Individuo e società di fronte al cambiamento. Saggio di Mirco Casteller

(di Mirco Casteller) Il nuovo modo di fare impresa: la moralità del profitto


Presentazione di Dino Bertocco

Nell’intenso ed appassionato intervento che pubblichiamo, Mirco Casteller ci esorta a ‘prendere coscienza della gravità del momento, ma anche delle nostre responsabilità e delle nostre risorse’.

Egli non sottovaluta la complessità delle difficoltà di una temperie che disorienta, erode certezze ed induce al pessimismo sul futuro.

Eppure, se cogliamo il suo invito, possiamo trovare nella nostra interiorità un baricentro, ritrovare fiducia in noi stessi per rimetterci in cammino, farci affascinare dalla ‘scoperta di nuovi territori’.

E’ in essi che siamo chiamati a ricostruire i fondamenti della nostra convivenza e ridare centralità al mondo delle relazioni, anche per sconfiggere   la funerea prospettiva che ‘dopo la morte di Dio, la morte del prossimo (sia) la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo’.

L’analisi che ci viene prospettata, sulle orme di precedenti articoli qui pubblicati (l’articolo di Stefano Zamagni e l’articolo di Mariana Mazzuccato) esprime non solo una sensibilità etica, ma anche una competenza professionale e scientifica maturata nell’osservazione dell’effetto più doloroso e disarmante della trasformazione socio-economica e culturale in atto, ovvero ‘l’uomo (che) cade in una fondamentale solitudine’.

Ma esistono valori e risorse immateriali che possono contrastare l’involuzione.


Saggio di Mirco Casteller. “Individuo e società di fronte al cambiamento”

Debbo iniziare confessando la mia difficoltà a leggere quanto sta succedendo in noi e attorno a noi. Un giorno un mio professore mi disse che l’approccio migliore era quello di essere consapevoli di non sapere.

Io so di non sapere, ma provo a capire e vi propongo una riflessione.

Viviamo un cambiamento “globale” e complesso ancora in pieno svolgimento per cui mi chiedo cosa stia succedendo e dove stiamo andando. A volte mi sento più spettatore che testimone. Mi pare comunque che il cambiamento in atto non guardi tanto all’umanizzazione dell’uomo, ma piuttosto all’uomo come fruitore, consumatore di beni. Supinamente accettiamo tutto ciò perché ci illudiamo che lo sviluppo economico possa in seguito produrre anche uno sviluppo umano. Per me, o si ha chiaro fin dall’inizio che le nostre attività mirano a umanizzare l’uomo, o tale obiettivo non rientrerà mai più in corsa perché sono altri gli interessi che si vogliono perseguire.1

nota -1
FRANCESCO papa, esort. ap. Evangelii gaudium, n. 54: «In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della “ricaduta favorevole”, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante.»

Mi piacerebbe che prendessimo coscienza della gravità del momento, ma anche delle nostre responsabilità e delle nostre risorse. Dipendiamo dal cambiamento in atto, ne siamo influenzati, ma non ne siamo totalmente condizionati. Sta a noi dargli un’anima, condurlo nella direzione delle nostre vere necessità e dei nostri bisogni fondamentali.

Per dare un’idea di quello che andrò dicendo, a proposito del rapporto uomo-società, ricorro ad un’immagine. In Oriente, per il Buddismo, il fiore di loto riveste un grande insegnamento: è un fiore che ha le sue radici nel fango, nella melma dell’acqua stagnante. Da questo fondo disgustoso, le radici, con una sapiente e paziente opera di filtro e di selezione, danno vita e nutrono un fiore bellissimo che si apre con voluttà alla luce e al calore del sole senza portare alcuna traccia delle acque paludose in cui giace. Per questo è stato preso come simbolo del faticoso, ma prezioso processo interiore dell’uomo che, partendo dal suo ambiente naturale, si trasforma e trasforma.

