Zonin, giustizia (non) è fatta

Gianni Zonin (foto: ilparagone.it)

Il primo grado del processo BpVi finisce con un risarcimento simbolico. E non è detto che la lezione sia stata imparata. Fronte vaccini: altro colpo al mito del Veneto eccellente. A Padova si chiude la pantomima su Messina Denaro


Quanto conta il valore simbolico, o morale, in decisioni di pubblico rilievo? Il Tribunale di Vicenza in primo grado ha condannato a 6 anni e mezzo l’ex dominus della Banca Popolare di Vicenza, Gianni Zonin, e gran parte degli imputati nel processo sulle “baciate”, le operazioni di scambio fidi-azioni con cui il defunto istituto si finanziava illecitamente per alimentare l’ascesa nella top ten bancaria nazionale. Una sentenza che rende parzialmente giustizia ai 112 mila soci beffati che hanno perso tutti i risparmi messi a suo tempo nella ex popolare. Che era “ex”, di fatto, già prima del decreto Renzi del 2015, perchè la crescita di dimensioni, obbiettivo perseguito spasmodicamente durante il ventennio zoniniano, aveva proiettato fin dai primi anni Duemila una classica realtà mutualistica di provincia in un ibrido, con il management intento a orientare il parco buoi nelle assemblee verso la grandeur di un futuro in perenne ascesa. Si chiama, nè più nè meno, mercato. Ma un mercato che veniva gestito ancora nella cornice e con le procedure di una cooperativa. Di qui l’inganno, che prima di tramutarsi in reati (la cui responsabilità è, come si sa, sempre individuale), si manifestava per così dire alla luce del sole, come auto-inganno di un “territorio” che applaudiva oceanicamente chi, complice una stampa quasi interamente allineata, si rappresentava e veniva raffigurato, osannato e omaggiato quale artefice delle fortune di massa. Prima del crollo, vuoi per interessata convenienza, vuoi per conformistica acquiescenza, vuoi per incolpevole ignoranza, di vicentini non “zoniniani” non se ne trovava uno se non nell’oblio e sui samizdat giornalistici. I critici, dentro e fuori dalla banca, erano sistematicamente ridotti ai margini, al silenzio, alla solitudine di inascoltate cassandre. Il “tradimento dello spirito originario” delle prime popolari di cui si lamenta Francesco Jori sul Mattino di Padova (“Banca Popolare di Vicenza, reato di tradimento”, 22/3) si era dispiegato con geometrica potenza, progressivamente, lungo tutta la durata della presidenza Zonin, tanto è vero che le prime avvisaglie ci furono già vent’anni or sono, a suo tempo furono denunciate, in un’indagine stroncata sul nascere, da una giudice coraggiosa, Cecilia Carreri, poi cacciata dalla magistratura.
Con la prescrizione, molto probabile se non certa, e la pochezza di farraginose rifusioni degli ex soci coi beni dei condannati, la decisione delle toghe beriche vale come risarcimento morale, simbolico più che sostanziale. Il che non è neanche poco, visto che stiamo parlando di un ex intoccabile come Zonin. Ma non è neppure questo granchè, pensando a chi ha subìto impotente l’evaporazione dei sudati sacrifici di una vita, e a volte ha perso anche la vita stessa, in termini di rinunce, sofferenze, perdita di serenità che, specialmente negli anziani, significa la salute, cioè tutto. Ed è poco, troppo poco se si pone mente al fatto che chi avrebbe dovuto per mandato e ruolo evitare lo sfacelo, ossia i controllari Bankitalia e Consob, ne sono usciti profumati come dei fiori di campo, per giunta pure dalla parte delle vittime anzichè, minimo minimo, come parte del problema. Ma è noto che in Italia esistono santuari inviolabili e non si riesce mai, mai ad andare fino in fondo nell’accertamento della verità. Perchè si teme l’effetto domino sulla tenuta del sistema, in questo caso bancario. E così si riprende, fino al prossimo “scandalo”. L’unica flebile speranza è che i veneti raggirati (coorte da cui vanno tolti tutti coloro che, a vari gradi, nella cappa di cloroformio in cui BpVi e Veneto Banca edulcoravano dati e promesse) abbiano quanto meno imparato a non fidarsi del potente di turno solo perchè è potente, apparentemente vincente, aureolato di gloria, circonfuso di luce. Dove c’è troppa beatificante luce, si nasconde di solito l’ombra del marcio.
PS: in queste tragiche vicende si è inserito, in qualità di dettaglio straniante del quadro, quel simpaticone di Matteo Marzotto, che ha rilasciato, com’è suo uso, un’intervista di impagabile acutezza (quotidiani Gedi, 21/3): consigliere d’amministrazione della Popolare di Vicenza all’ultimo miglio, fra 2014 e 2015, l’allora cooptato oggi ha un moto di pietà verso Zonin e per i suoi figli (“vedo una persona anziana nella sua situazione e la guardo umanamente”), ma “nella sua professione” no, dice, “non mi piace”. Niente like al profilo di Gianni. Del resto lui proprio non lo aveva inquadrato, il soggetto: “io non l’ho mai sentito parlare da grande banchiere di sistema”. Forse lo percepiva timido, chissà. Inoltre, seguire quei cda non era cosa facile: “Iniziai ad essere in difficoltà quando iniziarono a moltiplicarsi i documenti che ci arrivavano, migliaia di pagine su questi ipad qualche giorno o, a volte, qualche ora prima dei consigli. Ho cominciato ad essere perplesso e via via sempre più preoccupato. Ci sono state delle fasi in cui proprio non capivo, e io più non capisco più chiedo. E così quando è apparsa la storia dei tre fondi maltesi, i nomi di questi personaggi, ho iniziato a chiedermi come fosse possibile che un Istituto con quel pedigree avesse rapporti con gente del genere, ho iniziato a trovarmi in grande disagio”. Un disagio rimastogli in grembo, perchè non risultano sue dimissioni, all’epoca. Ma Marzotto è un candido, è ancora lì a chiedersi “come un’intera comunità abbia potuto credere che la banca continuasse a mantenere il valore del titolo elevato, a dare dividendi e continuare ad erogare finanziamenti, quando il sistema bancario italiano dimostrava evidenti debolezze”. Giurin giurello: vorremmo poter condividere questo stupore, così puro, così fanciullesco. Ma non così innocente.

