Hanno chiuso il Lingotto, apriamo l’Arsenale!

Parte dal Veneto l’alternativa liberaldemocratica alla Destra parassitaria ed al chiacchierificio dell’assistenzialismo clientelare


(bozza) Manifesto: Liberi – Democratici – Progressisti – Popolari – Inclusivi

Italia è la Comunità che ci vogliamo meritare.

Italia è la nostra Nazione, antica e giovane, sognata e fondata con il l’umiltà, il sacrificio, il dolore, la generosità e la genialità di innumerevoli generazioni succedutesi in un tempo storico millenario.

Italia è un Popolo che negli ultimi 150 anni ha saputo edificare pietra su pietra fondamenta istituzionali robuste e difenderle dalle ripetute predazioni di gruppi di potere fazioso ed affaristico ed infine farle risorgere dopo l’assalto criminale portato loro dalle squadracce fasciste che con la connivenza di una classe dirigente inetta, hanno violentato ed annichilito l’opposizione democratica, irretito e corrotto la coscienza civile degli italiani per un ventennio.

Italia è il Paese che desideriamo abitare e condividere con i cittadini che nutrono il senso del dovere nei confronti della Patria ed il rispetto dei valori e dei principi di una Democrazia partecipata, trasparente, pluralista.

Italia è la Repubblica dotatasi di una Costituzione che ha sancito i principi vitali pensati, vissuti e testimoniati da una generazione di leader politici i quali, pur nell’asprezza di una dialettica generata da identità valoriali ed ideologiche contrapposte, hanno saputo privilegiare il Bene comune avviando e consolidando un percorso di straordinario sviluppo economico e sociale.

Italia è il Territorio che vogliamo liberare dalla malapianta delle criminalità organizzate, dalla gramigna delle corporazioni che disdegnano le regole ed assediano la Finanza pubblica, dal parassitismo che si annida nelle pieghe della legislazione clientelare ed elettoralistica, nella vergognosa evasione fiscale e nei labirinti della Tax expenditure, dagli inquinatori di terra-acqua-aria, dal degrado del linguaggio politico all’inseguimento della popolarità fasulla ed in fuga dalla conoscenza, dalla competenza, dal rispetto della verità.

Italia è anche una Società opaca, nella quale quasi la metà degli italiani (il 49,15 per cento) nel 2021 non ha dichiarato redditi e circa il 13 per cento dei contribuenti – quelli con redditi dai 35 mila euro in su – ha versato da solo il 60 per cento dell’Irpef.

Italia è una Collettività che continua a rinviare una onesta e rigorosa autoanalisi sui mali sociali che la affliggono, per poter individuare le cure giuste e le persone che ne hanno davvero bisogno e le meritano. Negli ultimi quindici anni la spesa assistenziale a carico della fiscalità generale è balzata da 73 a 145 miliardi, mentre i poveri assoluti – anziché ridursi – sono passati da 2,1 milioni a 5,6 milioni (da 6 a 8,5 quelli in povertà relativa) e ciò è ascrivibile alla superficialità ed agli ideologismi di opposti schieramenti politici incapaci di adottare terapie efficaci.

Italia è una Cittadinanza disorientata dalle asimmetrie e dalle ingiustizie che opportunisticamente non vengono denunciate dalle Forze politiche bensì ‘illustrate’ dal Direttore dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Ruffini quando spiega che il peso fiscale che grava sui cittadini non è equamente distribuito: oltre il 90 per cento del gettito Irpef proviene da dipendenti e pensionati e il 57 per cento dei 41 milioni di contribuenti Irpef dichiara meno di 20 mila euro, ed inoltre emerge il fatto singolare che solo lo 0,1 per cento dei contribuenti Irpef dichiara più di 300 mila euro ed altrettanto insolito appare che in Italia siano solo 3.000 le persone dichiarano più di un milione di euro. Cosicchè se ne può dedurre che per risolvere i problemi dell’Italia, non serve punire di più i più ricchi: servirebbe semplicemente far pagare a tutti quello quello che dovrebbero pagare. La differenza tra una classe dirigente politica che il problema dell’evasione fiscale lo vuole affrontare o lo vuole evitare è tutta qui.

Italia giusta è quindi il Progetto politico che vogliamo realizzare, in concorso con tutte le Forze sociali e politiche che ispirano e conformano la loro azione ai diritti soggettivi contenuti nella Costituzione ma anche ai doveri che vi sono indicati ed intesi come vincoli indissolubili per salvaguardare l’assetto istituzionale della Patria, connotare l’identità civica e perimetrare la convivenza civile dei cittadini.

Emergenza di uno Stato logorato

(Tanto più urgente e decisivo si rivela il nostro intento perché) Italia è ora uno Stato logorato dall’irruzione nel contesto internazionale di processi economico-finanziari (globalizzazione), di innovazione (rivoluzione tecnologica e digitale), di conflitti bellici e conseguenti sommovimenti geopolitici e flussi migratori, di sconvolgimento ambientale (cambiamenti climatici e riscaldamento), che ne hanno minato alla radice la potestas ed aumentato contemporaneamente le funzioni e responsabilità nei confronti di famiglie e cittadini impauriti e di imprese scosse dai mutamenti costanti dei contesti di mercato nelle quali operano.

Tale crisi strutturale è stata incubata nel corso degli anni ’70 ed ’80 e con la cesura intervenuta a partire dagli anni ’90 nella tipologia e nella visione delle rappresentanze partitiche ed associative: a seguito dell’esondazione dell’attività inquisitoria della Magistratura e del venir meno delle energie ideali e motivazionali della generazione postbellica falcidiata dalle inchieste e contemporaneamente la caduta della qualità personale e delle competenze nell’esercizio dell’attività politica ed amministrativa, sono emersi un quadro politico turbato dalla questione morale ed un bipolarismo che ha soppiantato la dialettica sui programmi con una competizione rissosa e demagogica centrata sulla contrapposizione ideologica, sulla delegittimazione dell’avversario, ma soprattutto su una dissennata ricerca del consenso attraverso la manomissione dei vincoli di spesa pubblica che ha provocato una accelerazione del dissesto finanziario.

