La patetica polemica da cortile ed il ruolo degli esperti nel vuoto della Politica

Sia Giorgio Palù che Andrea Crisanti ‘scienziati fuori posto’ , protagonisti di una in-comprensione del ruolo che compete ai tecnici all’interno della governance regionale

Nei giorni scorsi il prof. Gianpiero Dalla Zuanna in un post su Facebook ha messo il dito sulla piaga della disinformazione galoppante, alimentata (anche) dai Medici i quali

mancano di sensibilità epidemiologica. Come si gloriano di fare anche molte persone comuni, affermano con baldanza di valutare il mondo solo in base alla propria esperienza. Quindi, se nei tamponi che esaminano trovano meno carica virale, deducono che – in generale – la carica virale del virus è diminuita. Dimenticano che potrebbe essere un problema di campionamento, ossia che – oggi – fra i tamponi di positivi che arrivano in laboratorio sono molto più numerosi quelli di asintomatici, con carica virale ridotta. A marzo il virus era lo stesso, solo che gli asintomatici non venivano tamponati. Che questo sia vero lo ha ben mostrato l’indagine sierologica Istat di fine luglio, che ha mostrato come la larga maggioranza del milione e mezzo di infettati Covid della prima ondata sia stata asintomatica o paucisintomatica. Non basta essere bravissimi virologi, microbiologi o rianimatori, non basta essere a contatto ogni giorno con i malati per leggere in modo corretto un’epidemia: è necessario avere sviluppata una profonda sensibilità statistica ed epidemiologica”.

Una puntualizzazione su una questione che in questo momento si sta rivelando ancor più decisiva a fronte della necessità di una comunicazione corretta, documentata, univoca ad un’opinione pubblica allarmata e disorientata dalla superficialità, estemporaneità e molteplicità delle prese di posizione di esperti, scienziati e presunt(uos)i tali.

Troppi Professionisti si rendono responsabili di un processo di allontanamento dal necessario atteggiamento di umilta’, ovvero da un approccio scientifico che contempla la consapevolezza della complessità ed interdisciplinarieta’ del processo conoscitivo e divulgativo, troppo spesso semplificato e banalizzato per uno sprazzo di visibilità sui i media ed interviste nelle quali prevale l’autoreferenzialità ‘specialistica’ con la propensione ad affermazioni e valutazioni che non alimentano la riflessività, la consapevolezza e l’obbedienza civile fondamentale per contrastare efficacemente i rischi sociosanitari ed economici provocati dalla seconda ondata pandemica.

Una pagina tutta veneta del ‘teatrino virologico’ l’hanno scritta due illustri professori dell’Università di Padova, uno in quiescenza, l’altro una new entry, che con i loro giudizi e le loro polemiche hanno non solo corso il rischio di oscurare il loro importante background scientifico ed il contributo determinante che hanno dato e possono ancora dare alla battaglia per debellare il Covid-19, ma hanno anche provocato la formazione di tifoserie parapolitiche collegabili ai fronti opposti degli schieramenti favorevoli e contrari alla governance regionale della crisi sanitaria.

Il fatto è che, purtroppo, che sia Giorgio Palù che Andrea Crisanti sono ‘scienziati fuori posto’ , ovvero protagonisti di una in-comprensione del ruolo che compete ai tecnici all’interno di una programmazione che assegna loro poteri e funzioni decisive ma vincolati alla metodologia dell’integrazione operativa, del mutuo riconoscimento delle diverse competenze e, soprattutto del primato della Politica nei processi decisionali.

Per fare chiarezza e non rincorrere il cazzeggio delle tifoserie, pubblichiamo un saggio di Corrado Poli che affronta la questione con una profondità ed un rigore analitico che dovrebbero consentire sia ai policy maker, ma anche ai professionisti dell’informazione a contribuire ad affrontare lo spaesamento ed il turbamento dell’opinione pubblica attraverso strategie politiche e di comunicazione in grado di elevare il grado di conoscenza, consapevolezza critica, efficacia degli interventi richiesti dalla crisi in corso.

Dino Bertocco

Corrado Poli.

