Menare il can per Zaia

Apre la rubrica di Mannino sull’informazione in Veneto al tempo del colera mediatico

“Ah, ma voi in Veneto avete Zaia”. Quel mio amico foresto affetto da luogocomunismo mediatico taglia corto così, pronunciando il nome di Colui che non è più una persona, ma un personaggio da show, un bollino chiquita di garanzia, un brand di marketing intriso di sentiment (ops, in questo pezzo non dirò più parolacce, giuro che m’è scappato). Il suo interlocutore, che sarei io, a differenza sua vive da sempre nella regione più serenissima d’Italia, eterna vedova della plutocrazia di Venezia, da così tanto tempo in attesa dell’autonomia da tramutarla in quel che Georges Sorel chiamava mito, un ideale sovrastorico che non importa venga realizzato, l’importante è crederci. Ci vive, dicevo, e ci lavora, cioè scrive (che è sempre meglio che lavorare) nello Zaiastan, emirato personale del governatore più amato d’Italia e, se continua così, anche del mondo. Zaia se la gioca in popolarità con un solo rivale, il premier Giuseppe Conte che essendo al governo è la gruccia umana a cui s’aggrappa l’italiano medio in preda alla paura da virus, specialmente quello che pende a sinistra o ha lo stipendio assicurato, oppure ha il terrore di Salvini, Meloni e dei “fascisti” sempre appostati dietro la credenza, fra il sale e l’olio (di ricino). Elio e le Storie Tese cantavano Supergiovane, i media, abboccando all’autoritratto dell’amministrator senza macchia e senza paura, hanno edificato il monumento a Superzaia.

San Veneto martire

Luca da Godego di Sant’Urbano, sinistra Piave, in effetti è una sintesi ambulante di medietas confinante con la mediocritas, la personificazione della venetudine nelle sue luci (il pragmatismo fino all’eccesso e l’attaccamento alle radici, sempre più gracili), e nelle sue ombre, quelle al bar della ciacola autocompiaciuta da veneti primi della classe, lavoratori indefessi e anche un po’ fessi, che piangono sempre il morto ma sono campioni in coltivazione del proprio orticello e perciò, sempre forti a produrre ma non più giganti economici, restano nani politici. Come le ultime regionali hanno dimostrato, incoronandolo con il record del 76% di preferenze tutte sue, mi scuserà l’anima di Gobetti ma secondo me Zaia è, sparo alto, la più recente autobiografia della nasion veneta. Nel bene, ma anche nel male però. Ecco, sul male, sui difetti, i limiti, gli scivoloni e soprattutto le mancanze, di questo beniamino di grandi e piccini, i mezzi di infottenimento (informazione+intrattenimento, fottere l’opinione pubblica senza che se ne accorga) hanno imbastito un coro unanime di esaltazione, beatificandolo in vita. E mettendo l’aureola a lui santificano il Veneto passando come un caterpillar minimizzatorio sopra ai mali, ai difetti, ai limiti, alle magagne e ai vuoti della politica e della società – della cultura non c’è nulla da dire, perchè a parte qualche autore o attore (alla rinfusa: Gianfranco Bettin, i tre san Franceschi Maino, Permunian e Targhetta, Vitaliano Trevisan, Andrea Pennacchi, Natalino Balasso) e la miriade di piccole realtà che sputano sangue per sopravvivere, di cultura, voglio dire di cultura critica, impegnata a non farsi solo i fatti suoi, irriverente, anche per dio di sano scontro con il Potere e l’Omologazione, non c’è traccia. Per una satira al minimo sindacale sul Doge prosecchista, dobbiamo accontentarci dell’innocuo Maurizio Crozza, fate voi.

Zaiani e cripto-zaiani

Lui, il Bisaglia dei poveri, il leghista dal volto umano troppo umano, il moderato così moderato che piace a tutti e non dispiace a nessuno, è bravissimo, sia chiaro. Nell’autopromozione, intendo. Un pr che sa vendere anche ai concorrenti la sua discoteca, tanto è vero che questi, vittime della sua abilità a disinnescare polemiche e spegnere fuochi, si trovano disarmati. Se poi ci aggiungiamo che ci mettono pure del loro nell’incappellarsi a ripetizione, ne esce una sceneggiata dove il protagonista resta sempre lui e gli altri gli saltellano attorno come comparse o cortigiani, api del suo alveare. E i giornalisti a completar l’opera, menando il can per Zaia divisi in due gruppi: sviolinatori e tromboneggiatori. I primi contribuiscono attivamente alla costruzione del suo consenso, facendogli le fusa con non-domande e raffigurandolo come baluardo contro Roma. I secondi fingono di punzecchiarlo limitandosi a qualche bel discorso retorico, ma a far uscire certi pus, quello mai o quasi mai, che non si disturbi troppo il conducente. Al massimo qualche voce isolata, una pepita qua e là che si perde nella corrente. Veneti: borbottiamo in silenzio dal 1866.