La corsa verso il default è stata arrestata dal (salvifico) progetto euro e successivamente dall’ancoraggio all’Unione Europea caldeggiato, promosso e realizzato dai leader del Centrosinistra che si sono avvicendati nell’ultimo quarto di secolo alla guida del Governo.

Ma l’impatto della spesa scriteriata su tutti gli indicatori economico-finanziari del Paese è stato devastante, strutturale e di lunga durata, evidenziato dalle serie storiche dei dati su tutti i più importanti segnalatori del suo stato di salute compromesso: occupazione sempre su un livello di al di sotto della media europea, produttività in stand by, aggravamento delle fratture sociali e territoriali, inefficienze sistemiche di tutti gli apparati pubblici (in primis la Giustizia, con effetti di pesante rallentamento economico stigmatizzati sia dalla Banca d’Italia che dalla Commissione Europea).

Nonostante tutto ciò l’Italia ha retto per un fatto che ha del miracoloso: la sua partecipazione alla governance dell’integrazione europea e l’apertura al processo di globalizzazione del commercio, ha gonfiato d’aria salutare i polmoni del suo sistema produttivo in grado di accettare la sfida della competizione, dell’innovazione e dell’inserimento nelle filiere produttive globali, riuscendo così a conquistare straordinarie quote di mercato per tutti i tradizionali comparti del made in Italy ed in ragione di ciò far respirare i conti pubblici e la Bilancia dei Pagamenti.

Era comunque inevitabile che dapprima la crisi finanziaria del 2008 e nella stagione più recente, la pandemia e la guerra russa all’Ucraina determinassero dei contraccolpi micidiali sul Bilancio pubblico, arrivato ad un passo dal collasso e ‘salvato’ solo in ragione dalla straordinaria ‘novità’ della decisione della Commissione Europea di varare la strategia del Next Generation EU.

Il fatto rilevante e decisivo da rimarcare, però, è che la gestione di tutte le leve nazionali di politica economica, se si escludono le parentesi straordinarie delle chiamate a Palazzo Chigi dei ‘tecnici’, Mario Monti e Mario Draghi e delle positive performance del Governo Renzi, non hanno modificato strutturalmente i trend negativi del Quadro economico finanziario nazionale.

Il ceto politico che nel suo insieme ha calcato le scene della politica e delle responsabilità si è dimostrato impari alle sfide ed alle responsabilità, che sono state affrontate con scelte-tampone, provvedimenti e narrazioni consolatori ed il ricorso a scaricare sul futuro le scelte del rigore e della responsabilità.

Se ne trova una tragica conferma nella recente pubblicazione di Alberto Brambilla (Il consenso a tutti i costi) che snocciola le cifre sconvolgenti di una voragine che non ha ancora fatto inabissare il paese ma ha già sicuramente affondato la reputazione di gran parte della leadership politica, la cui sopravvivenza è stata letteralmente ‘comprata’ inseguendo il consenso a tutti i costi (appunto), ovvero devastando progressivamente i vincoli della contabilità, e sottoponendo gli equilibri macroeconomici ad uno stress debilitante: un tasso di disoccupazione giovanile e femminile elevatissimo, spesa previdenziale fuori controllo e sganciata dal decadimento demografico, ampi territori meridionali nella deriva del sottosviluppo.

Naturalmente la Pandemia e la guerra non potevano che sospingere i numeri ed i fattori della debolezza strutturale del Paese verso il baratro di 2.762 miliardi di debito a fine 2022 (146 % del Pil) ed il Deficit al 5,1%.

Evaporazione della cultura politica

Ma sottostante alla fenomenologia del declino finanziario va individuata e denunciata soprattutto l’evaporazione della cultura dei doveri, accantonati per far posto ad una generalizzata rivendicazione di diritti in sé legittima e doverosa se perimetrata alle platee di cittadini in una condizione di effettivo e verificato disagio e/o sottoposti ad inaccettabili discriminazioni, ma corrosiva della credibilità e della stabilità dello Stato quando esigiti a prescindere dalle condizioni sociali di effettivo bisogno e dimostrando il totale disinteresse per le compatibilità e la prova dei mezzi per l’accesso alle prestazioni.

Il depauperamento politico-istituzionale si è accompagnato allo svuotamento dei contenitori e dei contenuti del sistema partitico progressivamente surrogato da formazioni e leadership impegnate su una linea di galleggiamento mediatico, in uno spazio pubblico diventato l’arena di una competizione bipolare intesa come rissa permanente per prevalere nell’accaparramento delle risorse pubbliche piuttosto che nell’elaborazione di programmi per crearle, svuotando di senso la visione e la pratica della tutela degli interessi generali della Repubblica.

Il vero punto qualitativo e discriminante dello scontro si è giocato conseguentemente sulle diverse sensibilità e relazioni con l’Unione Europea, diventata riparo e referente affidabile per il Centrosinistra, considerata matrigna ed ostile da parte della Destra (nell’ambito della quale Forza Italia ha tentato di esercitare una funzione di collegamento e mediazione attraverso l’adesione al Partito Popolare).

E’ stato solo merito prevalente dei Rappresentanti dei Governi di Centrosinistra la salvaguardia dell’assetto e la navigazione tra gli scogli delle tempeste finanziarie e delle crisi succedutesi con una scansione temporale terribile: 2008, 2011, 2019, 2022.

Il nuovo compito dei liberaldemocratici

Il compito che spetta oggi al nuovo e Primo Polo Liberaldemocratico che è in gestazione in Italia è innanzitutto di scrutare gli eventi dell’ultimo trentennio e recuperare la memoria storica dell’epoca precedente allo scopo di indagare e focalizzare le ragioni antropologico-culturali della vera e propria rottura di faglia determinatasi tra Prima e Seconda Repubblica.

