A Zaia fa senso (civico) il cittadin passeggiatore

Schizofrenia veneta: tenere aperto più che si può, ma senza poter passeggiare. Al governatore dà fastidio la satira. A Venezia il non-scandalo del “corvo”


A Treviso il sindaco leghista Mario Conte fa chiudere il centro storico di sabato pomeriggio. Troppi cittadini in libera passeggiata, troppo shopping liberatorio, troppo struscio. Unico in tutto il Veneto, nel capoluogo della provincia patria del presidente della Regione (anche se a Verona la centralissima e stretta via Mazzini è stata divisa per sensi di marcia, per dire). Ha fatto bene, ha fatto male? I sostenitori della linea dura applaudono. Ma chi sono? A rigor di logica, dovrebbero essere i fan del governo, che dall’alto spartisce i colori, giallo, arancione, rosso, finora lasciando il Veneto con restrizioni minime. Invece da Pd e M5S non si ode proferir verbo. La ragion di partito viene sempre prima, nel Paese dei guelfi e dei ghibellini. Ad approvare la misura drastica di Conte (che, riferiscono le cronache, si è beccato qualche improperio da qualche passeggiator scortese) è stato Zaia: “Ha dimostrato di avere a cuore la propria comunità. Ma se il sindaco è dovuto ricorrere alle transenne perchè la gente in giro era troppa, dobbiamo anche renderci conto che il senso civico è finito. E lo dice uno che ha sempre prediletto il dialogo con i cittadini e che è ancora convinto che un’emergenza del genere non possa essere gestita solo con ordinanze e verbali”. Dunque il senso civico sarebbe morto. Ma santa madonna, ma se i negozi restano aperti (fino alle 18), i bar pure, i ristoranti lavorano a pranzo, se in settimana chi ha ancora un lavoro lavora e di sera resta tappato in casa, e se, come fa lo stesso Zaia, si cerca in tutti i modi (e a ragione, nello specifico) di non strangolare definitivamente le attività economiche, con che coraggio si parla di civismo? Un cittadino cosa dovrebbe fare, interpretare con l’aruspice le intenzioni di autorità che con una mano mantengono parzialmente libera la circolazione di persone, merci e servizi, e con l’altra fanno la morale incolpando chi ne fruisce nelle ore rimaste disponibili? Zaia abbia piuttosto il fegato di chiedere il passaggio come minimo a zona arancione, per coerenza. Oppure taccia. Come fanno i suoi oppositori. Sarà anche vero che la coerenza è la virtù degli imbecilli. Ma sopra una certa soglia, però.

Auto-ironia portami via

“Il Covid le ha rubato la felicità?”. Era la domanda-filo rosso di mercoledì 9 dicembre a “Prima serata”, il talk del consorzio di reti televisive del Nordest condotto da Domenico Basso, direttore di TvA Vicenza e intervistatore di vaglia (tanto che, intervistato a sua volta, un giorno ebbe a dire: “forse un giorno mi farò un’autointervista per conoscermi un po’ meglio”). Di fronte a un interrogativo un filino, come si dice, retorico, un bonzo orientale avrebbe fatto scena muta, perchè il silenzio, di fronte a certi quesiti troppo speculativi, vale più di cento parole. Un mio amico filosofo da taverna, invece, probabilmente avrebbe risposto: “Ma secondo ti?”. L’illustrissimo ospite Luca Zaia, che Basso, da ottimo giornalista qual è, sente tutti i giorni, ha replicato con astuzia, evitando di impelagarsi sul significato scivoloso di felicità: “Ci ha rubato la libertà”. Ma no. Dopo tanta profondità, giunto alla fine dell’intervista al governator che ognun sa deprivato di apparizioni in video e confronti ferratissimi con torchiatori non compiacenti, ecco la doverosa sdrammatizzazione finale, chiedendogli se Maurizio Crozza, a suo parere, sia migliorato nell’interpretazione satirica del suo personaggio. E qui Zaia, che fa il presidente dei Veneti anche quando va al bagno, resta serio in volto e nega di guardare non solo la presa in giro crozziana, ma addirittura la televisione (“cattiva maestra”, diceva quel barbogio di Popper, di cui suggeriamo a Zaia la lettura per arricchire il repertorio di citazioni colte). Gli riferiscono, però, che il comico genovese scherza “sui Veneti” (sic) parlando di spritz e alcolici. E questo proprio non gli va giù, al nostro paladino. Insomma non gradisce la parodia, perchè bersaglierebbe di lazzi l’intero popolo da lui rappresentato. Gli è che siamo in tempi brutti di bollettini quotidiani di morte, altrimenti una risata distensiva potrebbe far bene, al guerriero di Palazzo Balbi. Non foss’altro perchè così non ci farebbe accorgere di come sia, al di là della simpatia di circostanza ostentata perchè fa tanto “uno di noi”, in realtà destituito di sana autoironia. Sottolineato “auto”: perchè ai Veneti, forse, non dispiace essere perculati un po’, da uno che di mestiere fa il perculatore (diverso il discorso se a insultarli con acribia è un Oliviero Toscani, che qualcosa pur deve ai veneti Benetton). Gli uomini di potere hanno sempre questa inspiegabile idiosincrasia per gli sberleffi. Ridere, per loro, non è contagioso.