Conferenze-stampa monologanti

Giusto tre macro-esempi. Uno è talmente noto che è quasi imbarazzante citarlo: le conferenze-stampa sull’andamento della pandemia da Covid 19. Perfettamente a suo agio, Zaia dà del tu ai cronisti, impera, domina, gigioneggia. Certo, si fa forte del clima da unione sacra che l’emergenza permanente infonde nella truppa, esattamente come avviene per Conte a livello nazionale. Con la differenza che a Conte non vengono risparmiati dubbi, rilievi, inchieste, accuse (a volte anche pretestuose), mentre Zaia è immune, intoccabile, santo subito. Anche se è la Regione la prima responsabile della sanità, anche se la riforma delle case di riposo non l’ha mai fatta, anche se manda avanti i suoi funzionari in indecorose, tristissime baruffe sulla primogenitura dei test a tampone. Ma l’andazzo è questo: Zaia non si fa mai intervistare da intervistatori che non gradisce, non va mai in tv per confrontarsi con gli avversari ma solo se può concionare in beata solitudine, non risponde in prima persona alle contestazioni preferendo muovere i suoi assessori e sottoposti come pedine. Furbo? Sfacciatamente. Coraggioso? Per niente.

Domande senza tregua

Ma veniamo al secondo scampolo di incenso. Se accetta di esporsi, il battitore di sagre, sia ben chiaro: rigorosamente al riparo da imboscate. Fatevi una bella pera di caffè nero, e se riuscite ad arrivare in fondo, sciroppatevi questa fantasmagorica intervistona fattagli in campagna elettorale dai direttori di alcuni settimanali diocesani, don Alessio Magoga di L’Azione di Vittorio Veneto, Giorgio Malavasi di Gente Veneta e Lauro Paoletto della Voce dei Berici. Ne rimarrete estasiati come davanti al mistero della Trinità: come è possibile reggere 54 minuti di semi-monologo del presidente senza metterlo in difficoltà neppure per un decimo di secondo? Solo chi ha fede può rispondere senza addormentarsi prima. Implacabili, non gli hanno lasciato scampo: “qual è la realizzazione di cui va più fiero e quella di cui è un po’ meno soddisfatto?”, “quale è la sua ricetta contro lo spopolamento della montagna?”, “mettiamo che domattina ha la giornata libera, dove va, libero di fare quel che vuole?”. Preghiamo.

Gli svirgolatori

Terzo modello, praticamente uno standard, è la tecnica rozza ma efficace del parlar d’altro o sussurrare, con flebo di camomilla incorporata. Cioè di non parlare schietto di quel che si dovrebbe mettere in cima all’agenda, sbattere in prima pagina, intervenendo anche, gesugiuseppemaria, con un commento a tambur battente sui fatti scomodi a chi governa. Lo fanno tutti i giornaloni e giornalini, Mentana, l’Osservatore Romano, fra non molto anche Topolino e non lo fanno le testate venete, che vedono i direttori di norma nascosti o nel mutismo alternato a balbuzie (vi è rimasto impresso qualche editoriale degno di nota, a voi, dei direttoroni di cui ora mi sfugge financo il nome?), o in fondi senza fondo (vuoi perchè inutilmente prolissi vuoi perchè non contengono un esame di responsabilità che sia uno), oppure dietro opinioni di poche firme su cui scaricare l’antipatica incombenza (le valide, non prigioniere di fuffa e scontatezza e godibili alla lettura si contano sulle dita di una mano, anzi di due dita sole: Stefano Allievi sul Corveneto e Francesco Jori sui quotidiani Gedi). Svirgolatori del diritto-dovere di prender posizione e schierarsi evangelicamente con un sì-sì no-no, mostrando una fetta di culo ogni tanto, se no, che gusto c’è?, non c’è un generale o ammiraglio che ricordi alla lontana Giorgio Lago, il comandante del Gazzettino anni ’80-’90 che non era un sovversivo, anzi era un liberale d’establishment, ma potè fregiarsi dell’accusa di “sfascista” da parte del bellicapelli Gianni De Michelis, a cui replicò sui denti che il sabotatore era lui assieme ai satrapi come lui.

Pan e vin, la dieta del fantolìn

Ho peccato di lunghezza, non lo farò più. Ma sono parziamente giustificato: questo che avete letto è l’articolo, come dire?, programmatico che inaugura una rubrica settimanale sulle balordaggini della disinformazia di queste parti (ma non mancherà qualche incursione fuori dai confini regionali) che dedico fin dal nome, “Il Clandestino”, a un maestro venetissimo di giornalismo dissacratore, dimenticato troppo presto, quel Sergio Saviane che così avrebbe voluto chiamare un giornale satirico che invece non vide mai la luce. Un uomo feroce sulla pagina e buono come il pane nella vita, che metteva in ridicolo l’Italia desnuda sapendo ridere di se stesso. Pane al pane e vino al vino. Come quando, non potendo sfuggire alla leggenda che lo voleva spugna da osteria, scrisse con il soave tono da gaudente a fine nottata: “Si beve senza accorgersi la malinconia del Veneto ormai andato. Il vino uccide lentamente, dicono i medici. Fa lo stesso, non abbiamo fretta”.