Il collocamento degli esperti nei processi decisionali pubblici in condizioni di emergenza

Gruppo Messaggerie

Estratto da “Ambiente, globalizzazione e salute ai tempi del Covid-19”, a cura di Bernardino Fantini e Corrado Poli. Arco di Giano. Periodico di Medical Humanities. Estate 2020 #104

Introduzione

Il decreto-legge del 16 maggio 2020, n.33 aveva come oggetto “Ulteriori misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica”. Con un amico linguista si notava il veniale (ma spesso ripetuto) errore di confondere l’emergenza “epidemica” con quella epidemiologica. Eppure, a volere essere pedanti, la diffusione del Covid-19 ha comportato anche problemi di carattere epistemico e di corretta collocazione degli specialisti nel processo decisionale adottato per varare i provvedimenti necessari a fronteggiare l’emergenza. Quindi, l’emergenza è stata paradossalmente anche “epidemiologica” sebbene sia difficile pensare che il governo abbia pensato a questo nel redigere il testo. Passando dal faceto al serio, il contagio da coronavirus ha sollevato il problema della valutazione del ruolo degli esperti e di come collocare le diverse competenze nei processi decisionali adottati. La questione è di più ampia portata e non riguarda solo questa ultima emergenza, ma si estende alle valutazioni dei rischi ambientali locali e globali.

In questo saggio tratterò di come gli esperti si collochino nei processi decisionali pubblici in condizioni di emergenza e quale contributo ciascuno di essi potrebbe offrire. L’obiettivo è stabilire in che modo i decisori possano assumere provvedimenti, corretti e legittimi dal punto di vista scientifico e procedurale sebbene possa capitare che alla fine risultino sbagliati nella sostanza a causa delle condizioni di incertezza in cui si opera.

Quali discipline contro il virus

L’epidemiologia, tra le varie specializzazioni mediche, è una delle più direttamente collegate alle scienze umane e sociali. Per questo, affinché l’epidemiologia svolga la sua funzione in modo pieno, a sua volta deve essere inserita nel più ampio contesto della Salute Pubblica che opera in un contesto ancor più interdisciplinare e politico. Una delle più importanti (forse la maggiore) istituzioni per gli studi epidemiologici è il Bloomberg School of Public Health della Johns Hopkins University di Baltimore. Oggi è conosciuto anche tra i profani poiché raccoglie e diffonde i dati mondiali sul contagio da coronavirus. La Scuola e i suoi docenti offrono corsi concentrati sull’epidemiologia, la salute internazionale, la biochimica e la biologia molecolare, l’immunologia, la microbiologia, la biostatistica; ma anche in ingegneria e salute ambientale, comportamento e società, in salute pubblica, e in management sanitario. Inoltre, tiene contatti diretti e intensi con altri dipartimenti dell’università che si occupano di geografia, urbanistica e sociologia, nonché ovviamente con l’ospedale. Delle competenze disciplinari degli specialisti chiamati a consigliare i decisori non s’è parlato a sufficienza nei primi giorni dell’emergenza. Anche i comitati scientifici, che alla fine sono stati istituiti includendo competenze giustamente diverse, non sono stati strutturati in modo adeguato. Meglio ancora: avrebbero dovuto già esistere prima che emergesse il problema in modo che lo si potesse impostare con un metodo ben definito anziché procedere a tentativi.

Si solleva allora un’importante questione di formazione dei decisori amministrativi e politici in rapporto alle conoscenze scientifiche. Nel sistema della formazione, mancano corsi utili a informare gli studenti e i docenti sulle competenze… degli altri. Al proposito cito un’esperienza personale: anni fa, proprio per la Johns Hopkins University e per la IULM, progettai un Master di studi urbani in cui si formavano specialisti del coordinamento delle diverse competenze. Un corso avrebbe dovuto insegnare agli studenti le competenze reperibili nelle diverse discipline, oltre ai termini e i modi entro cui esse operavano. Consideravo questo corso cruciale nella formazione di amministratori pubblici, di rappresentanti politici, comunicatori e dirigenti. Mi resi conto che l’attivazione del corso era molto difficile, sia negli Stati Uniti sia in Italia, a causa della mancanza di studiosi che si occupano in modo sistematico di conoscere il patrimonio di competenze che le istituzioni formative offrono ai vari livelli. Si rivelò quindi molto difficile formare operatori in grado di sollevare le domande corrette alle persone preparate a rispondere. Inoltre, se si vuole persino approfondire, non sarebbe superfluo studiare gli aspetti psicologici e socio-antropologici di coloro che operano nei diversi campi scientifici e terapeutici. Le comunità scientifiche raramente indagano loro stesse, anche se – come sosteneva mezzo secolo fa Gunnar Myrdal – il comportamento e sistema di valori degli studiosi non sono meno interessanti come oggetto di studio di altre comunità su cui abbondano le ricerche quali le madri single, le comunità gay, gli imprenditori, le minoranze etno-linguistiche e via dicendo.

