“Io tu noi gli altri”. Libro sull’economia della condivisione in Italia. La prefazione di F. Morace

Ispirati dalla tradizione italiana dell’economia civile di metà 1700 che ‘per li rami’ parte dalla Scuola napoletana di Vico e Genovesi per arrivare a quella milanese di Beccaria e Cattaneo, i due autori riflettono sull’emersione di una diversa economia che integri il modo tradizionale di fare mercato con l’uso più consapevole delle reti digitali.

Prefazione del libro “Io tu noi gli altri. Per una via italiana all’economia della condivisione?” di Bellavista Fabrizio, Esposito Gaetano Fausto

Per introdurre un’opera, “Io tu noi gli altri. Per una via italiana all’economia della condivisione?” (Aracne Editrice, 2019), che affronterà il tema impegnativo dell’economia relazionale, è importante ragionare sulla sfida della prosperità — che implica una crescita sana e sostenibile per realizzare società più equilibrate.

Dal mio luogo privilegiato di osservazione, posso testimoniare quanto questa dimensione stia giorno dopo giorno conquistando l’interesse e l’attenzione di una comunità sempre più ampia di interlocutori: docenti, imprenditori, giornalisti e semplici cittadini, che hanno peraltro deciso di accettare la sfida della Crescita Felice (1) , partecipando — come Fabrizio Bellavista che ne è Ambasciatore insieme ad altri 300 — al grande progetto Festival della Crescita (vedi www.festivalcrescita.it).

Nel lungo tour che da alcuni anni attraversa l’Italia, ci soffermiamo spesso sul confronto tra passato, presente e futuro, presentando i risultati più interessanti emersi da una ricerca internazionale dedicata proprio alla nuova concezione della felicità personale, realizzata negli ultimi quindici anni dal Future Concept Lab in dieci paesi (Brasile, Colombia, Finlandia, Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda, Russia, Spagna).

L’ipotesi di fondo, confermata dai risultati della ricerca, riguarda il cambiamento nel modello stesso di prosperità e nel modo in cui la felicità viene percepita da quelli che ormai chiamiamo ConsumAutori e non più semplici consumatori passivi: meno legata al possesso e all’acquisizione di beni materiali, e più vicina alla capacità di tessere relazioni attraverso cui riconoscersi ed essere riconosciuti. In perfetta sintonia con il titolo del libro che vi apprestate a leggere: Io, tu, noi, gli altri. Una via italiana all’economia della condivisione?

L’Italia che si dichiara poco felice e molto preoccupata (come emerge da ricerche Censis ed Eurispes presentate periodicamente negli ultimi anni) dimostra nello stesso tempo una grande vocazione e un talento nell’esprimere questo tipo di felicità —che ha anche il merito di essere universale, ri–avvicinando gli adolescenti agli adulti, i giovani ai più maturi. Una felicità non–economica e molto emotiva, relazionale, che tutti gli intervistati dimostrano di apprezzare e che — scopriremo nel corso della lettura — ha le sue radici nel nostro Paese, segnate dall’economia civile della scuola napoletana e dall’Illuminismo milanese.

Qualche anno fa la felicità era privata, si raggiungeva da soli, ed era comparativa: sono più felice degli altri attorno a me? Oggi la felicità—anche se si raggiunge personalmente—ha bisogno di essere comunicata ad altri e di costituire motivo di scambio, addirittura di dono. Il best–seller di Jeremy Rifkin, La civiltà dell’empatia, del 2009, lo aveva previsto.

Il cambiamento di paradigma in atto che abbiamo definito Trust & Sharing sembra ormai dimostrarlo: condividere le proprie esperienze di vita e di consumo si dimostra una priorità per un numero crescente di persone nell’inseguire la propria felicità. La sfida diventa inventare nuovi modelli di relazione, ed è su questo che il libro che vi apprestate a leggere si interroga.

L’ethos dei ventenni e dei trentenni oggi è fatto di empatia, e l’arrivo improvviso di un papa come Francesco—molto amato dai giovani — rafforza questa tendenza. Sta crescendo sia tra i giovani sia tra gli adulti la felicità conviviale, da consumare in compagnia creando e rafforzando relazioni: il cibo in questo senso torna a essere fondamentale, non solo in Italia.