Nel mondo nuovo della prorompente globalizzazione e rivoluzione tecnologica che hanno trascinato tutte le società occidentali nel gorgo dello sviluppo e del benessere, si è creato una sorta di stordimento che ha provocato l’annebbiamento della capacità interpretativa degli eventi, soppiantata da una esegesi ed un’informazione alle pubbliche opinioni che si sono rivelate ‘facilitanti’, imbonitrici e deresponsabilizzanti, atteso che le forze sprigionatesi nel mercato avevano assunto il comando e la direzione di marcia del futuro e su tale carro dei vincitori della nuova modernità si sono gradatamente seduti interi pezzi di classe dirigente e la quasi totalità delle nuove generazioni di leader politici privi degli strumenti cognitivi per comprendere la reale natura delle fenomenologie che si stavano manifestando.

Senza la consapevolezza della cesura intervenuta negli anni ’90 e del compito che ci spetta in questo preciso momento storico, difficilmente ci renderemo utili alla causa della rinascita italiana ed i nostri concittadini ci riconosceranno e ci daranno il mandato di rappresentare e realizzare una forte discontinuità nella governance del Paese.

Innanzitutto dobbiamo affermare che il nostro è un progetto politico-culturale rivolto a quella parte di essi che desidera e si percepisce come già liberata dagli ideologismi novecenteschi di destra e sinistra onde poter vivere pienamente nel campo aperto delle opportunità di progresso e di crescita umana, individuale e collettiva, che caratterizza le società occidentali libere e democratiche

E questo messaggio deve contenere la ricchezza di un pensiero inedito e fragrante che discende dalle menti più fervide, dai ricercatori più lucidi e rigorosi che si sono interrogati e si sono misurati con le tempeste e le trasformazioni di una modernizzazione portatrice di progresso, ma anche di tensioni laceranti, di contraddizioni esplosive, di slabbrature dolorosissime dei tessuti sociali, dei leganti comunitari, delle reti istituzionali, pressati ed in molti casi travolti dalla velocità e brutalità delle innovazioni introdotte senza freni dagli agenti del liberismo economico e dalla corsa senza regolamentazioni degli investimenti finanziari.

Liberalismo versus illiberalismo

L’Italia sta vivendo una di quelle congiunture storiche nelle quali la risorsa decisiva a cui deve attingere è la fiducia in sé stessa, un sentimento che risulta eroso da un trentennio di decadimento del rapporto tra Cittadini ed Istituzioni, logorato da un mutamento del contesto economico finanziario internazionale, dall’irruzione delle trasformazioni tecnologiche e della rivoluzione digitale, ma soprattutto dalla rarefazione dei valori repubblicani di una classe dirigente progressivamente sottrattasi ai vincoli di fedeltà, generosità e dedizione al Bene Pubblico, con le ricadute inevitabili di indebolimento qualitativo della Rappresentanza politica.

Al Paese oggi serve una radicale inversione di tendenza che può essere generata da un Policy making che derivi dalla cooperazione e condivisione di scelte tra i Soggetti a cui competono funzioni e responsabilità pubbliche e le variegati espressioni associative di una Cittadinanza attiva più responsabile e consapevole che sono e saranno decisioni comportamenti di mutual endorsement, di reciproco riconoscimento e affidabilità tra le parti a costituire la condizione fondamentale per assicurare una nuova reputazione dello Stato.

C’è perciò bisogno di un’autentica rivoluzione dell’etica pubblica e nell’intelligenza di una nuova leadership politica che riesca a coinvolgere l’intero popolo italiano, ma prioritariamente a sollecitare un sussulto repubblicano dell’elettorato di Centrosinistra al quale prospettare un mutamento drastico di prospettiva che costruisca un inedito rapporto tra eticità, economia e politica in grado di valorizzare tutta la potenza trasformatrice di cui oggi disponiamo grazie alle enormi potenzialità delle innovazioni tecnologiche che debbono essere orientate dalla Politica allo sviluppo bene comune.

Ma un tale mood, in grado di provocare una svolta nell’agenda pubblica nazionale può subentrare se diventa forte ed egemone il messaggio culturale del liberalismo democratico.

E qui è necessario chiarire il significato della definizione dove anche lo stesso aggettivo ‘democratico’ sarebbe un termine pleonastico, quasi una tautologia se associato a ‘liberalismo’.

Per ora lo si potrebbe definire “il terzo assente” o meglio ancora “il terzo perennemente assente”, se non fosse che la ‘terzietà’ risulta riduttiva rispetto alla sua dimensione storica. E questo riduttivismo sta probabilmente alla radice di tutti i fallimenti di rappresentarlo.

Ed è paradossale perché il liberalismo democratico da una parte è l’ispiratore di tutte le democrazie moderne e delle loro Carte Costituzionali e dall’altra di tutti i partiti e i movimenti che hanno negli ultimi due secoli provato a proporre forme, anche antitetiche tra loro, di democrazia concreta e reale, a volte fallimentare, altre più riuscite. Dai partiti liberali classici presenti in ogni stato, che si sono autocollocati a destra, fino agli stessi partiti comunisti, passando per tutte le sfumature tra questi due estremi, compresi i partiti d’ispirazione confessionale: tutti hanno avuto una gemmazione nel pensiero liberale nato dall’illuminismo, anche quelli che poi, si pensi ai cattolici e ai comunisti, l’hanno declinato con forme anche illiberali e opposte alla matrice originaria. Alcuni pesantemente illiberali, altri più moderatamente.

Non è sfugge a questo riduttivismo neppure un politologo accorto e smaliziato come Ilvo Diamanti che nei suoi ripetuti interventi su Repubblica ha limitato questa assenza o inesistenza ad un problema del centro politico dell’arco parlamentare; lamentando che in tutte le scadenze elettorali che si ripresentano in Italia (e non solo) esso riceve pochi consensi e pochi voti, sempre inesorabilmente inferiori o molto inferiori al 10%. Se va bene, si potrebbe aggiungere. Un ghetto ininfluente.

Ma le risultanze da ‘piccolo polo minoritario’ che hanno finora connotato i tentativi che sono stati ispirati dalla visione e dall’obiettivo di ‘catturare il Centro’ (da Scelta Civica al recente Terzo Polo) non costituisce un destino cinico, baro e definitivo!