Un cambiamento troppo rapido

Viviamo in una società che ci offre delle opportunità che mai ci sono state date. L’economia e per certi versi anche la globalizzazione non solo hanno infranto delle frontiere che sembravano invalicabili, ma hanno creato un mondo di relazioni e scambi quanto mai arricchenti anche nel campo della cultura, della conoscenza e delle relazioni. Mai l’uomo ha avuto la possibilità di attingere a così tanti dati e così rapidamente come ora. E mai ha avuto tante opportunità e mezzi per comunicare.

Tutto ciò ha condotto a un modo nuovo di pensare, a nuovi stili di vita, a nuove forme di comunicazione e a nuovi valori, che hanno inciso profondamente sui singoli, sulla famiglia, sui gruppi sociali e sulla organizzazione politica.

Purtroppo, la rapidità del cambiamento e la troppa abbondanza di offerte e mezzi hanno finito per creare confusione, disorientamento e smarrimento. Siamo infatti piombati troppo improvvisamente in una società completamente diversa dalla precedente di cui abbiamo praticamente dissolto la memoria, perdendo così un termine di confronto che ci poteva aiutare a capire quanto è avvenuto e avviene quotidianamente.

E’ questa, per la mia esperienza, la complessità e la fatica dei nostri giorni. Non sappiamo ancora valutare criticamente il cambiamento che stiamo attraversando. E questo anche perché viviamo tra il passato, tuttora presente in noi o almeno in alcuni di noi, e l’attuale contesto che è completamente diverso. E’ come se fossimo degli esploratori di fronte a un nuovo mondo così diverso da quello conosciuto da non avere alcun parametro di confronto.

Se a tutto questo aggiungiamo anche l’instabilità politica italiana, l’impatto sociale dell’immigrazione e della criminalità, la crisi globale, la disoccupazione, la precarietà del lavoro e le ingiustizie, comprendiamo bene come ci troviamo davanti a condizioni e avvenimenti che determinano situazioni di disagio emotivo, di sfiducia e di solitudine. Crescono le paure collettive che a loro volta creano sfiducia nelle relazioni e individualismo. Tutto questo si riflette poi anche nel rapporto con le diverse istituzioni e con le stesse culture e religioni.

Impreparati a vivere certi valori

Il quadro tracciato non vuole pesare come un giudizio negativo sulla nostra società, ma solo ribadire la necessità di un attento discernimento da parte nostra per vedere esattamente cosa comporta il cambiamento e come può influire su ciascuno di noi. E questo vale anche nel caso di valori fondamentali quali la libertà e la tolleranza. Anch’essi presentano dei rischi se subiti o accettati senza preparazione e riflessione.

Per grazia di Dio, anche se non ovunque, viviamo un periodo di tolleranza e libertà: ognuno può credere o non credere e credere in questo invece che in quello. Provenendo da una società piuttosto monolitica, possiamo essere completamente smarriti o esaltati dall’enorme supermercato di offerte che ci viene allestito. Troviamo, infatti, offerte di ogni genere perché ognuno è libero di confezionare, vendere, predicare, raccomandare fedi, chiese, ricette di salvezza spirituale, sociale ed economica di ogni genere.2 Ognuno dice la sua e con internet la può diffondere rapidamente in tutto il mondo; così anche per storie, fatti più o meno fondati e opinioni più o meno utili… per il principio che ognuno, singolarmente o come gruppo, deve avere libertà di parola e di opinioni e deve essere accettato per quello che è.

nota -2
2 Cfr. la religione dello spaghetto (Vedi Pace)

In un ambiente del genere c’è tutto, ma anche il contrario di tutto. E ogni cosa è posta sullo stesso livello delle altre, con pari dignità e importanza. Non avendo più una scala di valori, ci è difficile giudicare e scegliere. Tale limite è dovuto proprio alla tolleranza e al dialogo che danno spazio a tutti e a tutto indistintamente.

