La “nuova” Montebelluna. La città inventata

di Lucio De Bortoli
Nel 1870 prendeva inizio la costruzione del Nuovo Centro Urbano di Montebelluna attorno al piano di fabbrica dell’ingegner Giovan Battista Dall’Armi, vincitore del “programma di concorso” del 1869.

‘Memoria storica e rinascimento  comunitario’  oltre che  una rubrica costituisce uno spazio del Giornale del Veneto dedicato alla ricerca, alla riflessione e divulgazione,  sulle identità personali e collettive, sul patrimonio urbanistico, artistico, culturale e socioeconomico che sono sedimentati  nella storia di ogni Comune  della nostra Regione, un giacimento a cui attingere per ritrovare tracce e mappe con cui orientarsi in una contemporaneità spaesante e riprogettare il futuro


Per secoli, la Montebelluna (comunità di S. Maria di Montebelluna) vista dagli altri è coincisa con l’intensità visuale e segnica di Santa Maria in Colle, oltre la quale si annidava il celebre mercato esente dazi, entità mercantile sopravvissuta alla distruzione del castello vescovile e del borgo.

Quella che ci viene incontro è quindi una storia a strati ma segnata dalla perdita dei segni. Già in pieno Cinquecento, la Montebelluna vista dagli altri non ricordava più la sembianza urbana che era stata sino a metà Trecento. Distrutto il castello, il borgo cresciuto attorno alle necessità di difesa e ai traffici non scese affatto in piano, là dove l’arrivo del Brentella favorì, invece, l’insediamento residenziale e l’appoderamento sparso. Senza urbe in piano, senza urbe sul colle, il mercato rimase dov’era sempre stato perché stretto dalla necessità di conservare l’esenzione e la sua fortuna. La tolleranza e la sopportabilità da parte dello stato moderno degli anacronistici privilegi feudali non superava, infatti, la ragione della loro conservazione: e l’esenzione fiscale, strenuamente difesa, valeva solo lì, in cima al colle.

La difesa della fortuna mercantile produsse, tuttavia, la staticità. Il privilegio venne così conservato a caro prezzo: Montebelluna, per gli altri e anche per i nostri avi, rimase lassù, tra il marcatore della chiesa e le botteghe ormai di legno del mercato. Quando le ragioni che mantenevano il mercato lassù vennero meno, cominciò la lunga stagione del trasporto che, se si materializzò all’improvviso, ebbe bisogno di alcuni decenni per entrare in circolo.

L’occasione del trasporto di una piazza mercantile è stato infine il momento dell’urbs. Il sistema urbano prodotto da un regolare concorso d’idee potrebbe portare a dare enfasi alla città inventata o disegnata a tavolino. Ammesso che di una città da inventare si sia trattato e non di un mercato. Se la discussione attorno alla città da creare o a una nuova sede del mercato da costruire parte immediatamente nella schermaglia tra i due ingegnere locali (GioBatta Dall’Armi e Giuseppe Legrenzi) –e ancor prima del cantiere- , ciò significa che sin dall’inizio i corni del dilemma erano ben presenti, a tal punto che sono stati tali fino ad oggi. E qui bisogna avere l’onestà di riconoscere che si tratta di una di quelle questioni che rimarranno sempre terreno di relativismo. Città o Mercato? O città mercato?

In realtà, la dichiarata bassa intensità architettonica ed urbana del piano Dall’Armi non è mai stata storicamente compresa da coloro che sono stati chiamati a confrontarsi con essa, come dimostrano le intitolazioni incongrue, la congerie di altezze diverse e altre amenità adottate per combattere lo sbandieratissimo “degrado del centro” degli anni ottanta che era, se mai, in prima istanza questione di intonaci; per non parlare degli arredi del tutto inutili o delle esercitazioni accademiche variamente metafisiche degli ultimi decenni. Il fatto che poi tali segni decontestualizzati, anche quelli più recenti, si sedimentino nella visione collettiva non ne cancella la mancanza di senso memoriale e la sostanziale, disancorata ed aliena, contro-storicità.