Ciò significa però che riformulare un progetto che parte dalla ri-fondazione del liberalismo democratico la quale presuppone la generazione di un nuovo pensiero politico, ovvero l’ideazione di uno scenario politico in cui si eliminano le posizioni spaziali storiche, quelle che invece Ilvo Diamanti ed i suoi colleghi sondaggiologhi utilizzano con un approccio astrologico che concepisce insistentemente e pedissequamente un ‘centro’ come un segno zodiacale sempre e comunque incastonato nella costellazione sinistra-destra, a prescindere dal fatto che la forsennata mobilità elettorale ed il massiccio astensionismo abbiano sconvolto il ‘firmamento’ politico.

Politologi e giornalisti sono affezionati alle loro categorie interpretative, che hanno indubbiamente un peso storico e che hanno svolto una loro funzione; allo stesso tempo si capisce anche che non sono ancora apparse indagini e mappature che abbiano delineato uno scenario alternativo.

Eppure una rifondazione liberale non può prescindere dal superamento delle categorie storiche, per definire invece altre discriminanti identitarie. Nuove ma che riportano all’origine.

Potrà sembrare semplicistico, ancora più riduttivo, ai limiti dell’elementare, ma è tempo che un discrimine stia semplicemente tra ciò che è liberale e ciò che non lo è.

Per la buona ragione che il termine liberale è denso di contenuti anche nel presente. Contiene infatti: la partecipazione politica attraverso la rappresentanza, tutti i diritti di cittadinanza (tra questi la salute delle persone e dell’ambiente), la laicità, la solidarietà, il progresso e lo sviluppo tecnologico a favore della collettività, la giustizia sociale, il pluralismo culturale e sociale, la libertà d’impresa e di iniziativa se compatibile con gli interessi generali, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’internazionalismo e la mondialità. Ciò che è illiberale lo conosciamo bene, porta con sè opzioni e progetti che sistematicamente contraddicono tutti, uno per uno, quei contenuti. In primis sono illiberali tanto lo statalismo totalizzante nell’economia quanto il liberismo economico che subdolamente confonde le idee con quella radice comune. Può bastare?

Il passaggio del testimone dal Pd al nuovo Partito Liberaldemocratico

Questa ispirazione e questa funzione avrebbero dovuto costituire le coordinate progettuali del Partito Democratico ‘veltroniano’ ed hanno connotato l’esperienza del Pd ‘renziano’, ma le premesse della fondazione ed il turbo riformismo renziano non sono state sufficienti a sottrarre ai gorghi della logica bipolare un partito logorato dalla faziosità della sinistra interna e della destra che ha giocato le proprie carte disfattiste in occasione del referendum istituzionale. Cosicchè nell’ultimo lustro ed in modo definitivo con l’avvento di Elly Schlein alla segreteria nazionale esso è stato spinto ad occupare uno spazio autopercepito di sinistra, ovvero come una espressione parziale rispetto alla mission originaria, operando uno scarto, ovvero un tradimento dello ‘spirito del Lingotto’ ed un’archiviazione del quinquennio 2013/2017 giudicato come una deviazione dalla traiettoria di sinistra, ora ripristinata simbolicamente ed anche organizzativamente con il ritorno a casa degli scissionisti di Articolo 1, cioè proprio quelli che avevano combattuto i presunti cedimenti renziani al liberalismo.

Ora, però, con il rilancio del Polo liberaldemocratico, è tutta un’altra musica che deve entrare nel nuovo s-Partito! I limiti e le contraddizioni presenti nel programma fondativo del Pd nel 2007 e forzatamente in quello del Governo Renzi, debbono essere superati attraverso una espansione creativa del progetto politico-culturale.

Le analisi, gli studi & ricerche e la riflessione di Think tank, filosofi, antropologi, economisti e tecnologi, a cui attingere, ci possono donare una conoscenza profonda, sistematica che ci consenta di mettere a punto la piattaforma di idee e proposte per inverare la versione contemporanea del liberalismo democratico, focalizzato su tutte le maggiori sfide che attendono alla prova la nostra leadership e la nostra visione di futuro.

Esiste però un baratro enorme da superare, ovvero il vuoto che si è creato con la scissione tra cultura, società e politica ed ha atrofizzato la capacità di generare identità, punti di riferimento robusti e duraturi (la fenomenologia dell’astensionismo ne è solo una clamorosa conferma).

Dobbiamo sapere che il successo la nostra Proposta si raggiunge con la partecipazione di soggetti collettivi e contestualmente il protagonismo di elite (intellettuali, pezzi di classe dirigente) focalizzati sulla elaborazione di punti di vista e di programmi da introdurre e promuovere nel dibattito pubblico.

Andare oltre il shortermismo ed il leaderismo solitario

Segnaliamo con forza questa esigenza perché significa andare oltre la stagione di leader solitari con cui i Partiti, piccoli e grandi, in questi ultimi lustri hanno ottenuto il riconoscimento di ‘vittorie di opinione’, un accreditamento elettorale importante ma temporaneo e passeggero, un consenso rivelatosi fragile e del tutto insufficiente per ingaggiare la battaglia del cambiamento reale e duraturo.

L’opinionismo ed il presentismo, accanto al Covid-19, sono stati virus letali per la nostra democrazia, ed hanno prodotto un’agenda pubblica dominata dall’ossessione di annunciare e comunicare obiettivi roboanti piuttosto che perseguire passo, con ostinazione ed il metodo dell’implementazione, i risultati.