«La tolleranza ovvero il dialogo e le sue contraddizioni costituiscono un problema universale, che si pone oggi alla coscienza – e anche alla legislazione – con un’urgenza mai prima conosciuta nella storia. Sotto questo profilo la nostra cultura appare forse impreparata alle sconvolgenti trasformazioni del mondo che investono la nostra vita, la nostra società, i nostri valori. In questi enormi cambiamenti non ci sono più, come in passato, culture compatte, chiuse in se stesse e nell’edificio dei propri valori, quasi ignare dell’esistenza di altri diversi sistemi di valori di altre culture. Oggi le civiltà si spostano e si mescolano, popoli e stirpi lontane s’incontrano e le loro visioni del mondo – religiose, politiche, sociali – vivono fianco a fianco… in un politeismo di valori, significati, tradizioni, costumi e istituzioni che nessuno può ignorare. E’ un processo che arricchisce le nostre culture e insieme desta paure e ossessioni di difesa».3

nota -3
3 MAGRIS C., La storia non è finita. Etica, politica, laicità, ed. Garzanti, Milano 2006, p. 12.

SECONDA PARTE

Rischio di relativizzare tutto e di diventare indifferenti

Nella globalizzazione in atto, intendendo qui tutte le diversità di usi, costumi, tradizioni, modelli economici, culturali, etici e sociali cui veniamo continuamente sottoposti, oltre l’esasperata difesa delle proprie posizioni, corriamo anche il rischio di relativizzare tutto proprio perché ci troviamo di fronte a valori e modelli contrastanti e talvolta anche opposti. Di qui la difficoltà di una ricerca responsabile di risposte valide e la tentazione di considerare tutto come semplici prodotti che, al di là delle etichette, si equivalgono.

Dove andremo a finire?

Difficile dare una risposta anche perché siamo ancora in una fase di grande incertezza e di forte disorientamento fin nelle nostre più profonde convinzioni. Siamo come in un periodo dove le regole, quelle stesse che credevamo inattaccabili, si sono frantumate per cui non abbiamo più punti di certezza o di orientamento. Il rischio poi è che il processo di interiorizzazione o di elaborazione di quanto sta accadendo viene lasciato ai singoli che tendono più a proteggersi, a difendersi che aprirsi alla convivenza e al bene comune.

Individualismo

Un grande fattore di debolezza, infatti è l’individualismo che ci rende sempre più impari di fronte alle sfide attuali: più la nostra società è complessa e più abbiamo bisogno di solidarietà, di coesione, di senso di bene comune per potervi far fronte. La crisi attuale del Veneto, e la causa dei molti suicidi, oltre che nell’appiattimento di certi valori religiosi, morali e civili, sta proprio, secondo alcuni osservatori, nel processo di disgregazione del tessuto sociale ed economico. Nel passato tutti potevano contare su un forte “capitale sociale”, cioè su tutta una rete di relazioni personali ed informali che creava fiducia e aiuto reciproco tra le persone.

«Quello dei legami sociali come base per lo sviluppo imprenditoriale è un modello socio-economico che caratterizza il Veneto fin dal suo passato con l’utilizzo delle reti di sostegno di matrice cattolica, delle parrocchie rurali e della forza economica rappresentata dalla famiglia allargata. Il mondo contadino del Veneto, infatti, per far fronte alla crisi agraria di fine ottocento, reagì ai fattori di disgregazione in atto grazie al supporto di società di mutuo soccorso, casse rurali cooperative, latterie e cantine sociali, società di assicurazioni del bestiame che permettevano, dalle retrovie, di ricompattare la società tradizionale e di rilanciare l’impegno economico necessario per ripartire».4

nota 4
4 BORTOLUSSI G., L’economia dei suicidi. Piccoli imprenditori in crisi, p. 85.