La macchina da guerra in panne

La tecnica è collaudata: quando gioca in difesa, Zaia prima manda avanti i sottoposti tirandosi fuori dalla prima linea. In palese difficoltà sull’inoculazione dei vaccini, che vede il Veneto negli ultimi posti fra le Regioni (quindicesimo, nella classifica del Corriere della Sera del 21 marzo), l’Immarcescibile spedisce in trincea mediatica il capo della sanità, Luciano Flor, secondo cui la causa di questo duro colpo all’immagine dell'”eccellenza veneta” è da ascriversi, terra terra, alla mancanza di sieri e, in seconda battuta, alla scelta iniziale (successivamente rientrata) di accantonare le dosi per il richiamo. Rimane da capire come mai altre Regioni – e non la Lombardia, ma per esempio il Lazio, o la Sicilia – stiano gestendo meglio la vaccinazione. Un mistero non tanto gaudioso, se perfino il Gazzettino, di norma non certo feroce con il Doge e i suoi amati tecnici, arriva a scrivere che “la confusione regna sovrana” e che gli anziani “non sanno più a che santo votarsi” per ottenere uno straccio di risposta telefonica ai Cup delle Ulss. Siccome la miglior difesa è l’attacco, Flor parte lancia in resta in una condanna – giusta, ma un po’ troppo facile – contro i renitenti alla dose, quei vaccinandi che non si fanno vaccinare fra cui, particolare significativo, ci sono molti insegnanti. Gente istruita, non la caricatura dei no-vax. Evidentemente, la poderosa macchina di comunicazione, o sarebbe meglio dire di convinzione, non ha funzionato a nessun livello, nè a Roma ma nemmeno qui. Il Coordinamento Veneto Sanità Pubblica evidenzia il fatto che nei Cup “gli operatori stanno facendo gli straordinari ma ricevono poche informazioni e confuse”. Flor ribatte che finalmente ora si procederà con il criterio anagrafico, senza possibilità di ulteriore caos fra categorie e sotto-categorie, ma in Lazio lo avevano già adottato, perchè qui no? “Siamo col freno a mano tirato – sostiene Flor al Gazzettino – Abbiamo 7-800 medici specializzandi ancora da chiamare. Ai medici di medicina generale, tranne pochi casi, non abbiamo ancora dato un vaccino. Gli ospedali non li abbiamo ancora utilizzati e posso preannunciare che ci saranno iniziative importanti. Ci diano i vaccini e noi vacciniamo, abbiamo una macchina da guerra pronta”. Quando è pronta ma davvero pronta, faccia un fischio.

Il non-caso Messina Denaro

Il Comune di Padova non invierà nessun esposto in Procura sul caso Messina Denaro. Dovrebbe essere finita la grottesca, sciagurata e ridicola telenovela sul voto fake al boss mafioso il cui nome è comparso nella votazione in consiglio comunale di Padova per la nomina del nuovo Garante dei detenuti, il 3 marzo scorso. Un putiferio tirato in lungo per tre settimane nell’indignazione generale e condito dalla curiosità morbosa per conoscere l’identità del consigliere che ha commesso quella che poteva essere immediatamente derubricata come una provocazione di cattivo gusto. Non prima, però, di averne indagato la possibile motivazione. Che, andando a logica, non può essere che una: un certo nervoso fermento su chi scegliere per quel posto. O almeno così si dice dietro le quinte e così, sia pur per accenni, è mezzo uscito sui media locali. Pare infatti che il mondo degli operatori nel carcere, tradizionalmente vicino all’ala più a sinistra della maggioranza, non trovi l’appoggio della maggioranza tutta, nell’autogestire la pratica del nuovo Garante. Ma questo è anche il meno. Il più è dato dal fatto che si è alzato un polverone fumogeno su una vicenda deprecabile ma che si sapeva benissimo fin dagli inizi non poter avere nessun esito concreto, dato che la segretezza del voto è inviolabile e lo “scherzo”, per quanto disdicevole, non costituisce reato. Ma il can can è servito a distrarre da altre beghe di portata ben più seria, come l’urbanistica arroventata da una serie di dossier scomodissimi per il sindaco Giordani e la sua giunta, dal nuovo supermercato Rossetto al potenziamento dell’inceneritore. L’anonimo autore, a conti fatti, ha reso persino un favore agli indignados di Palazzo Moroni. Diceva bene Nietzsche in quel suo aforisma: “nessuno mente tanto quanto l’indignato”.