Una tale distorsione dell’agire politico è stata determinata da tre vettori micidiali per potenza ed insidia:

  1. lo spiazzamento di un intero ceto subentrato nelle stanze del potere spintovi sull’onda di un’iniziativa ai limiti dell’eversione della Magistratura e non per propri meriti, carismi, visioni e culture in grado di generare un’autentica discontinuità rispetto alla Prima Repubblica sorta nel secondo dopoguerra.
  2. Il disorientamento di tutte le Rappresentanze politiche ed associative di fronte allo sconvolgimento degli assetti economico economico-finanziari globali, con uno spostamento del baricentro geopolitico nel Continente e l’Unione Europea diventata la regolatrice dei fattori decisivi dello sviluppo: concorrenza, moneta e stabilità dei Bilanci pubblici.
  1. Irruzione di un flusso di informazione e comunicazione politica così potente ed inedito sia per la tipologia di tecnologie e media che lo supporta che per le competenze professionali e le abilità necessarie per usarle con successo di pubblico, di acquisizione di reputazione e di conquista del consenso elettorale.

Dalla ‘discesa in campo’ di un tycoon proprietario di un impero televisivo ed editoriale con cui è stato letteralmente ‘inventato’ e successivamente presidiato il campo di Centrodestra con abilità e spregiudicatezza nella gestione del sondaggismo e dell’opinionismo, alla successione di leader che, nel campo opposto di Centrosinistra e nell’ultimo lustro nell’ambito dello stesso Centrodestra, sono emersi con ruoli ai vertici di Partito e/o di Governo, sono risultati determinanti il modello di comunicazione e lo stile della narrazione e dello storytelling adottati e veicolati nel mare mosso di un elettorato liberatosi dalle catene delle appartenenze ideologiche e delle fedeltà stabili e determinato ad operare valutazioni e scelte da cittadini-follower mobili, anzi come si dice ora fluidi!

Un trentennio pieno di opinioni e privo di pensiero

Il risultato di una tale inedita fenomenologia sul terreno politologico è che, senza voler esprimere il giudizio su “una notte in cui tutte le vacche erano nere” e tantomeno infierire sui ‘reduci’ più o meno brillanti di un periodo storico, nell’ultimo trentennio si è esercitata e ‘consumata’ una classe dirigente espressa da “un mondo di opinione, non di pensiero né di vero dialogo”.

E’ un ragionamento difficile da accettare per quanti sono immersi ancora nel tempo che il filosofo Mario Perniola – in un aureo libretto – ha indagato e definito ‘Miracoli e traumi della comunicazione’, ovvero caratterizzato “dall’incessante vociare di una comunicazione schiacciata su un presente senza senso storico (che) sembra non lasciare alcuna traccia di conoscenza per il futuro”.

Senza inerpicarsi sull’impervio terreno storiografico, la tesi di Perniola non appare solo seducente, ma anche di immediata comprensione perché sostiene che il grado di conoscenza della realtà contemporanea risulta sfuggente e ciò rappresenta la concausa determinante di un’azione e di una rappresentazione della politics che si sono progressivamente manifestate attraverso i messaggeri di una comunicazione canalizzata e potenziata dai nuovi media ed eventi più o meno traumatici, difficilmente decifrabili ed al più catalogati come ‘cigni neri’ (dall’attacco alle Torri gemelle, alla pandemia da Covid 19, dalla crisi di Lehman Brothers all’aggressione russa all’Ucraina, dalla disoccupazione ‘tecnologica’ al fenomeno epocale dell’emigrazione).

Si tratta di una considerazione che può sembrare sbrigativa e riduttiva, ma è correlata ad una seconda: in uno scenario così caratterizzato il modello organizzativo con cui strutturare un nuovo Soggetto partitico deve costituire un’innovazione profonda o, per usare un aggettivo retorico, radicale, in grado sia di estrarre ispirazione dal passato che di operare una discontinuità ‘quantica’ rispetto al presente.

E ciò significa coniugare-ottimizzare tutte le esperienze più virtuose ed efficaci, a prescindere dal soggetto politico o dalla leadership che se ne sono giovati, manifestatesi nel corso della storia repubblicana, naturalmente compresa la più recente stagione in cui si è appalesata in modo traumatico e travolgente la rivoluzione digitale con l’innovazione di un progetto di comunicazione nel quale diventano centrali da un lato la content curation, con il coinvolgimento di un amplissimo network dei portatori di conoscenze competenze, valori, dall’altro l’e-democracy e l’e-participation intese come pratiche permanenti e diffuse di una cittadinanza attiva che eviti qualsiasi deriva elitaria, minoritaria, autoreferenziale nella costruzione di un Partito Liberaldemocratico finalmente immerso e promosso nel popolo dei cittadini che desiderano scendere dagli spalti dell’astensione, dell’osservazione, della delusione.

Costruire il Partito Liberaldemocratico del nostro tempo oltre le nostalgie passatiste

Il rammarico per il fatto che non ci siano più i partiti di una volta è tanto ripetuto da essere diventato inutile se non controproducente.

Si sente ripetere: “i partiti dovrebbero essere comunità di persone tenute insieme da una visione mentre oggi contano solo i leader con le loro corti”.

E questo, per molti, deriva dal fatto che i partiti non sono più costruiti attorno a una “visione del mondo” forte. Ma dato che senza visioni non si possono avanzare proposte il punto è allora la natura di quelle visioni. Non sono le visioni del mondo che mancano, mancano visioni efficaci perché manca una valida chiave di lettura di quello che è diventata la nostra società.

Ripartiamo dalle caratteristiche di quelle visioni del mondo che hanno dato vita ai partiti di massa del 900? Erano “pensieri assoluti”, motivanti, spingevano migliaia di persone a dedicare una parte importante delle proprie energie alla ‘causa’. A volte persino a sacrificare la vita, propria o altrui. Erano visioni del mondo antagoniste e totalizzanti. O radicalmente contrarie allo stato di cose presente o altrettanto radicalmente favorevoli alla sua difesa. Tutte reagivano a uno dei più grandi cambiamenti della storia umana: l’avvento della società industriale di massa. Si pensava che fosse in gioco qualcosa di molto importante, di decisivo, e che si dovesse e si potesse cambiare. E che quel qualcosa potesse fare davvero la differenza.