La disponibilità di Dall’Armi è tuttavia ancora pienamente coerente, dopo quasi 150 anni, con la necessità di un “lasciar fare” che sia invece legato ad un’evoluzione comunitaria, nella quale i segni d’autore non hanno imposto nulla allora e non c’entrano nulla ora. In questi anni si è infatti commesso il madornale errore di applicare soluzioni progettuali pensate dall’esterno ad un congegno che ha, invece, bisogno di applicazioni di senso pensate dall’interno. Un errore ciclico privo di elaborazioni in divenire, ma ricco di decennali elucubrazioni asimmetriche. Quel che non si deve fare è invece cogliere l’opportunità di legare il tardo e locale urbanesimo montebellunese –comunque lo si voglia leggere- alle dinamiche nazionali post unitarie. Proprio negli anni del trasporto, infatti, le grandi strutture urbane sono investite da un quadro molto ampio di trasformazioni funzionali alle esigenze dei ceti borghesi e alla crescita demografica generale. La risposta, nelle città, non sarà quella a larga scala della grande forma, ma quella della logica degli interventi per parti separate. Si interverrà nei nodi delle comunicazioni, nei siti della memoria, nei centri e nelle arterie secondo uno uno schema tipologico e stilistico attento alla lezione dei classici (il celebre romanico-gotico-lombardo) e profondamente caratterizzato, nel suo eclettismo, dagli aspetti monumentali e decorativi. E sarà in questo quadro che assumerà prevalenza la figura dell’ingegnere civile rispetto all’architetto; la figura cioè di un tecnico spesso funzionale alle scelte della classe dirigente, meno legato alla “poetica” dell’oggetto architettonico e, infine, più duttile.

A chi scrive pare un esercizio di provincialismo e di dubbia contestualizzazione intrecciare le grandi logiche urbanistiche delle città con la congiuntura costruttiva di una paese di campagna. E magari spingerla oltre, verso un approdo per cui a Montebelluna si realizza a larga scala (la città e il suo centro inventati) ciò che altrove avviene in termini insulari.

Ora, a prescindere dal fatto che la larga scala era evidentemente obbligata per via amministrativa, quel che non va dimenticato è il quadro sociologico in cui s’inserisce l’operazione. Montebelluna è, a quell’altezza temporale, un paese privo sostanzialmente di ceto medio. Se i protagonisti della forma sono ingegneri, sebbene Dall’Armi vantasse, tra i suoi titoli, anche la frequentazione di un corso biennale di Architettura e Ornato presso l’Accademia di Belle Arti, ciò si deve al fatto che, grosso modo in quel torno di tempo, il paese diventa sede del Consorzio Brentella con il suo corredo di tecnici, periti e ingegneri (come i nostri due) e che da qualche decennio quel che serviva erano soprattutto le strade e gli impianti idraulici.

Eppure, un insieme di paesi distanti e separati tra loro, ricavò la forza necessaria dall’inevitabilità di una decisione (il trasporto) per siglare il suo baricentro. Sostenere che da qui cominci la lenta crescita di una città o liquidare la questione con l’ineluttabilità del progresso che sarebbe comunque arrivato, conta davvero poco. Anche perché, mentre la seconda certezza è solo un’ovvietà, visto che prima o dopo sarebbe arrivata la grande fabbrica che avrebbe occupato le migliaia di persone che le sarebbero andate ad abitare attorno, secondo una schema a noi vicino e facilmente rintracciabile, la prima ha, almeno, dalla sua il censimento delle opere, delle persone e della rilevanza istituzionale e civile che ha assunto per noi e per gli altri.

Comunque la si voglia giudicare, dall’operazione trasporto e dal suo rendiconto prende forma il centro urbano che la storia ci ha consegnato. Ed è arduo negare che esso sia, ancor oggi, la parte più riconoscibile e precisa del volto di Montebelluna.

Lucio De Bortoli