Scusi sior, mi fa un altro giro di Mose?

Dal dimissionario eccellente in laguna a certe scomode notizie su Zaia e il governo, c’è sempre un bel silenzio nel Veneto che dorme

“Ciò capo, hai letto qua?”. “Ma io non leggo niente, a parte, purtroppo, i vostri pezzi e la lista della spesa che mi fa mia moglie per andare al supermercato, su, cosa vuoi che legga…”. “Ma no, devi leggere questo, guarda: si è dimesso uno dei commissari del Mose, Giuseppe Fiengo, e senti cosa dice ad Alberto Vitucci sulla Nuova Venezia, senti, senti…”. “Passa qua, fammi leggere”. Il caporedattore inforca gli occhiali e si china sulla pagina, datata 19 novembre, articolo intitolato “«Il Mose? Un’opera che non finisce mai» Il commissario Fiengo mette in guardia”. “Dunque, vediamo un po’. Orco can! Il Mose finito nel 2021? Ma no. Ho dei dubbi che sia un’opera che finisce“. “Aspetta, capo, vai al passaggio sulla corruzione, quando gli chiede se c’è ancora corruzione!”. “Ostia, dammi tempo. Vediamo: Nel Consorzio direi di no. Abbiamo controllato. Per gli esterni non lo so. Diciamo che alcuni settori dell’amministrazione continuano a ragionare nello stesso modo di prima. Queste a volte sono le premesse della corruzione. Hai capito, il Fiengo…”. Il redattore capo scruta il testo e qualche riga sotto legge: Quando girano tutti quei soldi bisogna vigilare. Ma non so se l’ambiente veneto lo voglia. Corpo di mille navi da crociera! Ma in pratica asserisce che rischiamo ancora”. “Asserisce?”. “Asserisce. Sostiene. Afferma. Vabè, tasi un attimo. Qua dice anche che secondo lui l’altro commissario, quello tecnico, l’ingegner Francesco Ossola, secondo lui potrebbe dimettersi a ruota. Ma non mi risulta lo ha abbia fatto”. “Senza contare che Fiengo dà le dimissioni dopo che la ministra dei trasporti, la Micheli, ha nominato il commissario liquidatore del Consorzio, Massimo Miani, con un tweet”. “Infatti Fiengo assevera di essere stato delegittimato”. “Assevera?”. “Dichiara con fermezza… Oddio, ti regalo un Devoto-Oli quando farai finalmente diciotto anni.”. “Ma io ne ho trentotto”. “Appunto. Senti, qua bisogna che…”. “Bisogna riprendere e approfondire, direi, no?. “Ma no, teston!, bisogna che chiamo mia moglie che non riesco a leggere cosa mi ha scritto qua: gocce di… gocce di che?”. “Gocce di EN, capo”. “Ah giusto, giusto”.

Spacciatori di fumo

A Padova, in passato una delle capitali della goliardia, ora forse disperatamente di più, il sindaco Sergio Giordani, compagno imprenditore, intende imitare i suoi omologhi di Cittadella e Milano: vietato fumare all’aperto, in tutto il centro storico e nei luoghi facili all’assembramento. Come le fermate dell’autobus, per esempio. Uno scherzone per giocare agli ammerigani o imitare i giappo? Un pretesto per allinearsi a tutta quella scuola di pensiero già abbondamente applicata in mezzo Occidente, che predica la società aperta e liberale ma poi ti perseguita fin nelle narici del naso, dal momento che, come diceva il Volontè questurino, “repressione è civiltà!” (cit.). Ignoranti siete, a indagare i motivi di un sindaco al di sopra di ogni sospetto di paternalistico salutismo. A spiegare come stanno le cose è il Gazzettino, che il 20 novembre esibisce le prove scientifiche: la “maggiore vulnerabilità” dell’organismo, con il Coronavirus che gira, deriverebbe “dall’atto stesso del fumo: le dita, ed eventualmente le sigarette contaminate, arrivano a contatto con le labbra e questo aumenta la possibilità di trasmissione del virus dalla mano alla bocca”. Inoltre, i fumatori “a causa del fumo” possono “anche” avere una malattia respiratoria o “una ridotta capacità polmonare”, e questo aumenta il rischio di polmoniti. Ma pensa tu. Se ho ben capito, il dito – lo vedete il dito come stuzzica? – non contento di toccare quotidianamente le superfici le più varie dove il morbo può annidarsi, viene a toccare pure le paglie che mi son comprato, in pacchetto chiuso, dal tabaccaio, ergo meglio eliminare un potenziale pericolo, suppergiù simile a quando tocco una posata al ristorante a pranzo, o la pompa di benzina al self-service, o il telefono cellulare che appoggio un po’ ovunque. Meglio non fumare, non mangiare, non fare da soli il pieno e non smanettarsi, pardon smanettare al telefonino. Meglio la clausura. Meglio non respirare. Per soprammercato, e questo se non me lo ricordavano non l’avrei proprio rammentato, il fumatore può beccarsi qualche malanno ai polmoni. Che dire? Bravo Giordani. Niente fumo, e neanche arrosto, meglio la repressione. Perchè cos’è la repressione? E’ civiltà!

