Il canto del cigno, l’anatra zoppa leghista ed i gattini ciechi della sinistra subalterna
Il commento del giorno dopo (22 settembre), senza possedere doti divinatorie.
Così come non trovavo sconvolgenti i sondaggi elettorali che attribuivano un grande successo a Luca Zaia e preconizzavano l’umiliazione del suo competitor Arturo Lorenzoni, non mi sorprende che essi abbiano trovato una significativa conferma; semmai resto colpito dalla resilienza civica dei cittadini veneti che a prescindere dalle previsioni di un risultato scontato, dal contesto logistico-sanitario preoccupante e dalla sconcertante assenza di programmi seducenti, hanno comunque calcato disciplinatamente i seggi e depositato nell’urna la loro scheda.
Certo, osservo che è, comprensibilmente, cresciuta la platea degli astenuti i quali costituiscono da tempo la vera sconcertante e misconosciuta novità in quanto Primo Partito.
Ma per il resto si può serenamente affermare che per chi possiede una minima conoscenza della realtà sociopolitica del Veneto, il lavoro dei sondaggiologi risultava del tutto superfluo, in particolare per quelli come me che, nell’ultimo lustro hanno velleitariamente tentato di contribuire a orientare il corso degli eventi in direzione opposta a quella impressa da una nomenclatura regionale interamente assuefatta alla zaiazione (versione autoctona della mitridatizzazione, ovvero l’immunizzazione dalla tossicità della propaganda).
Dopo il voto regionale cosa ci dobbiamo aspettare?
Il 21 settembre p.v., giorno in cui Zaia celebrerà la più eclatante vittoria plebiscitaria mai realizzata in una grande Regione di un paese democratico – poco importa se e di quanto supererà o si avvicinerà al 70% – ed il Centrosinistra farà i conti la sua pagina più nera mai scritta in cinquant’anni di vita delle Regioni – con il PD, principale partito della coalizione ‘il Veneto che vogliamo’, ridotto a macerie fumanti – i cittadini veneti si misureranno con un (non il primo né l’ultimo) paradosso della storia.
La data sarà ricordata come l’inizio del dopo-Zaia e l’avvio di una necessaria nuova interpretazione della politica regionale e della governance del Veneto.
Sì, il dopo Zaia, comincerà proprio nel giorno del trionfo, quando si aprirà la sfida per una nuova leadership fra i colonnelli della truppa vittoriosa (obbligati da Salvini, a scanso di equivoci, a candidarsi per la casa madre di rito milanese), ed a sinistra (ma non è certo, considerata l’attitudine recente a far finta di nulla e ad evitare le discussioni scomode) la ricostruzione post tsunami di un ‘villaggio democratico’ in cui, il già licenziato come inadeguato Lorenzoni, risulterà essere stato un espediente, ovvero un cireneo mandato avanti da anziani cardinali timorosi di perdere il pastorale e da giovani chierici con la vocazione a curare più le trame curiali che le anime degli elettori.
Per Zaia la vittoria sarà il suo canto del cigno, acclamato con ovazione prima della trasfigurazione in una presidenziale anatra zoppa.
Chi profetizza per lui destini nazionali deve tenere in considerazione la sua scarsissima propensione alla battaglia politica, allo scontro per la leadership, fatto di corpo a corpo e di conflitti, anche feroci ed istintuali su valori (nel caso della Lega salviniana prevalentemente dis-valori), idee, progetti.
L’uomo, dalle indubbie capacità di collocarsi su linee mediane, molto diverse da quelle del suo Capitano ma sempre attento, quando occorra, a dichiarare la sua fedeltà al rito salviniano, non possiede uomini “suoi”, se non per temporanea gratitudine.
Inoltre non possiede una linea politica che non sia identificabile con il suo nome. Difficilmente, perché contro la sua natura, potrebbe autonomamente candidarsi in alternativa a Salvini. Solo circostanze favorevoli, quali vicende giudiziarie od altri fatti che mettessero fuori gioco l’attuale boss leghista, potrebbero diventare il viatico per trasformare l’ignavia zaiana in un atteggiamento più coraggioso e nel cimento nazionale.
Bisogna constatare che stiamo parlando di un leader che fino ad oggi è stato accompagnato da una buona dose di fortuna, guadagnata con l’attesa paziente.
Solo l’acclamazione è prevista nel dizionario zaiano quale precondizione per conquistare nuove e più alte posizioni.
In questi anni Zaia è passato da vice di Galan a profeta del Veneto, come se il lungo ciclo leghista a palazzo Balbi, iniziato nel 1995, e passato attraverso il più grave scandalo nazionale (MOSE), con un Assessore della ‘sua’ Giunta direttamente coinvolto e condannato, fosse una querelle che non lo riguardasse.