Ora, una crisi sociale ed economica incide molto più profondamente in ciascuno di noi dal momento che non esistono più quelle particolari relazioni che c’erano prima tra economia e reti sociali e familiari. L’incertezza che ne proviene va molto dentro la vita di una persona e un fallimento economico diventa anche un fallimento sociale. «Viene così scardinata ogni certezza acquisita e si produce un pericoloso effetto a catena che spesso sfocia nel suicidio vissuto come l’unica alternativa capace di risolvere ogni problema»,5 e a volte anche come ultima protesta nei confronti d’una società diventata insensibile e inaffidabile. Una volta rotto l’equilibrio sociale, gli individui non trovano più nella società un sostegno, una speranza e una forza che dia loro motivo di vita, li indirizzi e dica loro ciò che è possibile e ciò che non lo è, ciò che è giusto e ciò che non è giusto.

nota -5
5 BORTOLUSSI G., L’economia dei suicidi, p. 86.

Siamo sempre più soli e individualisti. C’è meno coesione sociale e perdiamo sempre più quella protezione che ci veniva fornita dalla solidità delle tradizionali appartenenze politiche, religiose, familiari e associative in genere.

«Se quindi resistere alla crisi significa essere in grado di far propria l’incertezza e di trovare ad essa delle soluzioni efficaci, oggi è sempre più difficile poter contare appieno su quella solidarietà “comunitaria” tipica delle piccole società. Oggi, in contesti sociali più ampi, disgregati e per questo predisposti all’esclusione, affrontare e far propria l’incertezza è un processo che avviene sempre di più nella solitudine diventando talvolta estremamente difficile e pericoloso. … L’individualismo, inteso come disgregazione crescente della partecipazione sociale, e la solitudine, sommate al dramma della crisi e dello scardinamento delle vecchie certezze, sembrano costituire l’insieme delle cause scatenanti il comportamento suicida. Anomia, ovvero rottura delle regole vigenti e individualismo crescente all’interno della società veneta, rappresentano quindi quel giusto mix di ingredienti letali che conduce i protagonisti dello sviluppo economico regionale ad un tragico sacrificio volontario».6

nota -6
6 BORTOLUSSI G., L’economia dei suicidi, p. 89-90.

Quando non c’è più senso di appartenenza a nessuno è come si fosse già morti. Il mondo non ci appartiene più o forse sentiamo che non apparteniamo più al mondo dei vivi. Chiusa quell’attività o professione che garantiva determinati legami e un preciso modo di essere, ci si sente finiti, morti.

In questi momenti tragici non ci verrà alcun aiuto dai ragionamenti; la forza e la speranza sono legate al poter contare su qualcuno, al potere credere ancora in qualcuno.

Questo mi fa pensare a un fallimento sociale che ci coinvolge tutti. A volte sono amici e conoscenti, o anche parenti che si suicidano. Come mai non ci siamo accorti della loro solitudine? Come mai non abbiamo sentito la fragilità e la poca consistenza dei legami che pensavamo di avere con loro? E noi, su chi o su cosa stiamo contando?

TERZA PARTE

La solitudine

Siamo sempre più soli anche per il cattivo uso che facciamo degli strumenti di comunicazione: cellulari, facebook, twitter, iPod, iBook e simili, che catturano tanto il nostro interesse da non farci più accorgere dei vicini, di coloro che ci siedono accanto un po’ dovunque e che non vediamo perché intenti a trafficare con i nostri mezzi di comunicazione.

Ultimamente, ho letto con molto interesse un libro di Luigi Zoja, intitolato “La morte del prossimo” che muove dal presupposto che dopo la morte di Dio, abbiamo decretato anche la morte del prossimo, per cui quella società che si basava sul comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, non esiste più: non abbiamo più prossimo da amare… e non siamo più prossimo da essere amati. Non abbiamo più vicini, non c’è più vicinanza, ma solo lontananza e rapporti sempre più mediati e mediatici. Siamo ormai tutti alquanto “alienati” nel senso di estranei gli uni dagli altri.

