Pandemia economica, come affrontarla. Riflessioni di Amedeo Levorato

Una visione sintetica della crisi globale Covid-19 ed un decalogo di riflessioni per orientare la ripartenza

La condizione dell’economista è estremamente critica: è costretto dalla teoria delle aspettative a scrutare l’andamento delle variabili economiche attendendosi il peggio quando i mercati sono ai massimi e l’euforia imperversa, nell’attesa che le cose possano andare peggio. Ma lo è a maggiore ragione quando le cose vanno davvero male, e potrebbero andare molto peggio.

La situazione è quella che stiamo vivendo oggi: il declassamento del debito pubblico italiano di Fitch a BBB- mette in pericolo centinaia di miliardi di investimenti esteri e nazionali in BTP e BOT italiani: i regolamenti di finanza dei fondi pensione, infatti, prescrivono l’immediata vendita dei titoli che vengono declassati al di sotto dell’”investment grade”, e ci mancano solo due livelli per arrivarci.

Piu’ prosaicamente, le previsioni di Prometeia di Aprile 2020 (“Italy in the global economy Prometeia Brief”) indicano che il calo del PIL regionale, in relazione alle differenziazioni territoriali indotte dall’intensità dell’epidemia di COVID, potrebbe variare dal -7% del sud al -11% del nord Italia (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna). Il settore manifatturiero dovrebbe perdere a fine anno il 10% del valore aggiunto, al pari delle costruzioni. L’ingrosso e il dettaglio -8%, i trasporti e magazzinaggio -20%, il turismo hotel e ristorazione il -30%, le attività ricreative ed educative -25%.

Questo scenario “orribile” atterra su un andamento pre-crisi non roseo: già a dicembre 2019 gli scenari 2020 non erano positivi: il debito pubblico italiano stava sul “plateau” ascendente a 137,4% del PIL con 2.400 miliardi di euro su 1.900 di statico PIL, una riduzione di -75.000 occupati nell’ultimo trimestre, un aumento di 42.000 inattivi, numerose crisi aziendali tra cui Alitalia, Arcerlor Mittal, molte crisi sistemiche di PMI, la produzione industriale a -4.3%, il fatturato a -0.3%, e gli ordini a -1,9% essenzialmente a causa della debolezza degli investimenti imprenditoriali in Italia e le conseguenze nefaste della guerra dei dazi internazionale intrapresa da Trump e i loro effetti sull’incertezza sul commercio internazionale.

Questa situazione nei trimestri IV/2019 e I/2020, anche in assenza di Coronavirus, non era certo dovuta alle politiche europee: l’ultimo periodo da governatore di Draghi alla BCE era stato segnato da un ritorno alle politiche di Quantitative Easing, anche se su dimensioni ragionevoli e non confrontabili con quelle che saranno attuate da aprile 2020, a causa essenzialmente del consenso germanico su politiche di acquisto intese a mantenere i consumi europei, l’export tedesco di veicoli, e la tranquillita’ delle banche tedesche per i debiti pubblici europei.

In Italia, invece di sfruttare l’imprevisto ma non troppo imprevedibile aumento del gettito di oltre 15 miliardi annui derivante dall’introduzione della fatturazione elettronica dal 1° gennaio 2019 nel settore privato, si è pensato di impegnare oltre 20 miliardi in spese essenzialmente improduttive, come Quota 100 e il Reddito di Cittadinanza, invece che favorire la realizzazione di infrastrutture e la creazione di nuovi posti di lavoro nelle imprese con gli investimenti.

Al miglioramento dei conti dell’INPS ottenuto grazie alla stretta pensionistica, si è risposto convogliando tutto il surplus tra 600.000 pensioni in meno l’anno contro 200.000 pensionamenti verso la spesa sociale.

Questa mancanza di lungimiranza ha fatto trovare l’Italia in condizioni di impreparazione, sotto il profilo economico, di fronte alla crisi generalizzata globale prodotta dal Coronavirus.