Schivare il fango è diventata una sua abilità, costruita con la complicità confidenziale dei media locali addestrati ad una funzione di vassallaggio diventata organica con l’arrivo della Pandemia.
Dal lockdown in avanti, quelle che inizialmente erano semplici conferenze stampa, fatte di numeri dei contagi, si sono trasformate giorno dopo giorno in salotti televisivi con ospiti, per diventare performance a metà fra le raccomandazioni del guru Panzironi e celebrazioni religiose, fatte di buoni consigli e di racconti sulle qualità del popolo dei veneti a cui è destinata la terra promessa dell’autonomia.
Il confidenziale Tu, accompagnato dal nome con cui il Presidente dialoga, come al bar, con i giornalisti, testimonia l’avvenuta caduta del muro, anche solo formale, che si immagina debba caratterizzare il Terzo potere, un potere che nel Veneto vive una simbiosi che Zaia ha saputo costruire da furbo conoscitore delle debolezze umane dei suoi interlocutori.
La soap opera dell’Autonomia
Ed è stato il lungo e consolidato training giornalistico di ammiccamenti, ruffianerie e superficialità che ha creato le condizioni per la costruzione della vulgata sull’Autonomia, diventata ‘terra promessa’ prima ancora che programma politico concreto ed operativo.
Con essa è stata co-redatta una mitologia, sono state notiziate le tappe di un cammino, di una traversata del deserto verso un giorno luminoso indicato ad un popolo di fidelizzati dal racconto trasmesso a reti unificate. Il countdown sovraimpresso sugli schermi di alcune reti televisive a lui grate serve ad accompagnare e a scandire il percorso.
Nata quasi per caso dalla richiesta di indipendenza di un gruppo di vecchi nostalgici delle virtù della Serenissima Repubblica, è diventata, nei giorni agitati degli arresti del giugno 2014, in cui non si sapeva ancora dove sarebbe potuta arrivare l’inchiesta sul Mose (che aveva terremotato il Veneto fin dentro Palazzo Balbi), una valvola di sfogo per parlare d’altro e allontanare altri imbarazzanti discorsi e accostamenti.
Ma quella che inizialmente costituiva un diversivo che si iscriveva nella ormai stanca retorica della vecchia Lega, per l’opera di un valente veterano del Consiglio regionale, Carlo Alberto Tesserin, diventa, accanto alla richiesta leghista di indipendenza e di trattenuta delle tasse, un quesito doroteo che ricalca la previsione di attribuzione di autonomia differenziata esattamente negli stessi termini indicati dalla Costituzione al suo articolo 116.
E quello che comunque ai fini pratici era un referendum ‘farlocco’, cioè assolutamente inutile, diventerà uno stratagemma per mettere in scena un neo-antagonismo contro il Centro romano e far diventare Zaia il ‘liberatore dalle catene’, colui che indica la strada verso il paradiso fiscale.
L’autonomia è quindi diventata progressivamente una proposta escatologica che riguarda ogni singolo individuo della terra veneta, oppressa dalle catene degli obblighi fiscali romani.
Negli anni in cui la sceneggiata è stata ordita e divulgata (in pratica l’intera ultima legislatura regionale) nessun cittadino ha avuto modo di conoscere i termini istituzionali, i tratti concreti dell’Eden promesso con l’Autonomia, ma la comunicazione dei Palazzi veneziani e l’informazione delle Redazioni locali all’unisono l’hanno trasformata nel sogno del popolo veneto.
Si è trattato di una trasfigurazione della realtà che ha prodotto una macroscopica dissonanza cognitiva: tutti parlano di autonomia ma tutti pensano ai soldi che rimarranno nel Veneto e non saranno più dati al Sud sprecone (ed inneggiano al profeta Zaia che ha fatto il miracolo).
E lo sventurato (Centrosinistra) rispose…
Il gioco degli specchi illusori messo in scena da un Presidente latitante per mascherare un marcato deficit nella governance avrebbe dovuto e potuto essere interrotto e affrontato con determinazione in Consiglio Regionale ed invece, clamorosamente, è diventato il terreno di una resa incondizionata del centrosinistra veneto.
In particolare il Partito Democratico si è reso protagonista di mille incertezze, di arrampicate (sugli specchi di Zaia) dialettiche, che hanno trovato una sintesi vergognosa, officiata in terra vicentina da vecchi cardinali maestri dell’adattamento ruffiano alle maggioranze, con la manifestazione di una totale subalternità culturale e politica al leghismo e l’autodichiarazione di non possedere un’autonoma capacità di elaborazione strategica.
