Ancora sul libro di Paolo Giaretta: le lezioni del passato ci indicano la necessità di conciliare gli interessi con i valori

(di Giovanni Tonella). Il PD deve farsi promotore di un Recovery Plan per il Veneto: recupero, rammendo, relazione, organizzazione e resilienza come progetto di modernizzazione ecologica

Un tuffo nel passato

Ho ricevuto il saggio di Paolo Giaretta e l’ho letto come si beve l’acqua quando si è assetati.
Gentilmente me lo ha inviato con estrema sollecitudine. Lo conosco da quando è nato il PD, nel lontano 2007.

All’epoca io ero segretario provinciale dei DS di Treviso, l’ultimo, ed ero tra i costituenti regionali del nuovo Partito che stava nascendo.

La fusione a Treviso non fu indolore: gli accordi romani furono rovesciati per un atto di libertà territoriale, di cui fui protagonista insieme a Lorenzo Biagi ed Enrico Quarello

Sono anni lontani, ormai. In verità conobbi Paolo, prima, quando, compatti, i DS del Veneto, guidati dall’allora segretario regionale Alessandro Naccarato, nella fase genetica del PD sostennero la candidatura, nell’area Veltroni, appunto di Giaretta.

Diego Bottacin la subì, immagino.

Per la prima volta, in verità, fu Enrico Morando, andando in macchina insieme alla festa dell’Unità di Cappella Maggiore, a parlarmi di Giaretta come futuro segretario del PD del Veneto. Poi incrociai Paolo nel periodo della sua segreteria, perché collaborai al Pensiero democratico, una rivista diretta, se non ricordo male, da Paolo Giacon e Michele Fiorillo, una rivista intelligente che purtroppo non sopravvisse a quella fase iniziale.

Devo dire, per inciso, che se quei giovani di allora avessero avuto la fortuna di diventare dirigenti del PD del Veneto forse le cose non sarebbero così come sono oggi. Ma è anche probabile che in politica ci si deve far largo, non solo aspettare, specie in un partito come il PD che nella sostanza è quasi uno stato di natura di gruppi armati, in parte privi di una cultura comune.

Ho sempre mantenuto negli anni un rapporto, di telefonate e scambi, anche quando, direi quasi sempre, siamo stati su mozioni diverse. D’altra parte mi sento attirato dall’intelligenza e quindi era naturale per me. Gli ho anche chiesto una prefazione ad una raccolta di scritti politici, la seconda.

Un contributo per progettare il futuro

Ma voglio fermarmi con l’amarcord, e andare al testo di Paolo. Si tratta di un contributo importante che va letto per progettare il futuro e correggere alcuni errori. Mi pare di poter dire che sia il frutto di una raccolta di scritti, che per la verità si toccano e si sovrappongono in alcuni punti, che ripropongono medesimi sentieri ricostruttivi della storia politica del Veneto, specialmente sul versante democristiano, quello determinante, almeno fino agli inizi degli anni novanta, per poi dare alcune indicazioni di lettura sugli ultimi anni di forzaleghismo e legaforzismo.

L’impostazione degli scritti riprende degli schemi interpretativi radicati nella scienza politica di natura storica che in Veneto si è elaborata nel tempo, non a caso sono diversi i richiami a Diamanti, Riccamboni e all’allievo di Riccamboni, Almagisti, come sono numerosi quelli alle ricerche storiche di Filiberto Agostini.

Sono molto presenti, poi, i lavori di giornalisti come Lago, Jori e Mazzaro.

E vi è anche un richiamo al lavoro di ricostruzione del percorso di formazione del PD di Andrea Colasio, Vento del Nordest. Storia e storie del Partito Democratico, Il Poligrafo, Padova 2013 (un libro che presentai insieme a Diego Bottacin ormai diversi anni fa a Treviso).

Accanto però a questa riproposizione di schemi interpretativi ormai consolidati sulla cultura politica del Veneto, ed in particolare sulla subcultura bianca e l’interpretazione dell’avanzata leghista, vi è anche la presenza dell’esperienza personale, politica, pratica diretta. Usando parole di Paolo, è trasparente la volontà di mettere in evidenza come la DC e nel complesso i partiti della prima repubblica riuscissero a tenere insieme società complesse, attraverso una infrastruttura democratica capillare ed un lavoro di intercettazione degli interessi e dei bisogni.

Giaretta, in particolare, mette in evidenza la funzione e la capacità di due figure della DC veneta, Mariano Rumor e Antonio Bisaglia, e sottolinea come la DC veneta ebbe un ruolo molto importante a livello nazionale (un ruolo che certamente oggi le forze politiche del Veneto non hanno). Lo sviluppo del Veneto fu certamente favorito da questo ruolo, sia in termini di politiche nazionali di sostegno, sia in termini di intermediazione e rappresentanza degli interessi materiali della regione. In particolare la figura di Bisaglia emerge come assolutamente consapevole della funzione della DC e di come essa doveva e poteva reinterpretare il proprio ruolo anche in una fase di secolarizzazione della società e declino dell’insediamento e dell’identità cattolica, la linfa vitale e generatrice dei dirigenti democristiani.