«Dopo la morte di Dio, la morte del prossimo è la scomparsa della seconda relazione fondamentale dell’uomo. L’uomo cade in una fondamentale solitudine. E’ un orfano senza precedenti nella storia. Lo è in senso verticale – è morto il suo Genitore Celeste – ma anche in senso orizzontale: è morto chi gli stava vicino. E’ orfano dovunque volti lo sguardo. …

L’uomo, … è un essere sociale. Gli altri uomini gli sono sempre stati necessari, in ogni senso. Ogni loro funzione può essere in gran parte sostituita da macchine (per esempio il computer). Ma quel che non può essere sostituito è la presenza umana: la lontananza degli altri causa una privazione che è un vero danno psichico. L’uomo solo incontra la depressione e, a circolo vizioso, l’uomo depresso è un uomo cui mancano la forza e la spinta per andare incontro al prossimo.»7

nota -7
7 ZOJA L., La morte del prossimo, (Vele 45) ed. G. Einaudi, Torino 2009, p. 13.

Ma è sempre più difficile perché il nostro prossimo, a cui andrebbe il nostro amore, è sempre più lontano, è sempre più astratto e quindi ci emoziona sempre meno in quanto diventa notizia, che tocca l’informazione, ma non il sentimento. 8

nota -8
8 Cfr. ZOJA L., La morte del prossimo, p. 125: «Si può invertire l’allontanamento dell’altro che ha caratterizzato il XX secolo? Con quel processo di estraneazione, il prossimo si è fatto sempre più astratto e ci ha emozionato sempre meno: è diventato notizia, che riguarda l’informazione ma non il sentimento.».

«Oggi l’involuzione dei rapporti sociali, intrecciata all’evoluzione della tecnologia, ci chiede di nuovo un balzo morale come quello che Gesù prepara con la parabola del Buon Samaritano: amare lo straniero. La globalizzazione è ben lontana dall’essere solo un evento economico. E’ uno sconvolgimento morale. Ogni giorno ci sta sotto gli occhi una tragedia del mondo, su cui fino a poco fa saremmo stati informati sì e no ogni decennio: la fame, il ritorno di malattie devastanti, i drammi climatici, le stragi dimenticate. Ciò che merita la nostra compassione, e richiederebbe il nostro amore, è sempre più evidente, ma anche sempre più lontano, sempre più astratto: manca di profondità come gli schermi che ce lo comunicano. La globalizzazione dell’amore potrebbe essere una nuova, esaltante conquista, ma è, al tempo stesso, profondamente innaturale. Vedendolo soprattutto per televisione, noi tutti soffriamo di una tragica privazione sensoriale del prossimo. Quell’arricchimento che l’informazione ci consegna, essendo inflazionato e astratto, contribuisce anche alla scomparsa di solidarietà che vorrebbe combattere.»9

nota -9
9 ZOJA L., La morte del prossimo, p. 126-127.

Come ritrovare fiducia e nuova armonia sociale?

Cosa fare per riscoprire i fondamenti della nostra convivenza e ridare centralità al mondo delle relazioni? Non siamo semplici individui, e tanto meno oggetti di consumo, ma persone inserite in una rete di rapporti interpersonali e sociali. Abbiamo bisogno di rientrare in noi stessi, per lasciarci guidare dal nostro cuore e trovare qui le motivazioni che ci spingono all’azione.

Senza una forte dimensione spirituale, che è capacità di ascolto del nostro intimo più profondo, è facile lasciarsi trasportare verso mete e luoghi che non sono i nostri.

Tutti noi, laici e religiosi, dobbiamo ritrovare interiorità per essere in grado di guardare in profondità uomini e cose. “Il ritorno all’interiorità è oggi uno dei valori civili più urgenti da riscoprire, da rimettere al centro della vita sociale del nostro Paese. Penso sia la condizione irrinunciabile per una vita sociale ordinata e vissuta nella piena responsabilità. Essa non è legata innanzitutto alla carica o a certi impegni che ci siamo assunti, ma deve essere cercata dentro di noi, nell’intimo della nostra coscienza, del nostro cuore: è da qui che nasce la vera capacità di farsi carico di qualcosa o di qualcuno, cioè di amare qualcosa o qualcuno.