Ma ci sono oggi le condizioni per far nascere o rinascere quel tipo di partiti? Le grandi sfide inedite del nostro tempo, seppure enormi, sono paragonabili a quel passaggio d’epoca tra fine dell’800 e inizio 900? Dove sono le persone e le teorie (i pensatori) capaci di ridefinire quel tipo di “visioni del mondo”? In grado di ricostruire quel senso che motiva migliaia di persone? E ci sono ‘masse’ che possano far rivivere quei partiti? La crescente complessità delle società contemporanee sembra escludere ogni ipotesi bianco/nero, dominano le sfumature, le interconnessioni, le interdipendenze.

Forse, allora, è preferibile accettare e adattarsi al fatto che le condizioni storiche per la formazione di identità basate su quei grandi pensieri e pensatori oggi, almeno in Europa, non ci sono più. E alla luce delle tragedie del 900 possiamo anche dire per fortuna.

Invece di rimpiangere partiti visioni del mondo assolute e totalizzanti è quindi meglio proporsi di far vivere partiti che svolgano una funzione che può apparire minore ma minore non è: far funzionare le istituzioni della democrazia rappresentativa conquistate al prezzo delle tragedie del 900. Se proposto con autenticità e convinzione, creare e far vivere strumenti capaci di contribuire a rendere più efficace la democrazia può diventare anche un tratto distintivo forte, capace di motivare ad agire, sviluppare senso di appartenenza. Soprattutto se si condivide il fatto che quello attuale è il momento più critico che le società democratiche stanno vivendo dopo la fine della II guerra mondiale sotto l’incalzare delle autocrazie e del nuovo assetto geopolitico determinato dalla globalizzazione.

Un nuova visione strategica

Qualsiasi ipotesi di costruzione del Partito LiberalDemocratico, inteso come baricentro di un ampio e plurale schieramento progressista, deve dunque misurarsi con un sussulto ideale ed organizzativo all’altezza delle sfide di carattere antropologico-culturale che attraversano l’intero arco delle nazioni che hanno storicamente inverato la civiltà occidentale e che si manifestano nella progressiva rarefazione dei legami sociali comunitari e dei sentimenti dell’amicizia e dell’altruismo, ovvero nello smottamento di principi e valori ben più precedente e rilevante del cosiddetto ‘cedimento’ della strategia della Terza Via “all’egemonia del neoliberismo”, così come dei limiti e delle incertezze che hanno connotato i pur storicamente positivi tentativi di costruire in Italia un Progetto liberaldemocratico e progressista con l’Ulivo, successivamente con il Pd e nell’ultimo lustro con le iniziative ‘pionieristiche’ di Italia Viva, Azione, +Europa e con la vasta articolazione di Gruppi, Progetti, e Candidature espressione del Civismo, delle subculture politiche Popolari.

E’ necessario prioritariamente prendere atto dell’indebolimento strutturale delle Democrazie in tutto il Mondo, determinato da una molteplicità di fenomenologie che sono state previste e/o abbondantemente ‘diagnosticate’ da parte di autori ed intellettuali che, però, sono stati snobbati o ritenuti dei pessimisti poco credibili.

Luigi Zoja, psicoanalista e sociologo, parla per esempio di un’ondata globale di risentimento che sta investendo l’Occidente intero e ci avverte che si tratta di una metamorfosi che viene dal profondo ed è un errore pensare che durerà poco, perché si manifesta come “una modalità di reazione dell’inconscio collettivo, una volta che un’intollerabile quantità di frustrazione sia stata accumulata”. E di fronte ad un tale sommovimento risultano davvero velleitari, patetici e disorientati gli esponenti autodichiarantisi custodi della sinistra che continuano ad affrontare le insoddisfazioni e le sofferenze dei cittadini “con gli antichi attrezzi economici e legali, rimanendo alla superficie razionale, senza tuffarsi nella profondità emozionale del problema”.

Eppure le avvisaglie di un tale ‘cataclisma sentimentale’ erano ben presenti nelle analisi critiche dell’individualismo post-sessantottino di un illuminato ed illuminante sociologo americano, Christopher Lasch, i cui libri – in particolare La cultura del narcisismo e L’io minimo – andrebbero riletti e meditati proprio a sinistra per comprendere lo spiazzamento subito negli ultimi decenni.

Così come andrebbe compresa la valenza ‘terapeutica’, oltre che teologica, di un’enciclica come Fratelli tutti di Papa Francesco in un tempo caratterizzato, come ci segnalano i sondaggi, dalla ‘recessione’ dei rapporti tra uomini e dall’urgenza di riprendere a coltivare la ‘fratellanza’ intesa come risorsa vitale, anche per fronteggiare quella che l’ultimo Rapporto sociale di casa nostra, del Censis, viene registrata come la diffusione della malinconia e di una malattia chiamata solitudine.

Abbiamo ben presenti che una delle radici strutturali del disagio ridiede a livello profondo nei meccanismi economici che generano ingiustizia sociale ed a livello più superficiale e contemporaneo la proliferazione delle tecnologie e dei social media che attraverso l’ ‘autocomunicazione di massa’ generano l’illusione individualistica di ‘poter contare’ che invalida e sterilizza i processi di umanizzazione comunitaria.

Il mondo parallelo del web ed ora il Metaverso sono stati creati e promossi per stimolare una sorta di autoerotismo che cerca un pubblico di osservatori, ma evita accuratamente di avviare una reale interazione comunicativa e sentimentale, con l’effetto di trascinare tutti sui social, circondati da migliaia di persone e, per molti aspetti, completamente soli, risucchiati in un perverso circolo vizioso, come già nel 2011 Sherry Turkle aveva documentato in un testo inequivocabile, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri .

Le ragioni per una leadership ed un pensiero inediti

La breve digressione sul terreno delle ‘sofferenze’ e del ‘narcisismo’ patologico che caratterizzano il nostro tempo ci aiuta ad evidenziare che il ‘combattimento’ politico con le difficoltà e le sfide della contemporaneità malmostosa, può essere affrontato dalla discesa in campo aperto di leadership, strutture e pensieri inediti per la carica propulsiva di cui debbono essere portatori, ed allo stato attuale esistono molti cantieri, ma non si non si è ancora appalesato un progetto compiuto!