Certamente, in storia e filosofia della scienza la letteratura sull’argomento è ampiamente sviluppata, ma essa non si trasforma in modo adeguato in conoscenze applicate e nella formazione. D’altronde, la difficoltà nasce da una condizione organizzativa facilmente rilevabile. Uno studio sistematico delle competenze e la formazione di operatori in grado di sollevare domande indipendenti agli specialisti comporta uno spostamento del potere sostanziale. Se non esiste chi sa sollevare domande corrette agli specialisti competenti, costoro tenderanno a dare risposte a problemi che sollevano a loro stessi e si propongono quali risolutori. La formazione di operatori che conoscono in modo sistematico le competenze degli altri consente di sollevare nuove questioni che richiedono risposte inedite. Questa operazione non è immune da conseguenze politiche sul potere delle corporazioni professionali e scientifiche che hanno “occupato” i diversi problemi e tendono a gestirli in modo conservatore.

Tornando al Covid-19, un decisore può affidarsi con successo a un virologo per prendere decisioni. In un primo momento questi sarà in grado di dare informazioni utili sul tipo di virus con cui ci si confronta. Sarà persino stimolato dall’opportunità di avere un campione significativo per ampliare le sue ricerche che non è detto che siano utili nell’immediato, come si aspettano i profani e i decisori. Ma quando si passa alla valutazione della diffusione, servono infettivologhi, epidemiologi e altri specialisti. Si devono poi tenere in considerazione anche i fattori sociali, del contagio e fenomeni più complessi tra cui la gestione del rischio. Il virologo, al di fuori della sua competenza scientifica, può usare solo il buonsenso di cui, come scriveva Cartesio nell’introduzione al “Metodo”, tutti siamo dotati in abbondanza, ma non è sufficiente per accrescere la conoscenza né per assumere responsabilmente decisioni difficili. Se poi si prosegue dalle considerazioni scientifiche a quelle di carattere politico e sociale, sono necessarie informazioni e valutazioni anche di carattere economico. Nel caso delle discipline (che oggi sempre più raramente si definiscono “scienze”) sociali non potendo fare esperimenti – e anche se si potessero fare, come in parte è avvenuto con il lockdown, non sarebbero mai completamente validati – alla fine una certa dose di buonsenso sarà pur sempre necessaria per assumere le decisioni. Tuttavia, una procedura razionale e la raccolta delle informazioni necessarie consentono comunque di elevare il livello di conoscenza dei fenomeni sociali e di conseguenza di assumere decisioni favorendo la costituzione di organizzazioni in grado di meglio fare fronte ai problemi. Infine, o anzi tra queste, ci saranno delle negoziazioni che saranno tanto più efficaci quanto le conoscenze scientifiche saranno state autorevoli, considerate legittime e quindi accettate.

La valutazione del rischio

Per giungere alla valutazione del rischio collettivo, si distinguono tre fasi: inizialmente l’identificazione, poi la misurazione e infine una stima. Ai tre livelli subentra sempre una componente di incertezza e soggettiva. Ad esempio, nel caso del coronavirus, era necessario distinguere tra i rischi di morte dei pazienti, quelli di ammalarsi e infine quelli organizzativi di saturazione delle postazioni di terapia intensiva per altre patologie. Sulla misurazione, è emerso tra gli altri in modo evidente il dilemma tra chi è morto “per” il coronavirus e che è morto “con” esso. Infine, la stima implica considerazioni etiche assolutamente non secondarie tra cui l’accettabilità di un certo numero di decessi in cambio di una successiva maggiore immunità della popolazione nel complesso e la scelta di tutelare o meno la popolazione più anziana. Dopo queste tre fasi, al momento di prendere le decisioni, la valutazione complessiva si fa ancora più etica e politica includendo altri rischi collaterali quali una possibile débâcle economica. Se questi sono i grandi temi, va tenuto conto che a ogni successivo passaggio, anche per decisioni minori, subentrano le medesime considerazioni e dilemmi per superare i quali è necessario essere preparati.