È chiaro che in quest’area assumono grande rilevanza anche il modo futuro di intendere la tecnologia e i consumi tecnologici: ciò che nel passato spesso ha separato gli individui (lo schermo del computer) oggi viene invece apprezzato perché li tiene uniti in termini di conversazione e ancor più di progetti condivisi. L’evoluzione dei blog e la loro convergenza nei social network facilita una relazione personale su una piattaforma comune di valori: in questa dimensione—insieme a tanto altro— è possibile immaginare un’estensione dell’esperienza del dono e dello scambio gratuito nella vita quotidiana.

Per molti anni si è discusso della relazione delicata tra reale e virtuale, fisico e digitale, e soprattutto tra esperienza online e offline, come dimensioni alternative e/o contrapposte. I due mondi apparivano inconciliabili e in contrasto anche nella vita personale, sollevando paure e polemiche, e attivando in una parte della società comportamenti difensivi e logiche avversative (si, ma. . . ). Si sono immaginate seconde vite o esistenze parallele nel cyberspazio, capacità relazionali delle persone o algoritmi per interpretare i gusti dei clienti.

Poi è arrivato lo smartphone e ha messo d’accordo tutti, annullando progressivamente il gap tra i due mondi di esperienza e rendendo possibile una convergenza pervasiva tra fisico e digitale, definendo le caratteristiche di una dimensione in precedenza inimmaginabile: l’esperienza onlife.

La pervasività dell’onlife è tale da stravolgere la vita quotidiana di ciascuno in termini di percezione ancora prima che di comunicazione e relazione. L’onlife tende cioè a espandersi secondo una progressione geometrica che non si limita a contrarre il tempo e annullare lo spazio come avveniva in passato, ma a mescolarli in modo imprevisto, espandendo lo spazio vitale e rendendo elastico il tempo, intervenendo nelle pieghe più nascoste e private del quotidiano e delle attività di ciascuno. In una dimensione che nel libro di Bellavista ed Esposito si definisce giustamente tecno–umanista.

Vengono così abbattute le frontiere tra prodotto e servizio, pubblico e privato, psicologico ed economico, e le istituzioni stesse si trovano a intervenire in dimensioni fruitive che mai avremmo immaginato.

Yuval Noah Harari nel suo libro Homo Deus affronta questo paradosso. Da un lato ci sentiamo divini, dall’altro abbiamo paura che le macchine ci sovrastino, e chiude con una domanda: che cos’è più importante l’intelligenza o la consapevolezza?

Mentre Thomas L. Friedman in Grazie per essere arrivato tardi a sua volta chiarisce che il digital divide è destinato a esaurirsi con il potenziale di accessibilità ubiqua e gratuita, mentre si allarga il solco di un motivational divide, che penalizza i popoli e i paesi ricchi, soprattutto le generazioni più giovani che—ebbri di dati — si dimostrano deboli in termini di motivazione e tensione verso il futuro, mentre paesi come India e Cina sono impegnati a fondo nel recupero di posizioni che implicano integrazione di informazione e conoscenza.

L’onlife tende dunque a una espansione senza confini definiti dalla propria presenza nell’esistenza collettiva e individuale, resa possibile dal potere digitale che tutti noi oggi abbiamo nelle nostre tasche: il digitale diventa pervasivo e a noi rimane il compito di incanalarlo sui progetti che più ci stanno a cuore, nella nostra “totalife”.

La rivoluzione digitale ha modificato in profondità il metabolismo delle generazioni in modo trasversale e imprevedibile. Nella metamorfosi in atto che non può essere paragonata a nessun altro cambiamento economico–sociale perché non segue le logiche precedenti del conflitto generazionale o dello scontro tra classi sociali, l’impatto tecnologico si è infatti distribuito tra le generazioni in modo sottile, modificando comportamenti consolidati senza mettere in discussione apertamente i grandi valori (Amore, Famiglia, Denaro), ma trasformandoli dall’interno. Le persone cambiano senza rendersene conto e i Big Data fotografano spesso questa realtà inconsapevole, indicando correlazioni inaspettate.