Lo stesso Basaglia, però, manifesta la consapevolezza che la DC non poteva pensare di essere eterna: il riposizionamento da partito cattolico a partito degli interessi fu un tentativo di risposta, evidentemente, ma ne metteva in evidenza anche la “provvisorietà”.

Altro aspetto che emerge è quello del federalismo, e dell’occasione perduta dalla sinistra nella fase del Movimento dei Sindaci per il federalismo. È anche vero che quella stagione, come mostra Colasio, finisce per la responsabilità dei leader dell’epoca. Tuttavia quella stagione ha sicuramente contribuito alla riforma del 2001 del titolo V.

Sul fronte del centrosinistra giustamente Giaretta canonizza ormai alcuni elementi cardinali e orientanti la storia politica recente: l’errore della candidatura Bentsik che permetterà a Galan di vincere agevolmente, imputato alla Bindi, l’errore nel non aver sostenuto il gruppo unico del Centrosinistra a sostegno della figura di Massimo Carraro, l’errore di non aver prodotto dopo il 2015 nessuna reale alternativa alla crescente ascesa di Zaia.

Indubbiamente anche le ultime elezioni regionali hanno riproposto il solito ritardo nella costruzione di un progetto e di una candidatura. Nessuna o scarsa reale costruzione e sostegno ad un candidato, scarsa ricerca e proposta programmatica, vera, radicata in un lavoro di rappresentanza e organizzazione. E infatti alla fine di un ciclo così sterile nel costruire una alternativa è chiaro che vi sia un declino elettorale così marcato.

Riorganizzare la Comunità

Le idee ci sarebbero ma il problema è il lavoro di rappresentanza, di inclusione e organizzazione dei bisogni. Per questo devo dire per me è stato interessante nell’ultimo periodo sia la lettura di un testo di Saul Alinsky sulla organizzazione di comunità che uno di Paolo Gerbaudo sul partito digitale, come è stato importante ragionare, insieme a Dino Bertocco, sulla questione veneta e democratica con un documento che abbiamo steso insieme sulle ultime elezioni regionali.

Alla luce di questo sforzo analitico, pertanto, posso abbozzare queste conclusioni di natura operativa: si tratta di operare in due direzioni, una organizzativa e l’altra politica in senso culturale.

Due direzioni che vanno intraprese con la consapevolezza che è necessario affrontare una premessa: dal punto di vista sociologico- se assumiamo la logica dei sistemi – è naturale considerare la tendenza all’autoreferenzialità del sistema politico, tuttavia tale autoreferenzialità, se recide qualsiasi scambio con le altre articolazioni o gli altri sistemi della società mette in moto un processo di involuzione, tale da portare la politica specializzata, come attività, all’irrilevanza o alla subalternità nei confronti degli interessi (la denuncia di Bisaglia ricordata da Bertocco nella recensione al saggio di Giaretta docet, e spiega poi l’asse portante delle politiche della fase Galan-Zaia, e il fatto che la questione morale e la degenerazione dei partiti non ha avuto una soluzione di continuità).

Ciò fa parte della crisi cognitiva della nostra società che più volte ha sottolineato Carlo Donolo? Credo di sì, perché se c’è una specificità della politica – sarò ancora classico in questo – è avere un ruolo di sense making e di unificazione, di rappresentazione, di messa in forma, di costituzione di senso. Ma ciò è possibile non solo mediante le capacità comunicative, ma anche mediante la reale capacità di comprendere, tessere e indirizzare. Quindi è necessario uno sforzo di risalita, andando oltre il chiacchiericcio abituale, dei media, abbeverandosi invece alla ricerca scientifica, alla sua divulgazione, ma anche allo studio delle punte avanzate di organizzazione e produzione dei servizi e dei prodotti.

Serve pertanto una capacità di relazione – ecco il concetto centrale che unisce organizzazione e pensiero: per questo si tratta di fare un salto e unire quella passione organizzatrice e analitica che Giaretta riconosce al giovane Rumor, con la consapevolezza che la politica se non sa svolgere la sua funzione dovrà essere sostituita prima o poi, come aveva intuito Bisaglia a proposito del superamento del partito sempre sul punto di accadere.

Se vi era una virtù della politica era quella di anticipare i tempi: quando ci si attarda, i tempi sopraggiungono inesorabili. Pertanto in Veneto serve un partito progressista che ristabilisca e riorganizzi una relazione sociale, una capacità di coinvolgimento e interlocuzione: per questo la via elettoralistica e notabilare è intrinsecamente insufficiente.

Ma per farlo serve l’innovazione digitale, l’ibridazione con i nuovi media e le nuove tecnologie, come serve il rapporto con il cervello sociale, che – punto ulteriore per una forza del progresso – non va inteso solo come un rapporto con la cultura e la scienza, ma anche con il lavoro e con le parti della società in sofferenza.