Nella valutazione del rischio collettivo, secondo Shrader-Frechette, ci sono due posizioni radicali, utili come inquadramento teorico attraverso una paradossale reductio ad absurdum, ma entrambe inadeguate se si ha la pretesa di applicarle ai problemi concreti. Da una parte ci sono i “positivisti ingenui”; dall’altra dei “relativisti culturali” i cui esponenti più noti e conosciuti (per la radicalità astratta delle posizioni prese oltre che per la solidità pur paradossale degli argomenti) furono l’antropologa Mary Douglas e il politologo Aaron Wildavskj. Va aggiunto che, quanto ad astrattezza, non sono da sottovalutare nemmeno i “positivisti ingenui”, nonostante l’apparente aura di serietà che dona loro il ricorso agli argomenti criptici per i profani dei numeri e della scienza. Basti dire che, in caso di valutazione di un rischio inedito – com’è il più delle volte quello dei nuovi virus – il calcolo probabilistico (a priori), per quanto accurato può differire notevolmente dalla frequenza (a posteriori) dei dati rilevati senza che esso sia metodologicamente sbagliato, ma errato per l’intervento della casualità o di fattori sconosciuti prima del calcolo.

I “positivisti ingenui” ritengono che sia possibile in ogni caso quantificare e calcolare oggettivamente il rischio depurandolo da ogni percezione soggettiva; i relativisti culturali, invece, descrivono il rischio come una questione di esclusiva percezione individuale e negano l’opportunità di qualsiasi calcolo per giungere a una valutazione saggia sull’opportunità o meno di assumere determinati provvedimenti. Secondo loro, la decisione può essere solo politica e basata sulle emozioni. Shrader-Frechette propone una via di mezzo, la qualcosa sarebbe talmente ovvia da non meritare d’essere nemmeno citata. Ma il valore aggiunto della ricerca e delle sue raccomandazioni diventa interessante quando sostiene che nella valutazione del rischio ambientale e per la salute si debbano introdurre valutazioni di carattere etico (e anche qui non usciamo di molto dal luogo comune sebbene nella trattazione dell’autrice questo tema sia approfonditamente elaborato) e si possano superare le due posizioni radicali per mezzo del razionalismo procedurale. Se è vero che non si può distinguere tra percezione (soggettiva) del rischio e rischio oggettivo, è anche vero che alcuni “fatti” sono indiscutibili. Una ricerca rigorosa sulla ristrutturazione dei problemi e delle competenze di chi li affronta fa parte per l’appunto di questa impostazione.

Scienziati fuori posto

Nella vulgata del discorso sul Covid-19, gli esperti e gli scienziati sono stati esposti – e si sono deliberatamente e a volte con ingenua superficialità prestati – al giudizio pubblico dei profani che ha intaccato la loro credibilità e quelle della scienza in generale con conseguenze deleterie. Uno scienziato, finché agisce come tale, dovrebbe esprimersi solo con propri pari su temi specifici. Invece, s’è cercato in modo quasi ossessivo – e giustificato in parte solo dal panico generale – di ricevere risposte univoche su ipotesi analitiche e interpretative del contagio che non erano ancora disponibili. Il risultato è stato che al pubblico la scienza è sembrata quanto mai imprecisa, divisa e incapace di dare quelle risposte certe che tutti avrebbero voluto ricevere, con grave danno per l’autorevolezza della scienza in generale e di quegli studiosi che non sono riusciti a trattenersi dal rispondere a domande su cui non avevano competenza, ma potevano esprimere solo un semplice buonsenso. È stato chiesto a virologi e a clinici opinioni sulle conseguenze economiche delle misure contro il contagio. E gli sventurati risposero spesso dimostrando una degna saggezza individuale che nondimeno si trasformava in confusione collettiva. È stato chiesto ad autorevoli virologi un parere sulle terapie e a clinici un giudizio sulla diffusione e la forza del virus, argomenti su cui senz’altro avevano una competenza elevata e utile per una buona conversazione salottiera, ma non adeguatamente specialistica per costituire un’informazione corretta e ancor meno per prendere decisioni meditate. Tutto questo è successo perché di fatto s’è creduto ciecamente all’approccio da positivisti ingenui pensando che la scienza e la statistica da sole potessero dare tutte le risposte richieste per prendere le decisioni. Infatti, all’inizio del contagio, l’avere chiamato ripetutamente a esprimersi sui media ricercatori anche autorevoli, con l’illusoria speranza di ricevere risposte univoche, ha avuto un iniziale effetto positivo nel tranquillizzare in parte i cittadini, ma subito dopo ha reso palese l’ovvia incertezza che regnava nella scienza sul caso specifico. I profani (compresi i decisori) si attendevano risposte precise, ma percepivano l’ovvia incertezza sui risultati delle ricerche (che peraltro non si poteva avere ancora avuto il tempo materiale di condurre a termine) senza essere in grado di valutare il rigore scientifico applicato. Non si comprendeva che l’incertezza è una condizione permanente della conoscenza, almeno fin quando la civetta di Minerva non si leva in volo. Ma quando ciò accade siamo al tramonto del fenomeno e gli scienziati sono già in cerca di altre incertezze che certamente sconcertano e irritano il pubblico dei profani.