C’è del marcio fra i marciani

Ci informa il Gazzettino, in una ricca pagina dedicata, che il presunto “corvo” del Patriarcato di Venezia, don Massimiliano D’Antiga, spretato due giorni fa dal Papa, sarebbe al centro di una vicenda ancora più oscura legata a lasciti notarili al vaglio dei carabinieri (“Il ‘corvo’, il parroco e le carte per ottenere l’eredità di una fedele”, 13 dicembre). Il caso del sacerdote ribellatosi, a quanto si legge, alla decisione del patriarca Francesco Moraglia di trasferirlo dalla parrocchia marciana alla diocesi di San Marco, da cui sarebbero scaturiti i volantini con accuse di “scenari lascivi, di notti orgiastiche con un tocco di pedofilia, di alti prelati arraffoni avari di denaro” e di un Moraglia stesso quanto meno disattento (materiale per cui è sotto indagine un amico del prete, l’ex manager Enrico Di Giorgi), e con il contorno di una sorella del D’Antiga, Emanuela, accusata in un processo di “aver aggredito e provocato lesioni” al docente di scienze religiose Alessandro Tamborini, estensore di oltre 50 (!) denunce “contro i familiari di D’Antiga e i loro sostenitori”, lamentando di essere diventato “vittima” loro e dei loro “seguaci”, è un ginepraio che odora d’incenso misto a zolfo che, capirete, non ci stupisce neanche un po’. Non per fare gli anticlericali faciloni, ma appena si alza qualche centimetro di sottana alle tonache di Santa Madre Chiesa viene regolarmente fuori un puzzo di odio, astio e viscidume che tutto è, fuorchè uno scandalo. Nel senso che ormai, brave donne ligie alla Messa a parte, non scandalizza più nessuno la constatazione che il magistero della Verità e delle Probità è, come in tutte le umane organizzazioni, ammorbato dalla ferocia di lotte di potere e dalla miserie di debolezze, spesso sessuali. Naturalmente, come usa dire in tali circostanze, la giustizia farà il suo corso, e i veleni si riveleranno magari infondati. Ma per favore, consideriamo il clero per quel che è: non depositario di una rispettabilità a priori, bensì una casta burocratica in cui i peccatori abbondano, e i colpevoli di reati non mancano. Esattamente come tutte le altre categorie, come i politici, gli avvocati, i giornalisti, i dipendenti pubblici, gli imprenditori e gli uomini e donne di spettacolo. Sì insomma, la vecchia storia delle mele marce che spuntano in tutti i cesti. Marce uguali se non di più, dato la sbandieramento di bontà e carità caratteristico della ditta, ma di certo non di meno solo perchè spruzzate di acqua santa, e a volte silenziate con quattro pater ave e gloria e qualche strategico spostamento d’ufficio.

Galli della Loggia ora pro nobis

Nessuno legge i fondi in prima pagina degli editorialisti togati, a parte noi pervertiti addetti ai lavori. E giustamente. Domenica 13 dicembre il cardinal maggiore dei fondisti del Corriere, il reverendissimo Ernesto Galli della Loggia (già sprezzantemente definito da Montanelli uno dei “liberaloni” che va con la corrente, assieme a Panebianco e al defunto Ostellino) ha scovato i motivi della debolezza del potere in Italia, uno dei quali, e perdonate la lunghezza del brano, è “La disarticolazione territoriale del potere. È il fenomeno che scaturisce non tanto dall’istituzione delle Regioni, quanto dallo smisurato accrescimento delle loro competenze deciso nel 2001, stravolgendo l’originale dettato costituzionale e procedendo in sostanza a una vera e propria mutazione silenziosa della natura dello Stato repubblicano. Tale disarticolazione si esprime con la maggiore evidenza nella disparità simbolica con cui si presenta il potere. Da un lato, nelle periferie, dominano presidenti delle giunte regionali, che forti della propria elezione diretta e dunque di un potere inscalfibile e virtualmente incontrollato, nonché circondati dalla riverenza di tutte le clientele locali, sono divenuti i padroni di fatto di tutta la politica che si svolge lontano da Roma, e si atteggiano a pomposi signorotti dei «propri» territori compiacendosi del titolo usurpato di «governatori». I quali «governatori» con fare da sopracciò non fanno che annunciare, dire la loro su tutto, intimare, obiettare e ogni due per tre minacciano di disobbedire alle norme dello Stato centrale”. A parte il fatto che la Costituzione prevedeva già alle origini il decentramento, perciò non si capisce in che modo sia stata “stravolta”, occorre dare atto al professor Della Loggia di essere stato sempre, indefettibilmente, un acerrimo nemico di ogni concessione al principio di autogoverno locale, e in ciò è giusto riconoscergli di non aver preso parte alla sbornia pseudo-federalista, che con il federalismo autentico stava come il cha-cha-cha al valzer, che ubriacò destra e sinistra nei primi anni di questo secolo, partorendo con il centrosinistra quell’aborto di riforma del Titolo V della Carta che sta a mezza strada fra centralismo e autonomismo, scontentando tutti. Le Regioni, in sostanza, si sono accapparrate la gestione della sanità e poco più. Ma l’inguardabilità dei sistemi sanitari è dovuta a un’altra idea, quella aziendalista per cui si deve rincorrere e spesso favorire il privato. Così come la tara genetica di una possibile via italiana al federalismo consiste nel macigno della questione meridionale, nella differenza economica e, specie in alcune zone (vedi Calabria), nel criminogeno abbandono alla criminosità del Mezzogiorno rispetto al resto d’Italia. Il problema, alle corte, è che l’autonomia è intestata a uno Zaia che essendo della Lega non potrà mai realizzarla appieno, anzi, più in generale, è che l’autonomia non è adatta a tutte le diverse realtà italiane, a tutte le Regioni. Per una volta, Galli della Loggia ha quasi ragione. Quasi, perchè buttar via il bambino (l’idea di autogoverno) con l’acqua sporca (i risultati mediocri dei governatori), è troppo facile. Troppo moraleggiante. Troppo da omelia domenicale di monsignor Galli della Loggia.