Papa Francesco durante il suo viaggio in Brasile per la Giornata Mondiale della Gioventù, ha richiamato spesso i vescovi, i preti, i religiosi e i seminaristi a “non risparmiare forze nella formazione dei giovani”, promuovendo una “cultura dell’incontro e della solidarietà in una società dove i rapporti umani sembrano dominati dai due “dogmi” dell’efficienza e del pragmatismo e, per contrapposto, dalla cultura dello “scarto” che ricorda tanto la discarica dove finiscono tutte le cose che riteniamo inutili.

«Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma  di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”.» 10

nota -10
10 FRANCESCO papa, esort. ap. Evangelii gaudium, 53.

Abbiamo bisogno di ritrovare o ricreare la solidarietà come comportamento etico o virtù con destinazione soprattutto sociale. Infatti, non va intesa come un vago sentimento, ma come una dimensione che coincide con la giustizia e che ha la sua vera nemica nell’avidità, nella bramosia del possesso. Dico che coincide con la giustizia, perché la solidarietà ci porta a pagare un debito che tutti noi abbiamo con gli altri: riceviamo praticamente tutto, la vita, l’educazione in casa e fuori, la cultura, gli stili di vita, i modi di pensare e di agire… tutto quel patrimonio che ci costituisce come persone e che ci permette di assumere impegni e responsabilità varie. Essendo noi debitori, abbiamo il dovere di essere solidali, cioè di restituire quanto ricevuto mediante un interscambio continuo con gli altri perché in definitiva siamo realtà relazionale.11

nota -11
11 Cfr. TETTAMANZI D., Non c’è futuro senza solidarietà, p. 28-29.

Per un cristiano o per chiunque crede nell’amore, «la solidarietà dice la dimensione sociale della carità, ossia è la carità in quanto dà vita a istituzioni, stili di vita rinnovati, leggi a servizio del bene comune dell’uomo ecc. In una parola, è la carità in quanto sa esprimersi e ancor più sedimentarsi entro le forme correnti del vivere civile…».12

nota -2
12 TETTAMANZI D., Non c’è futuro senza solidarietà, p. 35

Il massimo della solidarietà ci è stato dato da Gesù Cristo che da Dio s’è fatto come noi: morto per noi, vissuto con noi e come noi. E dico questo perché penso che nulla esprima meglio il “mistero” che è l’uomo come il mistero del Verbo incarnato.

«E’ un mistero di solidarietà l’uomo come “essere relazionale”, come essere chiamato dal di dentro alla comunione con gli altri e alla donazione di sé agli altri: un essere “con”, un essere “per”. Con e per gli altri, con e per Dio.»13

nota -2
13 TETTAMANZI D., Non c’è futuro senza solidarietà, p.39.

QUARTa PARTE

Perché tanta insistenza sulla solidarietà?

«La crisi che stiamo attraversando non è solo finanziaria, anche se ha preso le mosse dal sistema finanziario. Una crisi che non è soltanto economica, pur se proprio in questo ambito sta manifestando i suoi effetti più preoccupanti, a partire dalle sue gravissime ricadute sul piano occupazionale. Una crisi che si rivela sempre più come sociale e culturale, anzi come etica 14

nota -2
14 TETTAMANZI D., Non c’è futuro senza solidarietà, p. 73-74.

Tenterò di darne un’idea tramite un lunga citazione dell’esortazione apostolica di papa Francesco:

«Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo pacificamente il suo predomino su di noi e sulle nostre società. La crisi finanziaria che attraversiamo ci fa dimenticare che alla sua origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr Es 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano. La crisi mondiale che investe la finanza e l’economia manifesta i propri squilibri e, soprattutto, la grave mancanza di un orientamento antropologico che riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo.

