Marcato, il “bulldog” che ama le interviste al miele


L’assessore di Zaia autocandidato a rinverdire l’identità della Liga Veneta sa diventare un cucciolone. L’origine del bridgista pseudo-leghista dimissionario dal Cts. E in consiglio regionale va in replica la maggioranza di Draghi


Proditoria intervista-agguato del direttore di TvA, Domenico Basso, all’assessore regionale alle attività produttive, il leghista Roberto Bulldog Marcato. Nella tramissione Volti&Storie andata in onda domenica 14 marzo il giornalista, noto per non lasciarne passare una ai potenti (in particolare a Luca Zaia, vittima seriale del suo giornalismo d’assalto), è addirittura riuscito a intrufolarsi in casa sua, inchiodandolo a un vero fuoco di fila di domande con contorno di vino e torta sul tavolone dell’aia. Il titolo della puntata, con tutta evidenza, era una perfida esca: “Marcato, il bulldog che ama il Veneto” (pensa se non lo amava…). Travolto e in palese difficoltà, il mastino della Lega, anzi della Liga, ha dovuto confessare i suoi più reconditi pensieri che nessuno era mai stato capace di cavargli di bocca. E non ci riferiamo alla pasta al pomodoro della mamma (“Credo che non ci sia ristorante stellato in grado di farla”, ha finalmente ammesso il duro dal cuore buono Marcato), ma al proposito di mettersi a disposizione praticamente per qualunque futuro ruolo in ballo nei prossimi mesi, o anni: segretario veneto del partito, candidato sindaco della sua città, Padova, perfino successore del Governatorissimo alla presidenza della Regione. Forse, giusto giusto con una predilezione per la prima eventualità. Il leghistissimo non sgradito ai salviniani, simpatia ruspante e dialetto che scappa ogni due per tre, forte di un consenso personale ragguardavole mira a far garrire di nuovo la bandiera originaria del lighismo arciveneto, così da farsi portavoce dei militanti delusi dal lombardo-centrismo, vecchia tara del Carroccio, e dalla mancata autonomia. Basso, con i denti canini aguzzi, ha chiuso l’interrogatorio azzannandolo con una domanda letale: “Come se la immagina il suo primo giorno post-pandemia?”. Brividi. Poi, fra il watchdog e il bulldog, tutto è finito con un bel brindisi distensivo. Alla salute!

Non avere i numeri

Salvini ha negato: non è in quota Lega il componente del CTS-Comitato Tecnico-Scientifico (di recente rinnovato dal governo Draghi, sia gloria al Messia), tale Alberto Giovanni Gerli, dimessosi dopo 41 ore perchè accusato di non saper fare quello per cui era stato chiamato, cioè i calcoli per l’algoritmo su cui stabilire le fasce colorate. L’ingegnere gestionale padovano, esperto in numeri e in brigde (ipse dixit), sarebbe andato a sostituire Stefano Merler, epidemiologo matematico della Fondazione “Bruno Kessler”. Perchè proprio lui, allora? Perchè un tizio che a inizio febbraio pronosticava un Veneto “quasi certamente” in zona bianca? Il diretto interessato smentisce qualsiasi legame con il partito di quella pasta del Capitano. Ma ecco che fra le more della rassegna stampa sbuca fuori un Alberto Stefani, deputato e commissario regionale della Lega, che sul Corriere del Veneto del 19 marzo ricostruisce così la vicenda: “Ciò che abbiamo chiesto è che ci fossero persone preparate, che il peso delle Regioni fosse rappresentato e che oltre alle competenze scientifico-sanitarie ci fossero anche figure versate nel campo delle analisi. Così si è segnato, insieme alla sostituzione dell’ex commissario Domenico Arcuri, un cambio di passo”. Stefani esclude che Gerli sia dei loro, tuttavia il ritrattino sembra corrispondere piuttosto bene. Ma tutto è bene quel che finisce bene: il bridgista ha tolto Palazzo Chigi dall’imbarazzo. Non aveva saputo prevedere che qualcuno si sarebbe messo ad analizzare i suoi, di numeri. Debolucci, a quanto pare (e al netto delle quote di partito).

