella schietta prosa di Alessio Mannino che denuncia l’horror vacui politico e dipinge il Presidente incaricato come “il Messia delle banche (che) ha il ruolo di dittatore temporaneo (nel senso che aveva questo termine nell’antica Roma) per sovrintendere alla partita del Recovery esautorando i partiti, rivelatisi inefficienti a servire gli interessi del grande capitale nordeuropeo”
Oppure, se appartenete al Partito dei Costruttori, fatevi confortare dal linguaggio sobrio e pragmatico di Natale Forlani che esulta nel veder finalmente esaudita la sua invocazione di un affidamento a Draghi da oltre un anno e sostiene che “Il governo Draghi non puo’ fare miracoli. ma riportare il buon senso e la concretezza nell’agire politico sì!”
Se osservate bene i sottotesti, le analisi convergono in un disperante riconoscimento della funzione ‘commissariale’ attribuita a SuperMario, rifiutata dall’uno, apprezzata dall’altro.
Eppure io ritengo che ci si debba concentrare su un approccio interpretativo ed operativo, di fronte all’irruzione del ‘banchiere’, più disincantato e realistico.
Certo la situazione è drammatica e poco seria allo stesso tempo.
Faccio un esempio: cosa pensate che abbiano in comune Luigi Di Maio, Matteo Salvini, Luca Zaia? Tutti e tre hanno una ‘buona impressione’ di Mario Draghi! Certo non al livello di Giancarlo Giorgetti che lo considera ‘un Ronaldo’!
Cosa pensate che abbiano in comune Matteo Renzi e Silvio Berlusconi? Ritengono entrambi alla Pippo Baudo di ‘averlo inventato loro’ l’incarico a Draghi!
E cosa accomuna i Gruppi dirigenti di M5s e del Partito Democratico: con ragioni e sentimenti diversi rimpiangono lo zio Conte, buono e mediatore, in grado di distribuire loro la dose quotidiana di metadone, illudendoli che il trattamento loro riservato fosse utile ed accettabile anche per gli italiani (in parte andandoci vicino, complice l’effetto paralizzante della pandemia).
In un tale contesto parlamentare, ritengo che tutti coloro che hanno un ruolo nel rappresentare i cittadini ed interagire con l’opinione pubblica debbano sottrarsi alla polarizzazione, non incoraggiare le tifoserie, non alimentare sentimenti catastrofistici da ultima spiaggia e non dileggiare la Politica, bensì alimentare la consapevolezza che stiamo entrando in una stagione nella quale, per quanto paradossale possa apparire, non bisogna consegnarsi nelle mani di Draghi, bensì accompagnarlo e sostenerlo nella messa in ordine dei conti e dell’allineamento del Paese con la strategia europea di contrasto della pandemia e della crisi sociale ed economico finanziaria.
Mi debbo ripetere, autocitandomi, cioè rinviando a quanto scritto nell’articolo su ‘La crisi del Governo Conte bis, un’occasione da non perdere’
“Il nuovo Presidente del Consiglio (incaricato) non è una figura salvifica, non ha poteri e funzioni che possano risanare miracolosamente una situazione drammaticamente compromessa dalla mediocrità delle rappresentanze sociali e partitiche.
E soprattutto non può essere interpretato come problem solver, con gli stessi criteri opportunistici con cui l’opinione pubblica è stata orientata a valutare l’austero ‘tecnico’ Monti e l’accomodante ‘mediatore’ Conte.
Egli rappresenta infatti una discontinuità inedita nell’iconografia nazionale.
Ed è bene affrettarci a riconoscerlo come solo ed esclusivamente la felice opportunità di far immergere tutti gli italiani in una lettura non politicista ed ideologica della realtà, diventare più consapevoli del disastro sociale ed economico-finanziario incombente, ristabilire un rapporto fiduciario con le Istituzioni non intermediato dai social network, riappropriarsi del diritto-dovere di partecipare alle scelte che coinvolgono la Comunità a tutti i livelli, riacquistare la capacità di discutere ed ascoltare le ragioni reciproche con gli interlocutori, predisporsi ad un’ immane-faticosa-entusiasmante cooperazione per il rinnovamento di un’Italia più fiduciosa nelle straordinarie risorse di cui è dotata e più generosa con i suoi cittadini e territori più svantaggiati”.
L’emergere di un tale sentimento nazionale, che senza pudore possiamo anche definire patriottico, è una risorsa decisiva perché la questione immediatamente emergente, come rimarca in una bella intervista al Corriere Economia di lunedì scorso Giuseppe De Rita, è che “anche ai Governi tecnici serve il consenso”, e che “Draghi non è un drago ed avrà bisogno di coltivare la cultura della mediazione, anche perché il populismo è esaurito”.
Per rendere l’esperienza del Governo Draghi un passo in avanti nell’adozione delle politiche e dei provvedimenti di riforma necessari è quindi decisivo che, soprattutto nell’ambito dello schieramento democratico-riformista, entri una ventata di nuova cultura politica e di comprensione della natura strutturale della crisi in corso ‘domabile’ solo attraverso la coniugazione di una massiccia dose di competenze con un approccio operativo in cui dovrebbero essere la visione e le scelte strategiche necessarie ed utili per il Paese (nei suoi gangli sociali, territoriali, infrastrutturali più fragili) e non la dissipazione clientelare-elettorale delle risorse, a dettare l’agenda politica.
Su questi temi e dilemmi naturalmente la riflessione e la discussione sono apertissime e segnalo in particolare i contributi degli amici Franco Vianello Moro, Paolo Giaretta e Carlo Rubini che le hanno affrontato con lucidità e generosità, leggendo nella crisi in corso i ‘semi’ di un corso nuovo della Politica nazionale.
http://www.luminosigiorni.it/2021/02/psicodramma-di-un-incarico/
Ed inoltre segnalo l’intervista di Arturo Parisi fresca di giornata nella quale spiega da par suo perché l’arrivo di Draghi rappresenta una crisi del sistema politico.
Dino Bertocco
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