Nel momento in cui scriviamo, le previsioni sugli effetti della crisi sono ancora imprecise e imprevedibili, anche se non mancano segnali inequivocabili della difficoltà con cui ripartiranno – nonostante la buona volontà degli imprenditori e degli stessi lavoratori – i distretti e i settori produttivi italiani dopo la crisi pandemica.

La frantumazione delle catene di valore rappresenterà il primo focolaio della recessione che inevitabilmente impegnerà la seconda parte del 2020 e parte del 2021: la mancanza di tempismo e cronologia produttiva tra imprese, filiere, produttori e subfornitori generata dai “lockdowns”, la disconnessione tra le aziende nelle catene di subfornitura globale, il mismatch tra domanda e offerta di beni di consumo e durevoli, saranno i segnali inequivocabili della necessità di costruire nuovi equilibri.

Ma questi equilibri non saranno semplici da perseguire, perché il mondo è stato colpito in modo diverso (e lo è ancora) dalla crisi, e la crisi stessa ha colpito diversamente produttori e consumatori, rompendo un equilibrio e una sincronia che non sarà facile ricostruire.

L’esempio del turismo internazionale, un business globale da migliaia di miliardi, attualmente completamente fermo sia per la residenzialità (alberghi, bed&breakfast, musei, monumenti, eventi) che per i trasporti (aerei, treni, autobus e perfino autovetture private), è sufficiente per comprendere la portata e la dimensione delle difficoltà che dovranno essere superate.

Un recente studio previsivo di CERVED (impatto sui settori secondo lo scenario COVID-19 base), quindi non pessimistico, offre come risultato per il 2020 cali di fatturato di dimensioni mostruose previste per il 2020: logistica e trasporti -13,7%; mezzi di trasporto -11,7%, servizi non finanziari, alla persona, turismo, cultura -10,1%, carburanti energia utility -9,0%, elettromeccanica -8,9%, costruzioni -8,3%, metalli e lavorazione metalli – 7,6%, distribuzione – 7,2%, sistema moda -6,8%, sistema casa – 5,9%, largo consumo -2,1%. Ad aumentare solo l’attività agricola (+1,2%), chimica e farmaceutica (+1,1%), elettrotecnica e informatica (+0,2%).

Uno scenario che porterebbe il fatturato dell’economia italiana da 2.410 miliardi di euro del 2019 a 2.232 miliardi di euro nel 2020 (-7,4%) per poi risalire nel 2021 quasi allo stesso livello del 2019, a due condizioni: che il Governo e l’Europa intervengano in fretta e con le modalità indicate sinora, e che l’epidemia si avvii a scomparire a partire da maggio 2020.

Previsioni davvero ottimistiche, se si considera che la Germania arretra, la Francia nicchia, gli Stati Uniti e tutto il continente americano sono nel pieno della crisi, come l’Africa e il subcontinente indiano.

Si potrebbero spendere decine e decine di pagine di analisi della situazione, senza riuscire a spingere la previsione al livello di dettaglio che tutti noi desidereremmo ottenere per avere una chiara visione di ciò che ci attende nei prossimi 8 mesi del 2020, e ancora più nel 2021, condizionati come siamo all’individuazione delle cure, alla necessità imprescindibile di un vaccino COVID-19, alla comprensione degli effetti collaterali della pandemia, sia dal punto di vista sanitario per la popolazione, sia da quello psicologico, sia da quello del perdurare della crisi a causa dello stabile numero di contagi: anche essi fermi al “plateau” discendente, contrariamente a quanto avviene per il debito pubblico italiano, crescente ora nel “plateau” del 150% e pronto ad impennarsi a causa delle misure adottate dal Governo Conte.

Ci siamo pertanto qui limitati a riassumere in alcuni punti sintetici la fotografia dell’attuale situazione congiunturale, per cercare di offrire degli spunti di riflessione ai lettori e rendere meno anodina e più sincretica l’evoluzione della crisi, traendo delle indicazioni per l’operato quotidiano di imprese e politica, per il migliore sforzo nella gestione della crisi, anche se non per l’eccellenza, che non potremo avere per i troppi fattori di impreparazione che si sono evidenziati nell’economia italiana dopo le elezioni del 3 marzo 2018 e nel susseguirsi dei cambiamenti di equilibri e di governo del paese e delle sue urgenze.