Inciucio draghista a Venezia

“Grande e inedito patto tra Lega e Pd sul Recovery Plan”. Esordisce così il 17 marzo la cronaca dei quotidiani Gedi (Il Mattino di Padova, La Nuova Venezia, La Tribuna di Treviso) sulle due risoluzioni in consiglio regionale contemporaneamente votate da maggioranza (con l’eccezione di Forza Italia, astenuta, e Fratelli d’Italia, contro) e opposizione (tranne i Verdi) sul negoziato con Draghi per accaparrarsi qualche miliarduzzo. In pratica, la stessa composizione parlamentare che sostiene il governo a Roma si è replicata a Venezia (unico fra i piddini ad astenersi su quella di marca Lega, Andrea Zanoni). Il capogruppo del Pd, Giacomo Possamai, tutto contento ha inneggiato alla “filiera dell’idrogeno” a Porto Marghera e al “fotovoltaico” (non vediamo l’ora). Anche il portavoce del centrosinistra, Arturo Lorenzoni, deve’essere soddisfatto, visto che si è limitato ad inserire le sue proposte in quelle del Pd (anche se per lo meno ha scelto l’astensione su quelle leghiste), così come ha fatto la Baldin del M5S. Chissà se anche il potenziamento dell’inceneritore di Padova rientra nella strategia. I redivivi “Fridays for Future” e la sinistra ambientalista patavina non sembrano tanto d’accordo, visto che lo stanno contestando proprio in questi giorni. Più tradizionale l’omologo leghista, Alberto Villanova, per il quale “transizione ecologica” significa Valsugana, Pedemontana, Valdastico Nord. Insomma, asfalto. Per l’intanto, nel libro dei sogni si ficca dentro tutto e così son (quasi) tutti contenti. Solo uno ha fatto stecca nel coro: uno dei due volti del “Veneto che vogliamo” (la sigla che in campagna elettorale spingeva Lorenzoni), Carlo Cunegato, che il 18 marzo sulla sua pagina Facebook ha scritto un post dal titolo chiarissimo: “Il dialogo che uccide il cambiamento”. Chiusa finale: “se credi veramente ad una conversione ecologica, alla giustizia sociale, ai diritti economico-sociali, al diritto alla salute per tutti, il Veneto che hai in mente non può essere una pallida copia di quello di Zaia. Deve essere tutta un’altra storia. La gente vuole sapere da che parte stai. Noi stiamo, lontani, da tutt’altra parte. Altrimenti nessuno si deve lamentare se la prossima volta prendono l’80%”. Come dire: l’alternativa a Zaia e a chi verrà dopo di lui, fra quattro anni, non si costruisce abbracciando l’avversario. La posizione, molto dura nella sostanza, ça va sans dire è stata silenziata. Ma ci siamo abituati.

Iban il Terribile

La saggezza delle nonne, quando erano ancora riverite nonne e non “welfare familiare”, insegnava che chi parla di cose che non sa, dovrebbe astenersi dal parlare (questo, com’è noto, non vale ahimè per i giornalisti, i quali, diceva Lord Northcliffe, scrivono cose che non capiscono). Nella sua rubrica “Dentro se stessi” sul Giornale di Vicenza, lo psicoterapeuta Lino Cavedon il giorno 12 marzo si è lanciato in una dissertazione per dimostrare che, nel passaggio da Conte e Draghi, abbiamo lasciato un modello “materno” per uno “paterno”. Fin qui, trattasi di interpretazione psicologica, il campo suo. Ma quando il dottore si avventura nel merito della situazione finanziaria del Paese, ripete a macchinetta il luogo comune cottarelliano dello Stato come famiglia (o, nella variante berlusconiana, come azienda): “Nessuna famiglia, intelligente e matura – scrive – si può permettere una gestione simile del proprio bilancio”, cioè indebitandosi per più di 2 mila miliardi di euro. Cavedon è tecnicamente ignorante. Ignora un semplicissimo fatto, su cui però meglio dare la parola a un giornalista specializzato, Vito Lops del Sole 24 Ore: “Uno Stato non è come un’azienda/famiglia per il banale motivo che nel primo caso il debito non deve essere estinto ma sostenibile”. Su una sola cosa però si somigliano: “Se uno Stato o un’azienda si concentra solo sul taglio dei costi e non sui ricavi/redditi prima o poi c’è il default” (7 giugno 2019). Poi ci sarebbe anche la Monetary Modern Theory, non ignota a Draghi, che pensa che uno Stato che batta moneta sovrana non può mai fallire, ma deve preoccuparsi esclusivamente di governare l’inflazione. Beninteso: non si pretende che uno psicoterapeuta si informi, prima di intervenire su materie che esulano dalla sua. L’unica pretesa, magari, è che eviti di dipingere un ghiacciolo come Draghi, tecnocrate finanziario puro, come il buon pater familias. Con un padre così, un figlio come minimo ci diventa hikikomori, autosegregandosi per sfuggire a Iban il Terribile.