La strategia del giudizio degli esperti

La strategia del giudizio degli esperti s’è affermata solidamente nel corso del ventesimo secolo. I governi, in condizioni di incertezza, si sono sempre più affidati a comitati di esperti che talora sono stati istituzionalizzati e sono rimasti operativi dopo che l’emergenza era superata. Anche le accademie, fondate per separare il potere della conoscenza da quello politico, hanno acquisito un ruolo sempre più centrale nel guidare le decisioni. Se le accademie e i comitati tecnico scientifici nascevano proprio per separare la scienza dalla politica, non si può negare che questo fosse esso stesso un atto politico, un ulteriore divisione dei poteri che funzionava finché la separazione dei poteri era garantita assieme al prestigio. Il “potere” scientifico si può assimilare a quello di una magistratura specializzata che si autogoverna. I decisori politici, almeno a partire dalla Seconda guerra mondiale hanno sempre più spesso fatto affidamento sul giudizio degli esperti per valutare i rischi sociali e ambientali. Il nucleare e gli altri rischi ambientali catastrofici e talora di portata planetaria o per lo meno internazionale, come il Covid-19, hanno generato questa esigenza.

Il diritto di non sapere

Negli ultimi secoli fino al giorno d’oggi s’è sempre giustamente sostenuto il diritto dei cittadini a conoscere ed essere informati, nonché ovviamente a informare ed esprimere il proprio parere. S’è sottovalutato di conseguenza che in alcune occasioni esiste anche un diritto a “non sapere” e a potersi “fidare”. Un tempo inoltre, l’obbedienza era considerata una virtù poiché società autoritarie imponevano un sapere unico. S’è enfatizzato come, grazie alle disobbedienze di alcuni coraggiosi, ai litigi e alle lotte sia stato possibile progredire e migliorare. Nei momenti di crisi, l’obbedienza torna a essere una virtù: non ci si può permettere di andare l’uno contro l’altro mentre un nemico sconosciuto ci minaccia. Occorre fare un provvisorio passo indietro. Abbiamo assistito sui media ad accesi dibattiti tra scienziati e specialisti di vari settori scientifici a volte a confronto con rappresentanti politici. Alcune di queste divergenze di opinione derivavano dall’uso di linguaggi e obiettivi intermedi diversi anche all’interno delle stesse discipline mediche, per non parlare della difficile comunicazione tra scienziati, politici ed esperti in discipline sociali. Non si può circoscrivere il problema a un semplice difetto di comunicazione poiché esso investe basilari questioni di competenze e di potere, nonché di critica epistemica.