Ecco qui quindi alcune riflessioni che – si spera – possano risultare utili:

  1. Focus sull’efficienza d’impresa. In un paradigma che vede la crisi temporanea, ma forse duratura, della globalizzazione produttiva, le imprese sono chiamate a focalizzare le proprie competenze distintive rispetto al mercato di riferimento: le proprie tecnologie, i propri lead di mercato, i propri fattori di forza, e internalizzarle il più rapidamente possibile, attraverso operazioni immateriali sul know how, oppure anche attraverso la delocalizzazione dall’estero all’Italia delle produzioni. Molte aziende tedesche, giapponesi e americane stanno valutando il rientro, e anche per l’Italia questa sarà una opzione significativa, mantenendo quanto di creativo e positivo possono mantenere all’estero, con le dovute cautele. Si tratta di attivare una specie di “economia circolare” che permetta di ridurre in cerchie su base nazionale e continentale fornitori e clienti essenziali, competenze e professionalità, luoghi di ricerca, mettendo le basi per una resilienza legata alla fatale possibilità che la globalizzazione produttiva e la delocalizzazione all’estero della produzione di semilavorati e beni intermedi possa durare per diversi anni. Un forte aiuto lo Stato potrebbe darlo sul piano nazionale e internazionale facendo funzionare al meglio la giustizia civile e contrattuale (oltre che tutelare dalla criminalità) in quanto periodi come l’attuale sono quasi sempre generatori di abusi, criminalità economica, azzardo morale, frodi.
  2. Attenzione al “core business” dell’impresa e rinuncia alle diversificazioni rischiose e prive di base commerciale (anche nelle start up innovative in qualche caso). Senza clienti, molte imprese manifatturiere e del terziario non sono più indispensabili, e quindi sacrificabili. Occorre che ciascuno, in una dimensione micro, torni a prestare attenzione ai costi, ai prezzi e ai margini, e una crescente attenzione ai problemi di natura normativa e legale, perché la prima reazione internazionale sarà impiegare barriere non tariffarie (normative, certificazioni, diritti di proprietà, golden shares) per tutelare le proprie produzioni nazionali e locali e – conseguentemente – i posti di lavoro. Proprio la conservazione e il miglioramento del lavoro, della sua qualità e competitività, dovrà essere il driver delle imprese aperte all’esportazione e di quelli competitive sul piano continentale, per consolidare le proprie fasce di mercato e di consumo. E il lavoro dovrà necessariamente e dolorosamente scontare nuovi margini di produttività, l’acquisizione di nuove competenze, ma soprattutto un netto aumento della flessibilità e riconvertibilità per inseguire i mercati. Occorrerà fare tutto il possibile per migliorare il proprio business alle migliori condizioni di prezzo e prestazioni, conservando la capacità di innovare. Ed anche rivedere l’ascensore sociale alla luce della competenza e dell’esperienza sistemica, evitando pero’ la polarizzazione e l’accrescimento dei differenziali salariali, perché, se risulta sempre più evidente che “uno non vale uno” e che nelle posizioni di responsabilità e decisorie occorre collocare – per meccanismi di scelta e consenso – persone che hanno già o possono dimostrare di essere in grado di decidere nell’interesse generale con cognizione di causa e assumendo responsabilità personale e reale, rimane tuttavia centrale la necessità di “portare avanti” tutta la struttura sociale e non solo i pochi consapevoli.