Anzi assistiamo al permanere della propensione di ripercorrere la strada a ritroso ed il rischio della regressione emersa con il Congresso del Partito Democratico che, per voce ed intendimento dei vincitori, si propone di azzerare il faticoso avanzamento sul terreno del riformismo avviato nella stagione renziana ed occultare i contenuti programmatici emersi con l’inatteso e prodigioso sussulto della governance realizzata con la Presidenza di Mario Draghi.

Andando al sodo della questione: in questa congiuntura una forza politica che si voglia proporre come un soggetto utile e determinante per il futuro del Paese, deve scrutare, verificare ed aggiornare le ragioni, i valori fondativi ed i programmi di governo che hanno connotato la transizione delle Forze del Centrosinistra negli ultimi 15 anni, dalla fondazione del Pd alla costituzione di Italia Viva ed Azione, ridando ad essi un senso più compiuto ed arricchito dalla comprensione critica dei successi elettorali che ne hanno accompagnato l’esistenza ed anche le cause delle difficoltà incontrate e delle dissonanze cognitive nella loro interpretazione che hanno provocato l’implosione, le sconfitte elettorali e la nascita di nuovi soggetti politici.

Adottando questo approccio, va colta senza indugi la raccomandazione di Michele Salvati e Norberto Dilmore, nel loro articolo sull’ultimo numero de il Mulino, che seppur espressa nell’ambito del dibattito congressuale con l’intendo di “salvare il Pd da se stesso”, può essere rivolta anche a tutti coloro che sono attualmente impegnati nella gestazione di un nuovo progetto-partito “Perché le scorciatoie identitarie possono allontanare i democratici dal loro grande elettorato potenziale”. Il monito che essi rivolgevano ai candidati alle Primarie (e che, verosimilmente non è stato accolto) era inappuntabile ed ha una valenza generale ed attuale (anche per noi):

Scorciatoie identitarie di altro tipo possono forse pagare nel breve periodo, ma difficilmente possono tradursi nella creazione di un blocco elettorale vincente. Per fronteggiare un governo di destra-centro incapace di rimettere il paese sui binari di una crescita stabile, sostenibile e inclusiva, la via da seguire è mostrare che un tale modello di crescita è possibile anche in Italia e che c’è una forza politica determinata a perseguirlo con proposte concrete. Ma questa forza deve anche essere finalmente capace di risolvere i suoi dannosi conflitti interni e presentarsi con un/una leader e un programma di riforme adeguato alla gravità della situazione economica e sociale del nostro paese”.

Vanno quindi create le condizioni per procedere nell’elaborazione di una piattaforma programmatica, alla condensazione di un nuovo gruppo dirigente che sia espressione della vitalità espressa nelle esperienze amministrative ed istituzionali, delle intelligenze e competenze politiche addestrate nei territori e nei think tank, ed inoltre:

a) alla ritessitura delle alleanze con le rappresentanze sociali coadiuvate a rivitalizzare i Soggetti Intermedi che operano dentro la ‘pancia del Paese’;

b) alla ripresa di un confronto metodologico sistematico con le rappresentanze partitiche che sono sorte in conseguenza della diaspora dei democratici.

Ciò significa intraprendere un cammino di immersione nella temperie del presente, sorretti dalla volontà e capacità di misurarsi con le onde lunghe del processo storico, di scrutare la molteplicità delle fenomenologie sociali, i loro intrecci e contraddizioni, di candidarsi ad interpretare il ruolo e le responsabilità di un ‘governo ombra’ con cui risintonizzare il Centrosinistra con le domande profonde del Paese, finora inevase perché i Partiti, tutti i partiti, hanno perseguito (e consumato) il consenso elettorale con il placebo della propaganda ed il perseguimento di risultati immediati, seppur effimeri.

Ma ora è necessario accelerare i tempi di costituzione del nuovo Soggetto unitario

Non è difficile dedurre, da quanto finora scritto, che è indispensabile dare un nuovo impulso al processo di costituzione di un partito alternativo alla destra meloniana e competitivo con e formazioni populiste.

Risulta altrettanto chiaro che la mobilitazione cognitiva e politico-culturale proposta con questo manifesto non è generata esclusivamente dal, seppur decisivo, orientamento di fondere Azione e Italia Viva in un ‘partito unico’, bensì essa è suscitata dalla volontà diffusa di andare oltre gli steccati inevitabilmente angusti di queste due giovani e meritorie forze politiche, ma soprattutto dalla convinzione che esiste un’enorme domanda politica inevasa che tracima le ragioni della loro stessa genesi, ascrivibili, in entrambi i casi, a quella che abbiamo indentificato come l’implosione del Partito democratico provocata dalla atrofizzazione del suo progetto originario.

Il passaggio cruciale, che abbiamo definito ‘discontinuità’ è hic et nunc il superamento della fase in cui il dibattito interno al Centrosinistra era innescato da dichiarazioni generiche e finanche dichiarate convinzioni che l’orizzonte strategico fosse costituito una sinistra riformista, magari liberal-socialista.

Un’ipotesi in sé generosa e persino ragionevole, ma viziata da una visione retrodatata, ovvero dalla sottovalutazione che nel contesto profondamento mutato del quadro politico in cui ha fatto irruzione una Destra che ha fagocitato gran parte di Forza Italia ed egemonizzato la Lega, il M5s ha stabilizzato la sua connotazione demagogico-populista ed il Partito Democratico ha sterzato verso una collocazione ‘corbyniana’, all’Italia serve invece un partito nuovo, ripensato nei suoi fondamenti, nel suo programma, nella sua visione strategica.

Sotto il profilo più propriamente politico-culturale ed organizzativo ciò significa predisporre e promuovere una forza che, a partire dall’integrazione d Azione e Italia Viva, proponga un nuovo posizionamento, una nuova narrazione, un nuovo scenario, un nuovo linguaggio, un nuovo modello operativo e gestionale ed infine, last but not least, l’irruzione e l’affermazione di una nuova generazione di volti, di testimonial, di leader.