La storia della medicina e della scienza è ricca di casi in cui sono emerse divergenze profonde ed epocali in materia scientifica e di “giudizio degli esperti”. Anche nel passato le vaccinazioni di massa hanno incontrato opposizioni non diverse nella sostanza da quelle odierne. Celebre fu la diatriba tra Pasteur e Felix Pouchet. La differenza è che esse rimanevano circoscritte nell’ambito delle accademie e la popolazione non vi prendeva parte se non in forma marginale (anche allora qualche strumentalizzazione era possibile). Il fatto che gli scienziati parlassero solo tra di loro e non con il pubblico costituiva una garanzia per le istituzioni accademiche – e questo è ovvio – ma anche il pubblico era garantito poiché non veniva esposto a quelle incertezze a cui gli scienziati sono adusi, ma che provocano panico tra chi ritiene che la scienza consenta una risposta unica e certa, e che essa sia sempre possibile. Questa eccessiva fiducia in una scienza volgarizzata e la fiducia in un “positivismo ingenuo”, non sufficientemente contrastati da autorevoli istituzioni scientifiche, ha determinato una perdita di autorevolezza della scienza e degli scienziati. Essi si sono voluti assumere compiti che travalicavano le loro competenze con la conseguenza di perdere credibilità. Il danno prodotto è grave e occorre porvi rimedio.

Il problema dell’autorevolezza degli scienziati presso il pubblico s’aggrava e diffonde in modo virale (sic!) quando essi si prestano a rispondere a domande fuori dalla loro pertinenza. Nei mesi passati, i cittadini e i decisori si sono rivolti prevalentemente ai virologi poiché per prima cosa era necessario identificare le caratteristiche del virus. Il loro compito sarebbe continuato nello studiare e ricavare l’eventuale vaccino assieme ad altri specialisti quali i microbiologi e in seguito i farmacologi, lontano dai riflettori. Spettava ad altri – agli infettivologi e agli epidemiologi – ideare e valutare le misure da prendere per contenere il contagio sulla base delle conoscenze loro passate dai virologi e dai clinici che cominciavano a raccogliere qualche informazione sul decorso e la gravità della malattia e sulle prime sperimentazioni terapeutiche. Il tutto in una condizione di incertezza in cui nondimeno erano necessarie decisioni urgenti e drammatiche da parte dei decisori. Conoscendo il mondo accademico e scientifico, non dubito che le cose si siano svolte in buona parte secondo metodi rigorosi e con un’adeguata e corretta cooperazione interdisciplinare. Il problema s’è verificato in seguito con le successive e frequenti parate degli scienziati sui media che hanno creato non pochi problemi di credibilità nella scienza, negli scienziati stessi e nelle istituzioni che li rappresentano. I profani non hanno bisogno di conoscere i dettagli dei dissensi scientifici e hanno il diritto di essere protetti dalle considerazioni di semplice “buonsenso” proferite da esperti di altri settori. Né si può sostenere che oggi la circolazione delle conoscenze su base planetaria sia deficiente. Ci possono essere normali gelosie, competizioni e talora anche qualche scandalo tra “scuole” scientifiche, ma la circolazione delle informazioni tra scienziati è a un livello soddisfacente e c’è chi la promuove con impegno.

Verità o consenso?

Latour riporta come a una riunione di esperti e industriali sul tema del riscaldamento globale, un imprenditore contestò….

L’aneddoto è riportato nel contesto di una ricerca sulla condizione post-moderna, allo scopo di sottolineare sia il relativismo imperante sia, soprattutto, la pretesa che la verità emerga dal prestigio delle istituzioni che la detengono anziché in affermazioni condivise e oggettive.

Il caso (forse) ipotetico riportato da Latour, trova conferma concreta in una lunga lettera di un noto virologo italiano trasferito negli Stati Uniti. Nel testo circolato pubblicamente, prima di esprimere le proprie opinioni si premura di dichiararle autorevoli sulla base dell’esperienza e della prestigiosa posizione che ricopre. Che siano opinioni autorevoli, non abbiamo dubbi, ma la scienza non si basa sull’autorevolezza, bensì sulla verità. Nel momento in cui uno scienziato pretende di esprimere un’opinione (non un fatto) basata sull’autorevolezza e non sui fatti parla come un qualsiasi profano. Potrebbe essere più credibile di altri e noi stessi potremmo credergli sulla fiducia, ma in questo modo non giova alla credibilità complessiva del sistema scientifico.