  3. Attenzione ai rischi “geopolitici” che saranno crescenti per tutto il periodo del “lockdown” ma esploderanno al termine del 2020. Il principale fattore di rischio geopolitico, in assenza di focolai di guerra che pure ci saranno sicuramente, è il petrolio. Nei quattro mesi di “lockdown” il consumo di petrolio è sceso fino al 60% rispetto al consumo giornaliero di 100 milioni di barili pre-crisi. Il 60% sono 10 milioni di tonnellate al giorno, che proiettate su un periodo di quattro-cinque mesi, si trasformano in un miliardo di tonnellate di idrocarburi estratti ma non raffinati, stoccati con relativi costi o lasciati nel sottosuolo, a prezzi che sono scesi fino a 15-20 USD/barile e che forse scenderanno ancora. Intere regioni continentali dipendono dal prezzo del petrolio per mantenere i propri livelli di vita, militarizzazione, sicurezza e welfare: il Medio Oriente, l’Iran, il Messico e il Brasile, il Venezuela, la Nigeria con i suoi 300 milioni di abitanti, l’Angola e il Nord Africa, la Federazione Russa, parte degli Stati Uniti, il Canada. Chi potrà continuare a consumare e comandare come prima con il petrolio a prezzi primi anni ’80? Se la tendenza dovesse consolidarsi per la riduzione della mobilità nei paesi industrializzati, o anche solo ridursi nel 30% invece che del 60%, con che cosa verranno mantenuti arsenali nucleari, aree urbane congestionate, dittature religiose, e condizioni di vero e proprio privilegio? In questo contesto, le imprese dovranno prestare grandissima attenzione alla solvibilità dei propri debitori internazionali (imprese e stati), perché il sistema bancario internazionale ha dimostrato la propria fragilità e l’incertezza del diritto nel sistema dei pagamenti e degli affidamenti. Basta pensare alla giungla dei sequestri e delle appropriazioni indebite di DPI e materiale sanitario nei primi quattro mesi del 2020. La diffidenza regnerà sovrana e non è certo una buona premessa di ripresa e di sviluppo.
  4. La questione dell’innovazione digitale impatta sulle aziende del primario, del secondario manifatturiero e del terziario: i temi portanti sono il distanziamento fisico, la digitalizzazione dei processi produttivi e dei pagamenti, la cancellazione definitiva della carta e delle procedure amministrative pre-XXI secolo, con lo spostamento integrale sul cloud di tutte le attività amministrative, progettuali, legali, di produzione 4.0: smart working, dematerializzazione cartacea, agenda digitale della pubblica amministrazione, fintech, smaterializzazione dei flussi cartacei di fatture, pagamenti, regolazioni, tracciabilità e certificazione di origine dei prodotti. Questi fenomeni sono maturi, richiedono investimenti non troppo elevati (per casi, eccetto la robotica e l’intelligenza artificiale), ma impongono un cambiamento radicale dei comportamenti, a cominciare dalla produttività individuale a casa, al sistema di relazioni umane e professionali, che cambierà radicalmente rispetto al passato. Ed anche un intervento straordinario di efficientamento delle procedure contrattuali e delle filiere produttive, grazie a nuove tecnologie che consentono la tracciabilità univoca di documenti e prodotti, i contratti intelligenti, le transazioni e pagamenti privi di intermediari, la produzione e la circolazione di merci certificate e riconoscibili. Uno dei principali soggetti “vincenti” nella crisi, oltre alle aziende farmaceutiche, è Amazon, passata da 2.000 USD per azione all’apice del mercato borsistica a fine febbraio, a 1.700 USD al punto peggiore della crisi, e poi di nuovo a 2.400 USD per azione (+20% rispetto al pre-crisi) nel breve volgere di tre mesi, dimostrandosi la migliore moderna soluzione di distribuzione commerciale esistente per le piccole, medie e grandi imprese globali.
  5. La questione ambientale si imporrà nelle scelte, dopo un primo periodo estatico con idrocarburi a 20 USD/barile, si porrà il problema se il consumo di energia per la mobilità, specificamente quella aereonautica (diminuita del 90%) potrà mai tornare ai livelli pre-crisi, già sottoposti a revisione dalla crisi ambientale. Molte imprese petrolifere falliranno e il petrolio di scisto non sarà più estraibile perché sotto i 60 dollari/barile non risulta conveniente. Questo processo comporta enormi opportunità per l’industria italiana basata in gran parte su tecnologie agricole, di trattamento ambientale, di risanamento, di pulizia, di