Il Sì critico, indicato in occasione del referendum dell’ottobre 2017, (negli stessi giorni in cui una delegazione veneta leghista accorreva a Barcellona per brindare al secessionismo catalano di Puigdemont), ha riassunto e tuttora rappresenta, a distanza di tre anni, lo sbandamento politico e culturale di un’area politica che improvvisamente si scopre senza più parole, incapace di concepire la propria ragione politica identitaria come battaglia attorno a idee forti, tanto più se si considera che in quella stagione Zaia parlava di autonomia, ma lasciava intendere che i veneti si sarebbero trattenuti tutti i soldi e di fatto si sarebbero conquistata l’indipendenza.
Ecco perché ritengo che la sconfitta del 21 settembre nasca allora, con il principale partito del Centrosinistra, il PD, che rinuncia ad una propria lettura del Veneto, che dopo la sconfitta dell’improvvisata candidatura di Alessandra Moretti alle elezioni regionali del 2015, rinuncia a dotarsi di un Gruppo dirigente in grado di affrontare la sfida per arrivare competitivo per il governo della Regione.
Non procede ad una riflessione ed a un dibattito serrato nei e tra i territori, per far emergere, all’interno di una competizione esplicita su idee e programmi non mediati dall’appartenenza alle correntine eterodirette dal Nazareno, i leader ed i militanti espressione di un inedito protagonismo politico-culturale atteso e finanche legittimato dagli elettori veneti in alcune occasioni.
L’inedia di una segreteria a lungo vacante e la scelta di un Segretario sostanzialmente delegato a non turbare gli equilibri interni di una palude organizzativa refrattaria all’immissione di energie e candidature ‘ingombranti’, hanno creato le condizioni ideali per rendere il Partito contendibile, sì, ma dall’avversario!
E’ successo quindi che in assenza di una propria visione strategica del Veneto, si è di fatto optato per l’assunzione omeopatica della linea politica di Zaia, si è atrofizzato il ruolo dell’Opposizione, si è infine immiserito il confronto interno relegandolo a questione di riassetti, cooptazioni, tatticismi fino alla scelta confortante di un’eutanasia dolce con la candidatura di Arturo Lorenzoni.
La finzione del Civ(n)ismo
La scelta di ‘esternalizzare’ il ruolo di competitor antiZaia, nella temperie di un conflitto politico aspro con la Destra locale e nazionale, pur giustificato con la ’cipria civica’ è apparso ai più la conferma sia di un’immaturità della dirigenza piddina nel rapporto con la Segreteria nazionale del Partito, sia dell’ignavia nel rinunciare all’ambizione di guidare i processi di aggregazione ed allargamento del Centrosinistra, intendendoli come volano per reinterpretare il rinascimento veneto attraverso il coinvolgimento dei ceti medi produttivi e professionali.
La risorsa strategica del civismo è stata depauperata usandola come una finzione per giustificare la remissività e l’adattamento a micro giochi di potere.
Il paradosso della candidatura Lorenzoni, l’opzione che più di altri fatti evidenzia il ‘tradimento’ messo in atto da chi aveva il dovere di costruire una alternativa a Zaia, è contenuta nel percorso che porta a tale indicazione, che in sé non contiene alcunché di veneto e molto di piccole diatribe locali, in primis padovane.
Se nel 2015 aveva prevalso il gioco della figurina, nel 2020 si afferma il gioco delle ombre: considerando il vicesindaco padovano un candidato destinato alla sconfitta, lo si è ‘promosso’ per ostacolare l’apparizione di personalità non solo con maggiori chance di affermazione, ma soprattutto in grado di mettere in ombra le già citate vecchie figure cardinalizie ed innescare una mobilitazione di rinnovamento ed alterazione dei vecchi stantii equilibri che hanno portato all’entropizzazione del Partito Democratico.
L’indicazione di Lorenzoni, nel più classico dei casi di promoveatur ut amoveatur nasce come esigenza di porre fine ad una sempre più difficile coesistenza fra il ‘Professore’ ed il Sindaco, che rappresenta un insolito (per la tradizione politica patavina) protagonista che, a tre anni dall’insediamento, continua ad affermare orgogliosamente che lui “non fa politica”, che “non è né di destra né di sinistra”.
Nella penombra della nuova politica conseguentemente diventano prevalenti il tatticismo e la capacità manovriera di alcuni soggetti, spesso defilati in una dissimulazione più apparente che reale: ecco che in questo ambiente, la candidatura a Presidente del Veneto è diventata un’operazione straniante, di regressione della cultura politica.
A promuovere il vicesindaco di Padova, concorrono, come già segnalato, lo stesso Sindaco (Giordani) che pur negandolo in cuor suo è ben lieto di essersene ‘liberato’, ed altre due figure dignitose quali il sindaco di Belluno, il cui ciclo politico è in via di conclusione, e quello di Rovigo: il trio si fa interprete e strumento di una ‘prospettiva civica’ promossa come allargamento della coalizione incaricata di battere Zaia.