Mentre i guadagni di pochi crescono esponenzialmente, quelli della maggioranza si collocano sempre più distanti dal benessere di questa minoranza felice. Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria. Perciò negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole. Inoltre, il debito e i suoi interessi allontanano i Paesi dalle possibilità praticabili della loro economia e i cittadini dal loro reale potere d’acquisto. A tutto ciò si aggiunge una corruzione ramificata e un’evasione fiscale egoista, che hanno assunto dimensioni mondiali. La brama del potere e dell’avere non conosce limiti. In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta.

Dietro questo atteggiamento si nascondono il rifiuto dell’etica e il rifiuto di Dio. All’etica si guarda di solito con un certo disprezzo beffardo. La si considera controproducente, troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona. In definitiva, l’etica rimanda a un Dio che attende una risposta impegnativa, che si pone al di fuori delle categorie del mercato. Per queste, se assolutizzate, Dio è incontrollabile, non manipolabile, persino pericoloso, in quanto chiama l’essere umano alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da qualunque tipo di schiavitù. L’etica – un’etica non ideologizzata – consente di creare un equilibrio e un ordine sociale più umano.»15

nota -2
15 FRANCESCO papa, Evangelii gaudium, 55-57.

Se è così, quali sono gli strumenti che ci permettono di uscire da questa crisi? Servono certamente strumenti che sanno generare benessere, solidità al sistema economico e finanziario, nuove regole per la finanza, ma anche nuovi stili di vita e una serie di valori non solo economici, ma morali, sociali, culturali e ambientali che muovono sempre dalla centralità dell’uomo.

La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli16 e, anzi, può provocare tutta quella serie di smarrimenti che abbiamo visto. La crisi che stiamo attraversando, gli amici o i fratelli persi lungo la strada, dovrebbero farci comprendere la necessità di ritrovare solidarietà, di ricreare una rete di forti legami familiari e sociali per la costruzione di un mondo basato sulla giustizia e il bene comune.

nota -2
16 Cfr. BENEDETTO XVI, lett. enc. Caritas in veritate, 19.

Benedetto XVI, nella sua enciclica Caritas in veritate (7 luglio 2009), in cui si prefiggeva di tracciare la via per un nuovo umanesimo, additando come stella-guida il desiderio di fare di questo mondo globalizzato una fraternità autentica, parlava della solitudine come origine di molte povertà:

«Una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre povertà, comprese quelle materiali, nascono dall’isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare. … Oggi l’umanità appare molto più interattiva di ieri: questa maggiore vicinanza si deve trasformare in vera comunione. Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente l’uno accanto all’altro.»17

nota -2
17 BENEDETTO XVI, Caritas in veritate, 53.

In tal senso è da cogliere l’invito di papa Francesco a partecipare a una mistica del vivere insieme.

«Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio. In questo modo, le maggiori possibilità di comunicazione si tradurranno in maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti. Se potessimo seguire questa strada, sarebbe una cosa tanto buona, tanto risanatrice, tanto liberatrice, tanto generatrice di speranza! Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in sé stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza, e l’umanità avrà la peggio in ogni scelta egoistica che facciamo.»18

nota -2
18 FRANCESCO papa, Evangelii gaudium, 87.

Contro la globalizzazione che spinge a pensare ai propri interessi na­zionali, regionali, etnici, in ogni caso particolari, dobbiamo ritrovare il senso di fraternità e di reciprocità. Siamo di fronte ad una utopia? Tecnicamente non so dare una risposta, ma guardando alla crisi attuale e alle sue vittime, mi pare l’unica speranza, l’unica visione di portata anche globale.