Cordone sanitario

Lo schivator cortese è una specie molto diffusa nelle redazioni. Trattasi di finto cieco e finto sordo che scansa le notizie come nel percorso a ostacoli all’esame della patente per motorini. Esiste una variante, caratteristica dei piani alti, che è la snobbator gentile, sdegnoso esemplare di fingitore, il quale non s’accorge mai, o quasi mai, di certe cronache, certi approfondimenti, certe inchieste. Nel numero del 22 novembre del settimanale L’Espresso (che considera Zerocalcare “l’ultimo intellettuale”, ma soprassediamo) Paolo Biondani e Andrea Tornago firmano un pezzaccio sostanzioso e saporito in cui ricostruiscono il filo rosso, anzi rossoverde, che unirebbe Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto del ministro della Salute Roberto Speranza, sinistra Leu, con lo storico uomo forte, anche troppo forte, di Zaia nella sanità veneta, Domenico Mantoan, che ha da poco lasciato sia la presidenza di Azienda Zero che dell’Aifa (Agenzia del farmaco) per passare a quella di Agenas, agenzia nazionale che coordina i servizi sanitari regionali. In Veneto la notizia non ha fatto notizia. Se non andiamo errati, c’è stata una sola voce a rendere edotti i veneti che non acquistano il magazine diretto da Marco Damilano. “Pare che il capo di gabinetto del Ministero della salute, il dottor Zaccardi, abbia avvertito l’ex direttore della sanità veneta Domenico Mantoan di una possibile indagine della Corte dei conti rispetto al ruolo di Aifa, l’agenzia nazionale del farmaco, nel fissare i prezzi dei farmaci, della quale Mantoan era Presidente”. Firmato: Carlo Cunegato, da non molto uno dei due portavoce (l’altra è una donna, Vania Trolese) di “Veneto che vogliamo”, sigla dello sfidante (trombato) di Zaia, Arturo Lorenzoni – a proposito, ma Arturone è ancora vivo e non lotta in mezzo a noi? Chissà. Comunque, accantonando per carità di patria il fatto che a sinistra si debbano avere due portavoce e non, come sarebbe logico e pratico, uno soltanto, è politicamente interessante che il Cunegato prenda di mira come si conviene anche il ministro della sua area: “Come è possibile – si chiede – che un ministro di sinistra che dovrebbe difendere il valore della sanità pubblica, affidi un ruolo così importante ad un uomo che ha inaugurato, seguendo il modello lombardo, il processo di privatizzazione della sanità veneta?”. C’è infine da sottolineare che Biondani e Tornago fanno emergere il non-segreto degli amorosi sensi che uniscono Zaia con il collega emiliano Bonaccini. Tolto che quest’ultimo sia del Pd, i due sono praticamente indistinguibili: ambedue convergenti in zona centro, dove i non estremi si toccano, si annusano, si piacciono e si confondono in una notte dove le vacche sono grigie e fanno lo stesso latte. Che non sa di niente. Ad ogni modo, l’unico a dar conto dell’uscita di Cunegato è stato Marco Milioni su Vicenza Today. Tutti gli altri? Zaiamente, hanno fatto finta di nulla.