Per decenni abbiamo assistito alla guerra campale tra tecno–entusiasti — molto presenti in Asia e negli Stati Uniti—e tecno–resistenti forti in Europa e fortissimi in Italia. Negli ultimi anni questa guerra si è radicalizzata nelle teorie ma svuotata nei fatti: i ConsumAutori utilizzano sempre più i dispositivi digitali in modo post–ideologico per incontrarsi, raccontarsi, semplificarsi la vita, risparmiare, verificare le offerte di consumo o i servizi, condividendo e integrando la catena del valore, affidandosi a nuove logiche reputazionali e a nuove passioni collettive.

Emerge un nuovo mercato interamente dedicato alle azioni concrete dell’innovazione, che accompagna i comportamenti personali e familiari alla ricerca di felicità quotidiana, e si dimostra molto apprezzato non solo dalle giovani generazioni.

Questa metamorfosi si esprime negli oggetti e nei comportamenti, plasma la qualità materiale del paesaggio di prodotti e servizi che ci circondano, e ormai riguarda la vita quotidiana di tutti noi. Per comprenderlo, è sufficiente osservare la natura stessa della nuova normalità, che non si conforma in standard ripetuti, ma è fatta di eccezioni e capricci, di urgenze e ansie improvvise. In questa nuova dimensione l’innovazione tecnologica diventa il ponte tra le persone e il mondo: solo in questo modo, osservando i gesti e i comportamenti dei ConsumAutori, saremo in grado di comprendere le dinamiche delle loro scelte che, come nello schema dedicato al confronto tra innovazione tecnologica e innovazione sociale, si caratterizza per addizione e non per contrapposizione.

Prendiamo come esempio la generazione dei Millennials che vive la dimensione digitale attraverso diverse sfumature creative (in particolare i 20–25enni CreActives), professionali (i 25–30enni ProActives) e familiari (i 30–35enni ProFamilies).

Questi soggetti trasformano in modo naturale l’innovazione tecnologica in social innovation, e in questa evoluzione coinvolgono tutte le altre generazioni: quella dei genitori, quella dei figli e perfino quella dei nonni. I Millennials conducono un’esistenza onlife che integra l’online con la vita reale, trasformando ad esempio lo storytelling in storydoing, raccontando cioè la propria vita in tempo reale sui social, ma spesso nel loro racconto includono soggetti di età diverse, che a loro volta si sentono ingaggiati e riconosciuti nelle loro esperienze.

In questo modo — senza che nessuno lo abbia proposto o teorizzato — dal conflitto generazionale degli anni 60/70 passiamo alla reciprocità generazionale degli ultimi anni, che vede ad esempio la crescita pervasiva della sharing economy nelle sue diverse espressioni, presso tutte le generazioni: dalla condivisione fruitiva di prodotti e servizi, fino a nuove forme collaborative di lavoro e impiego del tempo, a nuovi modi di concepire i fenomeni di globalizzazione come intreccio glocale, come anche verrà riportato dai due autori, proponendo gli esempi illuminanti delle social street e delle aziende responsive.

Il potere della social innovation, che si esprime attraverso la sua pervasività generazionale e interclassista, diventa così una indicazione sempre più chiara: integrare la potenza informativa con la competenza conoscitiva, in una dimensione di reciprocità e di conoscenza del contesto socioculturale. In quest’area il digitale amplifica il dono, diventando il frutto e lo strumento di una volontà precisa, di un progetto, di un ideale che assume poi la valenza circolare dello scambio.

È il dono del tempo e delle energie tipico del volontariato, in cui la gratuità segna il valore stesso dell’esperienza, e che continuerà a diffondersi con decisione nei prossimi anni, così come l’economia civile, secondo logiche di generatività descritte magistralmente nelle prossime pagine. È questo il mondo del peer–to–peer, della circolarità solidale dello scambio, del progetto condiviso e delle affinità elettive, che diventerà in futuro imprescindibile punto di riferimento per il commercio e per l’economia.

In questa dimensione i due autori indicano una possibile e inaspettata vocazione italiana che per motivi sia storico–culturali (la tradizione napoletana che discende dall’economia civile di Antonio Genovesi per incontrarsi con l’Illuminismo milanese di Verri e Beccaria e successivamente di Cattaneo) che psico– antropologici (con una empatia imprenditoriale che emerge ad esempio nell’umanesimo industriale di Adriano Olivetti) potrebbero finalmente dar luogo a una “scuola italiana”, alla guida di un movimento in cui fiducia distribuita, consumo collaborativo e creatività diffusa potrebbero trovare un magico momento di sintesi felice.

Francesco Morace