Veneto & Cultura: la scissione che va indagata e compresa

Nella recensione del libro di Stefano Allievi avevamo sottolineato che esso “ci regala la visione e gli strumenti interpretativi di un territorio che continua a sorprenderci, ma ci deve interrogare di più (per migliorarlo)”.

Ora interviene Lucio De Bortoli con un commento che approfondisce la questione cruciale della “sottorappresentazione culturale nazionale della nostra Regione”


Sto leggendo l’interessante Dizionario del Nordest di Stefano Allievi.

Sul tema Nordest si è scritto molto negli ultimi due decenni, e ben venga anche questo contributo, certamente arricchente.

Dicevo che lo sto leggendo (piacevolmente, Allievi è analista intelligente) e quindi queste note non sono affatto una recensione. Ma la natura dizionario autorizza anche l’arbitrarietà di rompere la successione lineare e di saltare alla voce x.

Sono quindi andato subito a leggermi quella sulla “cultura”, apparentemente ineccepibile. Tuttavia, la lettura ha messo in moto ciò su cui da tempo rimurgino episodicamente, sempre interrotto dall’ irrompere delle “priorità”.

Allora, Allievi scrive, in sostanza, che il Veneto ha sempre sofferto di sottorappresentazione culturale nazionale nonostante la sua galassia di grandi vecchi in letteratura e dei nuovi, giovani, satelliti. E che in realtà nel teatro, nel cinema e nelle arti visive la cultura ora prodotta sia viva e persino in grado di poter invertire la percezione di cui sopra grazie al suo mix di colto e popolare. Bene. Direi condivisibile.

Il limite degli storici contemporanei

L’analisi però merita alcune integrazioni. La prima è di natura “culturale” profonda. E riguarda un limite, non tanto di Allievi o delle scienze sociali ma di gran parte degli storici contemporanei, vale a dire lo schiacciamento su un presente assoluto, ipostatizzato. Le risposte, secondo tale visione, vanno cercate in una logica tutta interna alle dinamiche che si presentano alla nostra visione, oggi, del reale.

In altri termini, non ci si chiede come si connetta un passato importante come quello dello stato sovraregionale di Venezia – oggetto di copiose sovrarappresentazioni da parte dei contemporanei -importante anche sul piano della civiltà culturale e non solo sotto il profilo politico ed economico, con la dinamica degli stereotipi nazionali sul “veneto”.

Che cosa è accaduto negli ultimi due secoli che ha impedito di spiegare come quel passato profondo e “ammirato” sia stato stracciato e schiacciato nello stereotipo del veneto ridicolo e ignorante (le “serve”, i “carabinieri”) se non meschino (schei) imperante per tutto o quasi il Novecento e che neanche i trionfi d’impresa hanno saputo correggere?

Che cosa ci siamo persi per strada e perché non si va a cercarne la ragione? Perché si nega il valore culturalmente formativo e propedeutico di una storia profonda, costellata di figure e tornanti storici studiati nel mondo intero e cancellata dall’immaginario, come quella di Venezia e dello stato da terra, recuperata solo nei termini patetici e nostalgici e arroganti del “venetismo” e della sua narrazione mitica. Un fenomeno questo al tempo stesso causa ed effetto della rimozione della fase veneta da parte della cultura “alta” che ora però ci spiega la cultura del Veneto.

La rimozione dei grandi maestri della storiografia veneta

Tutto questo è stato reso possibile da più fattori. In primo luogo dalla totale rimozione dei grandi maestri della storiografia veneta, gli esecrati “eruditi” di metà e fine Ottocento che hanno costruito il sedimento municipale su cui fare ricerca “nuova” e grazie ai quali avremmo capito meglio, ad esempio, la natura del Lombardo-Veneto ridotta alla marcia del mareasciallo, invece di annaspare dietro i venetisti sulla polemica stantìa dell’annessione al Regno d’Italia; a seguire dai padri della storiografia moderna (Berengo, Cozzi, Puppi e tanti altri), totalmente confinati nelle soffitte del pensiero comune e vivi ancora e solo in alcune cattedre universitarie presiedute dagli allievi.

E c’è, soprattutto, la perfetta conventio ad excludendum degli scavi di un’intera generazione di studiosi formatisi con quegli insegnamenti e con quei metodi e che hanno costruito per decenni e nell’indifferenza delle élite politiche il tessuto culturale di territorio (ah, l’esecrato storico locale) sul quale ora, finalmente, qualcuno attinge con altri linguaggi e però senza dichiararne il prestito.

Tale produzione storiografica, prima collettiva (le storie collettanee) e poi proseguita nei percorsi individuali in ogni provincia se non in ogni comune, ha costruito la dimensione prospettica e storica di un “mondo” le cui tessere sono state vissute negli scorsi decenni come irritanti dai venetisti, localiste dagli accademici e inutili dai politici “progressisiti” terrorizzati di apparire “locali” e quindi “conservatori”.

Nessuno di costoro ha chiaramente mai letto o percepito le lezioni di Ginzburg sullo statuto della microstoria, i venetisti perché impegnati a fare demagogia su assetti istituzionali e sociali strumentali e decontestualizzati, gli accademici perché impregnati di dimensione urbana e dimentichi persino che il conflitto città campagna è stato un genere storiografico e ora un fenomeno politico e antropologico, i politici perché non hanno capito l’ottica di un arco temporale medio lungo, di un progetto insomma che avrebbe recuperato l’immaginario veneto ad una consapevolezza culturale matura, capace di cogliere il valore delle proposte e delle persone oltre gli steccati prepolitici che ancora segnano la direzione elettorale e la gestione politica di una regione che destina alla cultura ben 3,5 euro a testa al fine di farla rimanere elitaria.

La necessaria sintesi tra colto e popolare

Se la lezione degli eruditi fosse stata colta ciò avrebbe permesso la formazione di una dimensione culturale capace di fare sintesi tra colto e popolare e di costruire così menti consapevoli della propria abilità di intrapresa, capaci cioè di emanarla e non di dichiararla urlando; o limitandosi a fare motivo di orgoglio della proprio rabbia rispetto alla sottorappresentazione degli altri dando vita così ad una spirale perversa per cui ad ogni narrazione critica e culturale si risponde irridenti con l’esibizione della propria diversità dagli “intellettuali” perditempo. Ritualità che alimentano sempre solo l’istinto pre-politico.

Gli sto(r)ici seminatori di grano

Infine, quanto sopra convoca l’attenzione degli osservatori professionali (giornalisti, analisti, sociologi, studiosi della contemporaneità) a considerare come le mutazioni culturali siano il risultato di una trama molto più larga, con tutto il rispetto, di un film o di un artista; siano in realtà una trama fitta di una miriade di azioni locali tese, anno dopo anno, a scavare dinamiche e fenomeni connessi e annodati tra loro: e questo a dispetto di ogni “presentismo”, ormai una sorta di ideologia della prassi che sta pervadendo le menti. Si tratta di un’attività “scalza” che non gode di palchi , marchi editoriali nazionali e di grande attenzione mediatica, ma che è pienamente avvertita e riconosciuta da chi cerca di comprendere che la posizione da assumere per leggere il proprio mondo oggi, viene, come tutto ciò che ci riguarda, da lontano. E che a questo concorrono anche gli operai silenziosi e snobbati della microstoria, ormai stoici seminatori di grano.

Dino Bertocco