«Il tema dello sviluppo coincide con quello dell’inclusione relazionale di tutte le persone e di tutti i popoli nell’unica comunità della famiglia umana, che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia e della pace.»19

nota -2
19 FRANCESCO papa, Evangelii gaudium, 54.

QUINTA PARTE

Quindi non si può parlare di nuova impresa senza i fondamentali della MORALITÀ DEL PROFITTO

È uno dei temi più difficili di tutta la storia dell’economia e della teologia morale. Il problema è ipotecato da due ricordi storici fondamentali: il liberalismo sette-ottocentesco e il marxismo-comunismo del novecento.

1. Assolutizzazione del profitto

Un’ideologia del profitto che renda primario in senso assoluto ed esclusivo il ruolo economico dell’impresa e faccia del profitto un fine in sé, porta a strumentalizzare tutti i valori di cui s’intesse la vita di un’impresa. Tutto questo si riflette sul modo di rapportarsi con i clienti, che conduce alla negazione di un orientamento di servizio, sul modello di rapportarsi con i dipendenti, che rende problematica una loro integrazione con l’impresa e i suoi obiettivi, con il territorio e le sue istituzioni. Infatti, se il profitto è vissuto dal management aziendale come il massimo bene cui ogni altro valore va subordinato, è inevitabile che si producano atteggiamenti e comportamenti di ricerca di qualsiasi opportunità per “fare profitti”, che il sistema e la situazione consentono; con la conseguenza di sottovalutare le ripercussioni negative che una siffatta ricerca del profitto potrebbe avere sulla competitività dell’impresa e sul consenso sociale di cui essa gode, o dovrebbe godere. Le imprese possono fare anche a meno di sviluppare un orientamento di servizio al cliente, oppure della preoccupazione di avere un personale che si sente parte attiva dell’impresa, ma solo fino a quando non ci si misura con una concorrenza evoluta, protesa a percepire la necessità del cliente e a cer­care di rispondervi, facendo leva tra l’altro su un personale ben motivato e formato, capace di mobilitarsi, perché l’impresa esca vincente dal confronto. Senza questa prospettiva non c’è alcun spazio per una valutazione etica, soprattutto in chiave cristiana.

La valorizzazione dei collaboratori e il servizio al cliente diventa uno dei principi etici, che si afferma non solo in forza del rifiuto di qualsiasi “logica di sfruttamento” come contraria alla morale, ma anche in virtù di una giustificazione economica. Se l’evolversi del gioco concorrenziale ri­chiede alle imprese di migliorare la qualità dei loro prodotti o servizi senza aggravi di costo, di migliorare la produttività e, nello stesso tempo, la flessibilità di risposta ad un mercato che esige più qualità, consegne più veloci, assortimenti più vasti, innovazioni di prodotto più frequenti, la criticità del fattore umano diventa grandissima. Questo perché si tratta sia di apprendere modi nuovi di produrre e di operare nel mercato sia ad essere disponibili per farsi carico dei problemi aziendali con tutto quello che ciò comporta sul piano della dedizione e del sacrificio personale. Si potrebbe argomentare che, ove si prospettino situazioni concorrenziali di questo tipo, proprio le esigenze di razionalità economica, fondate su un obiettivo di reddito, impongono un ripensamento del modo di rapportarsi con i clienti e di trattare con i dipendenti e che, quindi, lo scopo perseguito è in ultima analisi il profitto. Questo è vero, purché ci si renda conto che:

  1. il profitto perseguito diventa di lungo pe­riodo che viene a coniugarsi con obiettivi di competitività e di socialità. Ciò implica un radicale cambiamento nei valori, negli atteggiamenti, nella filosofia del management e nella cultura dell’impresa;
  2. tale cambiamento non è, e non può essere, il prodotto automatico della stessa razionalità economica che indirizza l’impresa in tutt’altra direzione e rende quindi improbabile una revisione tanto profonda, a meno che la situazione aziendale sia talmente critica da rendere indilazionabile una simile inversione di marcia.