“VICO POP. La Scienza Nuova della politica”, il saggio di Giuseppe Gangemi

di Giuseppe Gangemi
Presentazione del saggio di filosofia politica “Vico Pop. La nuova Scienza della Politica” di Giuseppe Gangemi (ed. Marotta&Cafiero – 2019)

Un percorso nell’idea di politica e democrazia, con la consapevolezza che la grande filosofia di G. Vico è più che mai legata ai problemi concreti, rendendo possibile e necessario il dialogo fra la gente e chi, nelle torri d’avorio, la governa.

VICO POP: Vico è Giambattista Vico, grande filosofo napoletano. POP è termine con cui, nell’arte moderna, si intende la cultura popolare, cioè l’idea che a qualsiasi livello della società si possa far cominciare un processo di incivilimento che segua le tappe indicate da Vico nella Degnità LIII:

“[g]li uomini prima sentono senza avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso; finalmente riflettono con mente pura” (Vico 1836, II, 113).

VICO POP è innanzitutto la consapevolezza che ogni vita o esperienza nuova non nasce come Minerva dalla testa di Giove, tutta già bella e formata, ma che ha bisogno dei suoi tempi e delle sue fasi per trasformarsi in qualcosa che abbia un senso comunicabile. Ogni nuova idea nasce come una sensazione che si deve fare strada tra le verità tradizionali e consolidate. Si presenta come un germe che, anche se in potenza, ha, al suo interno, la pianta nella sua matura completezza.

Ed è anche possibile il caso di una verità formulata con mente pura che, tuttavia, non viene percepita come tale.

L’esempio più eclatante è quello delle teorie di Niccolò Machiavelli: Il Principe, I Discorsi e L’arte della guerra sono dei capolavori assoluti. Non vengono considerate ragionevoli fino al 1527 quando, dopo il Sacco di Roma, qualcuno comincia a criticare Francesco Guicciardini per non aver ascoltato il suo conterraneo. Per questo, Guicciardini viene esautorato e si ritira dalla politica attiva.

Passa tutto il tempo che gli resta a scrivere delle considerazioni sopra I Discorsi di Machiavelli. La principale delle sue critiche a Machiavelli è che nessuna delle affermazioni del segretario fiorentino è argomentata in modo logicamente accettabile. Cosa, che ovviamente, non era vera.

Secondo Vico, le prime due fasi della Degnità LIII possono essere autodidatte, cioè seguite dai gregari in modo autonomo, indipendente e alternativo, mentre la terza può essere realizzata solo attraverso la guida di intellettuali. E se questi ultimi non sono all’altezza del compito, che è quello di dialogare con i gregari che hanno saputo capacitarsi, si può palesare il primo albore della seconda barbarie.

Inoltre, la Degnità LIII va letta in collegamento con il concetto di Seconda Barbarie. Di questa barbarie Vico dice che nasce dall’errore di genere, cioè dall’errore del sapere categoriale, cioè della generalizzazione per categorie. In altri termini, nasce dall’incapacità dell’intellettuale di riflettere con mente pura. Ha origine, quindi, nella boria dei dotti che presumono di poter trasformare in verità consolidate le proprie convinzioni anche se queste non procedono in sintonia con il processo di incivilimento che stanno percorrendo i non intellettuali.

Infine, ogni Seconda Barbarie implica un nuovo inizio anche sul processo che porta alla riflessione con mente pura. La via la indica, spesso, un intellettuale che sente, senza avvertire, di dover indicare un nuovo percorso. Come ha fatto, per primo, Vincenzo Cuoco dopo la crisi del 1799, invitando a rileggere Vico e trarre ispirazione da lui. È iniziata, così, una grande stagione intellettuale che viene raccontata nei capitoli di questo volume.

Quello che non viene raccontato (ed è per questo che vi accenno in questa Presentazione) è la seconda barbarie che è seguita a quella fase di incivilimento subito dopo che si è costituita l’Italia, senza costruire gli Italiani.

Per primo, il Deputato di Casoria, Francesco Marzio Proto Carafa Pallavicino, Duca di Maddaloni, un patriota che ha combattuto per l’Italia unita e ha passato molti anni in esilio, comincia ad avere dei dubbi su quello che sta accadendo, subito dopo la proclamazione del Regno d’Italia, e, nel novembre 1861, denuncia in Parlamento la crisi dell’Unità d’Italia. Parla tra le urla e gli schiamazzi scandalizzati dei deputati. La presidenza della Camera non autorizza la lettura della relazione e vieta la pubblicazione del suo intervento e della sua relazione negli Atti Parlamentari.

Succede qualcosa di analogo, qualche tempo dopo, anche al più tranquillo Paolo Mantegazza che pretende di usare la logica e la competenza laddove i grandi leader politici usano esclusivamente la retorica. Al suo primo intervento, prende la Camera di sorpresa. Intervenendo dopo Francesco Crispi, smonta punto per punto le argomentazioni retoriche di quel potente uomo politico che si indispettisce: “capo allora della sinistra, … agitando telegraficamente le sue braccia con violenza chiedeva ai vicini chi io fossi. E tutti mi guardavano – rispondendo a lui che non mi conoscevano – E quell’ignoto, quel quidam, osava mettersi di contro a un Crispi, al capo potente di tutto un partito!”.

Più in avanti, la sorpresa non c’è più e la claque è pronta a stoppare il tentativo dell’antropologo di usare la logica per migliorare una proposta di legge. Si discute di igiene e di risaie, e il giovane Mantegazza parla nel nome della propria competenza in termini di igiene (materia che insegna all’Università): “… la scienza, e tutti sono d’accordo che le risaie aumentano le malattie e diminuiscono la vita media di una popolazione …”. Non è quello che vuole sentire la maggioranza.