Quel disfattista di Crisanti

Andrea Crisanti è uno che non gli riesce davvero di darsi un contegno, una bella auto-censura, di farsi tosare come un fratacchione e praticare il silenzio in qualche convento di rieducazione al Pensiero Unico Volontario Obbligatorio. Il ricercatore si è permesso, ribaldo brigante, di esprimere una disfattista e anti-nazionale ovvietà, cioè che i vaccini che le disinteressatissime case farmaceutiche stanno per mettere a disposizione agli Stati, fra cui l’Italia, come tutti i vaccini saranno sicuri soltanto dopo congruo testaggio. Perciò questo guastafeste di un Crisanti, se tale minima condizione non sarà rispettata, non se lo inietterà. Scandaloso è dir poco e male. Fortuna che a cantargliele giuste è stato il direttore del Gazzettino, Roberto Papetti: “Affermazioni superficiali e poco meditate come le sue, hanno un solo risultato: alimentano dubbi e diffidenze nei cittadini e forniscono alibi ed argomenti ai no-vax”. Crisanti ha proprio “perso il senso della misura, ma anche un po’ la testa” (22 novembre). Il mattino appresso, sul Corriere della Sera, il reprobo, sempre più sfrontato, si difende: “La mia dichiarazione ha toccato un nervo scoperto. (…) I custodi della ortodossia scientifica non ammettono esitazioni o tentennamenti, reclamano un atto di fede a coloro che non hanno accesso a informazioni privilegiate. «Il vaccino funzionerà», tuonano indignati. Io sono il primo ad augurarmelo, mi permetto tuttavia di obiettare che il vaccino non è un oggetto sacro. Lasciamo la fede alla religione e il dubbio ed il confronto alla scienza che ne sono lo stimolo e la garanzia”. Una vera vergogna che un professore, un luminare, un esperto osi appellarsi al principio di base della scienza: il Dubbio. Io in ogni caso sto con Papetti. Dopo la seconda bottiglia di rosso.

Il mattino ha il Marinelli in bocca

Un mattino d’autunno, a Vicenza. Sono seduto in un bar, fuori, perchè ho la virtù del fumo e mi piace intossicarmi volontariamente, anzichè subire passivamente ed esclusivamente gli scarichi d’auto e le schifezze rilasciate da case e fabbriche. Abbastanza vicino c’è un altro bar, dove mi par di scorgere uno scrittore, di cui confesso colpevolmente di non aver mai letto un’opera, ma insomma ce l’ho presente, fa anche il direttore artistico del teatro comunale di Vicenza, dell’Olimpico sempre di Vicenza e della regionale Arteven. Uno e trino, infaticabile, indefettibile. Si chiama Giancarlo Marinelli, non so se avete presente. Ha la testa girata, a fissare due anziani che parlottano fra loro. Un anziano a un certo punto alza la voce, perchè l’altro non ci sente bene. Finito il breve colloquio, camminano in direzioni opposte ed entrambi, con certo qual mio stupore, abbracciano ciascuno, in contemporanea, una colonna del portico sotto cui si trovano. Mi gratto la testa e cerco di capirci qualcosa. Sogno o son desto? Non è che mi hanno truccato le cicche, infarcendole di sostanze scherzose? Mah. Lo scrittore pluri-incaricato e con l’orecchio teso, come un segugio a caccia di vita vissuta, lo vedo pensoso, rapito dalla scena. Chissà quali portenti partorirà una mente letteraria, roba fine che noi umili profani non riusciamo neppure a immaginare. Passa qualche giornata e sul Giornale di Vicenza, il 23 novembre, il colpo d’ala del genio marinelliano: “Un mattino d’autunno, a Vicenza. Chi scrive è in un bar, seduto all’esterno, da solo. (…) Sotto il portico, da direzioni opposte, avanzano due attempati signori…”. E via a narrare l’episodio dello scampato al Covid e dell’amico ritrovato, con il “gesto d’amore più struggente in tempi di pandemia”, anzi, “più struggente e basta”: avvinghiarsi al colonnato. Pennellate soavi, sensibilità finissima, bozzettisca raffinata. Roba da prima pagina. Quanta letteratura. E quanta segatura.