protezione, di rinnovabili che comportano tecnologie esportabili su larga scala. Uno sforzo che dovrà essere largamente promosso dallo Stato e dalla Unione Europea. Non senza dimenticare che in tre mesi si sono conseguiti gli obbiettivi di taglio delle immissioni in atmosfera previsti dall’IPCC per il 2030, e questa riduzione dell’impronta ecologica umana sul pianeta e’ una delle principali preferenze dell’opinione pubblica e delle culture affluenti globali. Molti si chiederanno come tornare alla produzione industriale approfittando della riduzione di domanda per “decarbonizzare” e consolidare il taglio del consumo di idrocarburi, almeno in parte.
  6. Un altro elemento che emergerà problematicamente dopo la crisi COVID sarà la questione dello sviluppo infrastrutturale ed immobiliare: la limitazione della mobilità, anche a causa del periodo comunque lungo che ancora ci attende di immobilità internazionale e sociale, lascia una “memoria” nelle persone: questa memoria agirà a favore del nomadismo lavorativo, dello smart working, della riduzione di dimensioni di attività commerciali di prossimità e di uffici, della capillarità di servizi sanitari e servizi alla persona tout-court, mentre il costo di gestione, accesso e pendolarismo agirà negativamente sulle grandi aggregazioni urbane, i sistemi di trasporto rapido di massa, la divisione netta tra luoghi di lavoro, luoghi di svago, luoghi di commercio, luoghi familiari, la stessa scolarità (riorganizzata e ridimensionata dalla didattica a distanza). La stabilità degli investimenti immobiliari ne uscirà scossa, e probabilmente alcuni grandi interventi (Stephenson a Milano?) verranno riveduti o modificati. Il minore uso del suolo e di concentrazione e la rivalutazione dei borghi costituiscono un elemento di tensione psicologica reale in molti investitori e nelle popolazioni giovanili affluenti e acquirenti. Anche la sensazione di un periodo di tempo sempre più breve per ammortizzare gli investimenti di fronte a possibili cambi di equilibrio climatico, ambientale, di inquinamento e salute collettiva – e quindi di profilo demografico – agirà come depressivo degli investimenti immobiliari.
  7. Paradossalmente, l’Europa “odiata” rappresenterà il mercato più vicino da sviluppare e quindi più confidente. Il rapido ed enorme processo di omogeneizzazione che ha spinto i vertici di VW, Daimler Benz e BMW a fare pressione sulla Cancelliera per aiutare l’Italia anche per impedire il blocco totale della produzione di 4,4 milioni di veicoli costruiti con pezzi italiani, sta ad esemplificare che lo spazio europeo, esteso all’est europeo e alla Federazione Russa e anche al Regno Unito, tornerà ad essere lo spazio d’elezione per la costruzione di filiere produttive continentali in regime di fiducia (?). Molto sarà fatto anche dalla Cina, che ha bisogno di fare dimenticare e di vendere i propri prodotti. Ma lo sguardo all’Europa, anche con il suo carico di concorrenza, rappresenta il vero punto di ripartenza del sistema economico nazionale. Almeno finchè non ci saranno vaccini e gli aerei non potranno violare i lockdowns imposti.
  8. Uno dei fattori di maggiore rischio per il prossimo biennio è il sistema bancario: chiamato a soccorrere le Banche Centrali per la distribuzione del “credito” lubrificante del sistema economico, quello che dovrebbe aiutare a superare la disoccupazione e soddisfare la domanda di flessibilità (con il fondo SURE), aiutare i paesi a investire in infrastrutture ferroviarie, portuali, di trasporto alternativo delle merci, sanitarie, civili con il “Recovery Fund” e infine aiutare le imprese a riorganizzarsi, fondersi e ripartire con il fondo “BEI”, potrebbe risultare colpito da una nuova ondata di Non Performing Loans, cioè prestiti non onorati da aziende in crisi, problematica dalla quale era appena uscito riducendo le perdite maturate nel periodo 2007-2013 della crisi finanziaria (e del mancato intervento della BCE per volontà