Di conseguenza, mentre egli parla, da più parti della Camera si alza un grido continuo e corale per impedirgli di far giungere la sua voce ai disponibili ad ascoltarlo: “Ai voti! Ai voti!”. Poi l’onorevole Allievi scende dal proprio posto e si avvicina a quello dell’oratore per dirgli: “- Caro Mantegazza, avete parlato molto bene, ma io vi voterò contro – Infatti la legge passò, e anche questa volta il denaro vinse l’igiene”.

La generazione dei patrioti risorgimentali viene sostituita da una nuova generazione di politici che si rivolgono al popolo, in qualità di socialisti o di cristiani. Questi ultimi costruiscono scuole per l’alfabetizzazione, seminari per l’istruzione dei più capaci, università private per formare i propri quadri dirigenti. I socialisti studiano da autodidatti, si formano sui libri del socialismo e nelle lotte.

E quando finiscono in carcere, spesso studiano il tedesco per poter leggere in lingua originale i loro classici. Il partito di massa è uno strumento di selezione della classe dirigente, ma anche di formazione intellettuale di quanti appartengono a famiglie che non hanno potuto accedere all’istruzione superiore.

Dall’altra parte, la scienza politica riscopre l’elitismo attraverso le opere di due grandi conservatori: Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Lo studio ridiventa un elemento importante anche per quelle élite che hanno una visione aristocratica della cultura: liberali alla Benedetto Croce e nazionalisti della Nuova Italia, come pure filosofi neoidealisti alla Giovanni Gentile, che finiscono per diventare, per circa un decennio, la guida culturale del fascismo.

VICO POP è l’idea che Vico sia schierato dalla parte di chi crede possibile e necessario il dialogo tra la gente semplice (i gregari) e chi governa (i capi) e che i suoi avversari siano quanti operano secondo l’ipotesi che questo dialogo non sia necessario e operano come se non sia nemmeno possibile. VICO POP è l’idea che bisogna evitare ogni forma di violenza a cominciare da quella che comincia con le parole perché, come insegna Guido Calogero, il salto tra violenza della parola e violenza dell’atto non è poi così elevato.

NON è POP l’operare o argomentare attraverso: 1) semplificazione delle situazioni complesse alla loro manifestazione più semplificata possibile, fino alla banalizzazione della situazione descritta al punto da renderla praticamente ovvia; 2) ripetizione (fino all’ossessione, alla Paul Joseph Goebbels) dell’argomentazione anche debole perché più volte si ripete, e da più parti, un’affermazione magari falsa e più si rafforza la sua capacità di apparire vera; 3) asseverazione, cioè il ripetere con sicurezza e gravità come se la propria sia l’unica verità accettabile; 4) intransigenza, cioè l’insistere sul fatto che le verità degli altri non siano all’altezza delle proprie.

In questo lavoro, Vico viene presentato come il filosofo empirista della politica cui si finisce per ispirare per le grandi imprese da realizzare. Per esempio, individuare una possibile via di uscita dalle grandi crisi sistemiche, cioè dalla Seconda Barbarie. In questa direzione se ne serve e lo ripropone Vincenzo Cuoco dopo la crisi napoletana del 1799, aprendo una chiave di lettura che dura fino all’Unità d’Italia e influenza Giandomenico Romagnosi, Carlo Cattaneo, Giuseppe Zanardelli (quest’ultimo importante in quanto primo politico ad avere proposto il “federalismo antropologico”).

Poi, se ne servono Benedetto Croce e Giovanni Gentile per riaffermare l’idea di un’unica nazione italiana messa in crisi dalla teoria delle due razze di Cesare Lombroso e dalle conseguenze che avevano cominciato a trarne i più accesi e radicali seguaci delle sue teorie.

Infine, se ne servono Giuseppe Capograssi e Silvio Trentin per rifondare la democrazia travolta dal fascismo, attraverso la proposta di un federalismo diverso da quel federalismo etnico successivamente predicato dalle varie versioni della Lega (Lombarda, Nord, con Salvini Premier).

Questa rassegna dell’influenza, ad intermittenza, di Vico sulla società italiana negli ultimi due secoli va intesa come contributo alla comprensione della necessità di ripartire da questo grande filosofo napoletano per individuare una via d’uscita alla presente crisi della cultura e della politica italiana. La manifestazione più evidente di questa crisi è il fatto che Camera e Senato, da troppi anni ormai, funzionano come un Vantamento e non come un Parlamento.

Ritornare a Vico significa anche riportare la massima istituzione della rappresentanza da luogo del Vantamento alla pratica del parlamentare.

Il Regno di Sicilia di qua dal faro, sin dal tempo dei Normanni, era strutturato su centinaia di Parlamenti locali, uno per ogni Stato locale. In genere si trattava di capifamiglia eletti da altri capifamiglia. Essi discutevano e decidevano di ogni decisione da prendere che riguardasse lo Stato locale. Questi Parlamenti sono spariti con la riforma francese del 1806 che sostituisce gli Stati con i Comuni. Questi Parlamenti non saranno ripristinati al ritorno dei Borboni che manterranno l’istituto del Comune. Dopo sette secoli di uso delle pratiche parlamentari, molti contadini meridionali avevano capito quando un loro Parlamento funzionava e quando non funzionava affatto e avevano elaborato due diversi modi di chiamare questa istituzione: Parlamento quando funzionava perché tutti erano uguali di fronte agli argomenti da discutere e ognuno ascoltava le ragioni degli altri; Vantamento quando non funzionava perché questa uguaglianza di fronte alla logica non c’era e nessuno ascoltava o prendeva sul serio gli argomenti degli altri.