Una ricerca sul “parere degli esperti” riporta come i governi abbiano sempre più fatto affidamento su organizzazioni scientifiche per misurare e valutare i rischi per la salute e l’ambiente. Secondo Dale Jamieson, il National Research Council americano è stato completamente ristrutturato dopo la Seconda guerra mondiale diventando praticamente “un braccio operativo dell’accademia nelle sue relazioni formali con lo Stato e le sue agenzie”. Mentre prima i risultati scientifici erano posti in discussione, in seguito a questa ristrutturazione l’obiettivo principale degli studiosi diventava la misurazione delle questioni scientifiche e tecniche per il governo. Questa evoluzione (o involuzione) s’è ripetuta in forme simili anche in Europa poiché essendo la conoscenza transnazionale, anche la politica della scienza non conosce confini e finisce per operare in modo simile in tutti i Paesi. La questione della misurazione e del consenso sui risultati è diventata perciò più importante della discussione dei risultati. Con l’istituzionalizzazione della misurazione dei fenomeni, il centro della discussione diventa perciò soprattutto la formazione del consenso sui risultati della ricerca. Jamieson riporta una tabella che evidenzia come l’uso delle parole “assessment” e “consensus”, poco utilizzate fino agli anni ’50, sia cresciuto di oltre il 600% circa da allora ai nostri giorni. Secondo Charles Kennel, la conoscenza è stata ristrutturata per essere “decision-ready”. Quindi per essere efficace è necessario che sia univoca e se non lo è significa che essa non è considerata strutturata in modo adeguato per informare l’opinione pubblica. Naturalmente questa opinione rovescia il senso della scienza che si deve confrontare con la verità piuttosto che il consenso.

Separare i “saperi”

L’emergenza provocata dal Covid-19 e la reazione politica ha evidenziato l’esigenza di riflettere sulla divisione dei “saperi” sebbene, soprattutto negli studi ambientali, il riduzionismo e la frammentazione della conoscenza siano stati considerati tra le cause principali del degrado e dell’incapacità di operare riforme operative nei processi di produzione, ma anche nella conoscenza tecnico-scientifica considerata tra le maggiori responsabili del degrado del pianeta. Se dunque una visione olistica della scienza, contrapposta a quella riduzionista, consentirebbe, secondo un’influente scuola di scienze ed epistemologia ambientali, di arrivare a politiche coerenti per contrastare fenomeni complessi e integrati quali il riscaldamento globale, l’inquinamento dell’aria e la scomparsa delle specie, quando si tratta di confrontarsi in tempi rapidi con la diffusione di un virus pericoloso non si può che fare realisticamente conto sulle competenze esistenti e sui tradizionali modi di relazionarsi tra discipline. Purtroppo, questo processo conoscitivo da secoli in uso, quando esce dalle accademie e dai comitati scientifici per confrontarsi pubblicamente con l’opinione pubblica e politica non è compreso dai profani.

La storia dei comitati scientifici

Da quanto riportato sopra – e come molti hanno sostenuto in questi mesi – si potrebbe erroneamente pensare che si tratti solo di un problema di cattiva informazione. In realtà, la Babele dei linguaggi e la difficoltà di profani e specialisti (su temi non propri) di venire a capo, se non di un’opinione unica, almeno di un metodo condiviso di operare nella gestione del rischio contagio, così come in quelli ambientali in genere, è un problema molto più sostanziale che richiede una profonda riflessione sul modo in cui la scienza opera, come si rapporta con la politica e solo da ultimo come comunica. Ma la comunicazione non va intesa come limitata alla sola trasmissione delle informazioni dagli esperti al pubblico profano, inclusi i decisori. Essa va riconsiderata nel senso più ampio della diffusione delle conoscenze, delle domande sollevate e a chi sono rivolte, nonché infine, ma forse più importante di tutto, del processo formativo degli operatori e dell’istruzione di base.

Corrado Poli

Bibliografia

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Berkeley.

• Kennel C. (2015), Global Knowledge Action Network, Proceedings of the Joint

Workshop on Sustainable Humanity: Our Responsibility, curato da Das Gupta, Ramanathan

e Sanchez Sorondo, Pontificia Accademia delle Scienze, Città del Vaticano.

• Latour B. (2012), Enquete sur le modes d’existence. Une anthropologie des Modernes,

La Découverte, Paris.

• Oppenheimer M., Oreskes N., Jamieson D., Brysse K., O’Reilly J., Shindell M., Wazeck

M. (2019). Discerning experts: The practices of scientific assessment for environmental

policy. University of Chicago Press.

• Shrader-Frechette K.S. (1991), Risk and rationality. Philosophical foundations for

populist reform, Univ. of California Press.