In questo modo succede che una candidatura ideata con uno stratagemma tattico (legittimo ed abile) riesce a farsi largo nel vuoto di un’organizzazione politica che ha escluso la partecipazione di competitor veri e si è negata la possibilità di ricorrere alle Primarie, facendo esalare l’ultimo respiro ad un’identità di Partito oramai ridotta a puro ectoplasma.
La sconfitta del 21 settembre si inscrive dentro questa cornice di mediocrità che, complice anche una campagna elettorale alterata dalla pandemia, ha portato il Centrosinistra a manifestare la sua marginalità in un contesto socioeconomico che costituisce ancora – pur fra grandi difficoltà e processi di trasformazione vischiosi ed aggravati dall’assenza di una governance regionale (di cui il principale responsabile è il Presidente uscente e rientrante) – uno degli asset fondamentali del Sistema Paese.
Dal 22 settembre *, con la apertura della stagione post Zaia, si aprirà un nuovo capitolo della storia veneta, all’interno della quale diventa decisiva la partita della ricostruzione di un rigenerato Centrosinistra in cui i pusillanimi testimoni del Sì critico ed i diversi rappresentanti della subalternità culturale alla zaiazione, dovranno essere orientati ad un cambio profondo di visione, strategia e modello organizzativo.
Perché bisogna archiviare rapidamente il ciclo della mediocrità, degli opportunismi e dei velleitarismi che ha caratterizzato l’ultima Legislatura regionale (di Maggioranza ed Opposizione) e tuffarsi immediatamente nel futuro che è già tra di noi, determinando le condizioni (politico-istituzionali, economiche, associative) per l’affermazione ed il protagonismo di una nuova generazione di leader liberi, meritocratici, generosi e solidali.
Ad essi spetterà il compito di riaccendere la passione civile e la dialettica democratica affinché l’intera Comunità veneta sia in grado di affrontare le inedite sfide della competizione che la Pandemia ha provocato. Lo chiedono le migliaia di persone che nei prossimi mesi, al termine della drogata cassa integrazione, si ritroveranno senza lavoro e con professionalità non adeguate alle nuove domande, e le imprese chiamate ad uno sforzo di reintrepretazione, dentro le mutate cornici internazionali (altro che piccolo e bello). Il tradizionale far finta di nulla in attesa che tutto passi, di questi tempi corrisponderebbe alla diserzione.
Dino Bertocco
* Segnalo tre fatterelli accadutimi in questi anni che mi hanno consentito di scrutare e prefigurare lo svolgimento di fatti e significati suggellati dai risultati elettorali.
a) Nel 2014 partecipai alle Primarie organizzate dal PD veneto per scegliere il Candidato Presidente alle elezioni regionali del 2015, particolarmente intriganti per il dopo-Mose. In quella stagione e temperie politica Simonetta Rubinato mi apparve una candidata ‘popolare’, in grado cioè di promuovere un radicamento socioculturale territoriale nel segno di un Regionalismo maturo, competitivo elettoralmente con la sterile predicazione indipendentista leghista e generato dalla partecipazione dei cittadini, senza eterodirezioni centralistiche romane; ma al Nazareno preferirono confezionare ed orientare il voto degli iscritti verso una ‘figurina’ funzionale ai giochini correntizi tutti interni, sterili ed indisponenti (come fu si confermato dal voto) per l’elettorato. Quello del ‘giochino’ delle figurine è un vizio ben radicato che, seppur traslato nella succursale di Italia Viva, il buon Renzi ha reiterato anche in queste elezioni con una candidatura-etichetta di Partito … (E’ il caso di ricordare che nel 2020 Simonetta Rubinato è riemersa dai ‘flutti democratici’ con un’altra formazione politica, ma con lo stesso programma del 2014?).
b) Seppur ‘perdente’ in quel frangente mi predisposi a dare un contributo alla campagna elettorale e presentai alla Segreteria regionale del PD una Piattaforma programmatica che definii ‘il Veneto che vogliamo’ che, attraverso l’adozione di strumenti e metodologie operative digitali di comunicazione e cittadinanza attiva, si proponeva di avviare una corsa lunga in termini di elaborazione e promozione di una mobilitazione civica competitiva con la vulgata leghista: superfluo ricordare che la proposta non fu presa in considerazione ed è stata recuperata fuori tempo massimo e del tutto ridimensionata in prossimità delle elezioni… successive!
c) Ricordo infine, con sofferenza, la paradossale vicenda del Referendum farlocco del 2017: in quell’occasione, con un’iniziativa autonoma di un Gruppo di cittadini, abbiamo vanamente tentato di ‘svegliare’ il PD dal sonnambulismo che lo ha condotto ad adottare una pozione, il ‘Si critico’, risultata determinante per suggellare una gigantesca operazione, finanziata dalla Regione, di manipolazione dell’opinione pubblica veneta.