germanica fino al “Whatever it takes” del 2014). Una grande attenzione andrà riservata al sistema bancario e al rapporto con l’economia reale. Alcuni economisti sostengono che il sistema bancario internazionale (non le banche regionali), grazie ai provvedimenti di modernizzazione finanziaria introdotti dalle amministrazioni Clinton e Bush dal 1999 al 2007, sono diventati i nuovi “creatori netti di liquidità” globale. In altre parole, non sarebbero le banche centrali ma le banche universali a decidere l’entità dei prestiti e quindi la creazione di moneta: la prova sarebbero i bassi tassi di interesse nell’economia mondiale perduranti da ormai 12 anni, una vera e propria trappola di liquidità intesa ad agevolare domanda, offerta, consumi e crescita in cambio di vantaggi immediati in termini di enormi profitti e bonus manageriali delle banche. Le banche centrali avrebbero agito dal 2008 solo come “regolatori” di disoccupazione e inflazione mettendo in crisi gli Stati sovrani con l’ingigantimento del debito pubblico.
  9. Attualmente, il problema del debito pubblico rappresenta la principale questione a livello globale. Mano a mano che i paesi emergeranno dall’epidemia di COVID si evidenzieranno sempre più le differenze di potere e dimensione con cui saranno in grado di affrontare l’uscita dalla crisi. I paesi emergenti e quelli più deboli saranno chiamati a pagare tassi di interesse e spread elevati per finanziare la ricostruzione, la sopravvivenza, il welfare, i sistemi sanitari educativi e pensionistici. Anche i paesi industrializzati dovranno ricorrere in misura crescente al debito, ma potendo godere della leva discriminante del controllo: se un paese industrializzato puo’ godere di un debito posseduto per il 60-70% da mani nazionali, si colloca su un livello di equilibrio semistazionario in cui i detentori esteri hanno interesse a non fare affondare il paese, mentre i residenti che controllano il debito sono incentivati a lavorare investire e pagare tasse per garantirsi di essere ripagati. Gran parte dei paesi europei e il Giappone sono in queste condizioni: hanno capacità di controllo del debito. Gli Stati Uniti, inoltre, faranno probabilmente pagare al resto del mondo la crisi COVID-19 grazie alla forza del dollaro e all’impegno crescente di Cina e Giappone nel debito americano per diverse migliaia di miliardi (3.000 su quasi 8.000 detenuto in mani estere). Ogni variazione del 10% del dollaro in meno può rappresentare una perdita duratura e sostanziale per questi paesi.
  10. Ed infine, ultima ma non meno importante è la questione sanitaria: vera fonte e origine di questa crisi globale, sta mettendo in luce le problematiche legate alla globalizzazione che investiranno il futuro della popolazione mondiale, 7 miliardi e 777 milioni di abitanti con un profilo demografico delicato tra paesi con età media molto bassa in Africa e paesi con età media elevatissima in USA, Europa, Giappone e Cina, in un mondo minacciato da crisi della biodiversità, cambiamenti radicali di equilibrio ambientale, inquinamento anche nucleare e da idrocarburi, famaci e plastiche, deperimento e sfruttamento incontrollato della biomassa oceanica e animale, monocultura produttiva agricola, devastazione e inquinamento dei contesti ambientali selvaggi, che ha portato alla crescita in numero e pericolosità delle pandemie e indebolimento delle popolazioni e delle soluzioni farmaceutiche. Sulla sanità, dalla biogenetica alla farmaceutica alla robotica alle cure personalizzate e sistemiche dell’organismo umano, e su nuovi comportamenti più consapevoli, dovranno essere tarati innovazioni, ricerca e investimenti, ma anche una nuova consapevolezza di comportamenti etici, non moralmente azzardati, che sono pressantemente richiesti dalla nostra prossimità umana e condominiale su un pianeta che diventa sempre più stretto, anche senza la circolazione aereonautica sperimentata nei primi vent’anni del XXI secolo.

Amedeo Levorato