L’idea comunitaria che Michael Sandel propone, in termini critici rispetto ad una sinistra che accetta totalmente e acriticamente il terreno liberal-meritocratico, è illuminante su questo. E serve un programma di ricerca, una progettualità, un orizzonte: la transizione ecologica e il rilancio industriale sono forse termini insufficienti: recentemente confrontandomi con Dietelmo Pievani più che della transizione è emersa la necessità della svolta, una Kehre, un salto in avanti, non al cielo, ma comunque in avanti: in altre sedi ho scritto di modernizzazione ecologica, perché non ritengo che si debba rinunciare al progetto della modernità.

Una Regione aperta e connessa

Per il Veneto ciò significa fare un’operazione semplice e allo stesso tempo difficile: mettere insieme le energie e le risorse di cui dispone, in una logica per cui si mette in relazione anche con l’esterno: le energie e le risorse non sono semplicemente quelle del territorio, ma sono quelle della connettività globale e soprattutto europea e ciò significa anche comparare la propria situazione con le aree urbane e industriali più avanzate d’Europa: lo schema, specialmente per le forze progressiste, è quello non solo di recuperare una capacità di rappresentanza e di progetto intorno all’industria, coinvolgendo la scienza, l’impresa e il lavoro – come ho cercato di abbozzare nello scritto La sinistra e la civiltà industriale – ma anche comprendere che la sfida è la capacità di preservare il capitale ambientale o comunque di produrre scambi equi tra la tenuta dell’ecosistema e lo sviluppo economico, facendo del terreno della svolta ecologica il driver di una riorganizzazione della produzione e dei servizi.

Non è un caso che le aree più dinamiche della Germania, ad esempio, vedono una avanzata su di un terreno politico della proposta politica ecologista, con una presenza sempre più di governo e amministrazione. Da questo punto di vista in Veneto si tratta di costruire una proposta coalizionale che definirei “Semaforo”, per usare il linguaggio tedesco, ossia che unisca le forze ecologiste, quelle socialiste e quelle liberali progressiste.

Ma questo riferimento, alla luce anche dell’importante contributo di Giaretta, appare insufficiente, se non si recupera anche il meglio della sussidiarietà e della cultura cattolico-sociale che in Veneto ha avuto un grande peso e che per esempio ha costruito (anche in accordo con la sinistra) il sistema socio-sanitario regionale.

Un Recovery Plan per il Veneto

Concretamente, considerato il ciclo politico di questi anni che dopo la denuncia di Bisaglia ha segnato la subalternità del forzaleghismo agli interessi di corto respiro, si tratta di fare un’opera di resiliente rammendo e recupero, una sorta di Recovery Plan per il Veneto (non solo in relazione con la progettualità del PNRR nel Veneto, cosa rilevantissima).

Alcuni esempi: i processi di riorganizzazione dei servizi pubblici locali, a molti livelli, hanno ancora dei margini incompiuti; in particolare una politica della connettività e dei trasporti con una governance regionale che superi la frammentazione non solo del TPL, ma anche dei concessionari della autostrade, per avere un’idea regionale e metropolitana del trasporto del futuro ecologico; la logica di un policentrismo che finalmente viene regolato e gerarchizzato, contro l’anarchica distruzione del territorio: in Veneto la più grande sfida alla gerarchia urbana è stata la Pedemontana.

Si tratta ora di pensare in termini resilienti la riorganizzazione dello spazio urbano veneto; un altro esempio è legato al compimento del piano paesaggistico, oppure al rilancio del sistema socio-sanitario pubblico, e soprattutto alla collaborazione tra impresa e università: l’industria di qualità e avanzata è garanzia di una benessere redistribuibile, ma serve una regia politica, una capacità, su progetti al servizio del territorio, di mettere insieme le Università e le imprese.

Il tutto va affrontato con un metodo di confronto e relazione con quanto di meglio si è operato. Sono solo alcuni spunti, ma che partono dalla necessità per la politica – qui riemerge la centralità della relazione e organizzazione – di ripartire dalla società, dalla mappatura del Veneto, dai suoi punti di forza e debolezza, cercando di presidiare e recuperare terreno rispetto alla capacità di costruire e guidare mediante la cultura.

La destra oggi presidia il mondo dei simboli culturali del Veneto, ma è in grado veramente, rispetto alle sfide del futuro, e quella centrale è quella ecologica, di preservare e dare senso al “mondo della vita”? Ecco la sfida.

Se saremo in grado di essere all’altezza, usciremo dall’inconsapevole stato di minorità in cui ci rinchiude una certa ideologia dell’autonomia: serve una fase che definirei illuminista, una uscita dallo stato di minorità, che significa la modernizzazione ecologica come avanzamento per l’Italia e l’Europa: significa cioè essere all’avanguardia per dare un servizio al paese e all’Europa, evitando la sindrome dell’isolamento del primo della classe che ricorda molto il declino settecentesco della Serenissima.

Giovanni Tonella