E’ giusto ricordare a questo punto che una tale prospettiva ha già trovato il ‘patrocinio’ di Luigi Marattin nelle parole che ha usato in una sua recente intervista: Oltre il bipopulismo. Il Partito Liberaldemocratico si può fare subito, ma bisogna crederci (e scrivere il manifesto): «Non ci dobbiamo riunire in una stanza in quattro: penso a un percorso che coinvolga intellettuali, artisti, professionisti, storici, politologi, rappresentanti delle categorie sociali. Chiunque sia interessato a costruire una visione di società»

Risulta quindi ancor più chiaro che ci si deve cimentare non solo e non tanto nell’elaborazione politica di un progetto di fusione o, come è apparso nella comunicazione più recente, in particolare in occasione delle elezioni regionali, che si sta pensando “ad un nuovo partitino di quelli competenti e con i candidati giusti”.

Ci è richiesto di sintonizzarci con le domande ed i bisogni, anzi i sogni pre-politici che hanno a che fare con i sentimenti ed il desiderio di cambiare la propria condizione sociale di sofferenza e/o di attese deluse, di coltivare una visione universale del mondo e dei nuovi diritti, di entrare in comunicazione con i cittadini attraverso l’ascolto e l’interazione da cui possono, meglio debbono scaturire le scelte, i candidati e le soluzioni che sono supportate dalla competenza in quanto più credibili ed efficaci per cogliere gli obiettivi ritenuti giusti, affascinanti.

La discussione sul modello di partito

Dobbiamo partire dal presupposto condiviso che siamo entrati in un’epoca nuova e che è con il mutamento da essa annunciato che dobbiamo misurarci. Non solo, dobbiamo convincerci che nessuno dei problemi che abbiamo di fronte potrà essere risolto con paradigmi valutativo e protocolli operativi già collaudati.

Proprio queste due premesse legittimano e rendono credibile l’ipotesi di un partito public company, che tempera il meccanismo di cooptazione oligarchica (inevitabile ma dominante nei partiti tradizionali) con il coinvolgimento degli elettori.

Ciò significa superare, o meglio, destinare agli archivi di storia le concezioni di organizzazioni politiche che si ‘partiscono’ dalla società (per i comunisti addirittura il partito si faceva Stato, era l’embrione della società futura, dell’uomo nuovo, non a caso si viveva come chiesa) e si sviluppano parallelamente alle istituzioni della rappresentanza indebolendo la legittimazione democratica che sono gli elettori e non gli iscritti, e con ciò negando l’autonomia degli eletti.

Ed inoltre comporta che la scansione dei tempi di vita del partito dovrebbe essere sintonizzata con quella della vita delle istituzioni della rappresentanza (elezioni).

Il partito contemporaneo deve diventare protagonista e viversi come una componente del processo democratico quindi responsabile della selezione di candidati e del policy making.

Attribuirsi il compito di (ed accettarsi come il) grande Organizzatore del ‘torneo della democrazia’, appunto attraverso il coinvolgimento degli elettori nella selezione di politiche e candidati.

In questa riconfigurazione della mission e delle funzioni operative entrano in gioco i community manager distinti dai candidati e dagli eletti (innovazione organizzativo-gestionale di cui si possono trovare indicazioni e modelli nelle Associazioni imprenditoriali dove esistono i manager della organizzazione distinti dagli imprenditori che ricoprono cariche elettive).

Sotto questo profilo, il punto di contatto tra i due cerchi dell’organizzazione diventa il nodo critico più importante da ri-pensare metabolizzando la cultura delle organizzazioni manageriali, cosicchè la pratica delle primarie assume un senso logico e coerente se attuata prima del voto.

Si pone quindi la grande opportunità di dinamicizzare la vita democratica del Partito realizzando tra una scadenza elettorale e l’altra si organizza il confronto programmatico sulle scelte politiche attraverso Conferenze tematiche o annuali del tipo di quelle che fa il Labour in UK.

Una tale struttura della partecipazione ai e della responsabilizzazione dei processi decisionali renderebbe efficiente ed efficace l’intero sistema della governance del Partito, attribuendo agli iscritti il ruolo qualificante di orgnizzatori del ‘torneo della democrazia’ oltre che di promotori della mobilitazione cognitiva, ed agli elettori il coinvolgimento nella scelta dei leader e dei candidati allo scopo di rafforzare il rapporto fiduciario tra rappresentati e rappresentati che, non casualmente, costituisce attualmente il buco nero non solo dei partiti ma di gran parte degli assetti democratici dei Paesi occidentali.

Alcune coordinate per l’innovazione cultural-organizzativa ed il radicamento sociale

Quelle che seguono sonno alcune lineee direttrici di un lavoro di lunga lena per radicare il nuovo soggetto politico nelle realtà sociali e territoriali che testimoniano e sono protagoniste della ‘rivoluzione civile’ che ha caldeggiato e sostenuto l’Agenda Draghi.

  1. Nuovo posizionamento

Nell’Italia della Prima Repubblica le tre principali famiglie politiche europee: socialdemocratici, popolari e liberali non hanno compiutamente espresso la loro progettualità, condizionata dalla necessitata contrapposizione difensiva nei confronti della presenza del tutto anomala di un Partito Comunista forte e competitivo, cosicchè la diga anti-comunista che ha di fatto impedito la formazione compiuta di un’area popolare e riformista.

In questo quadro, lo spazio per un’area liberale è stato drammaticamente compresso. E oggi? Pensiamo che sia finalmente venuto il momento? Chi ci siano finalmente le condizioni? Chi lo pensa è certamente mosso da un nobile intento, ma non tiene conto del fatto che il mondo nel frattempo è radicalmente cambiato e che i nuovi paradigmi richiedono nuove categorie politiche.

Oggi, in tutto il mondo libero, il confronto è fra una proposta neo-populista, all’interno della quale si consuma la contraddizione destra/sinistra, e una proposta alternativa ancora incompiuta, che vede nell’esperienza francese di Macron il punto più avanzato, proposta alternativa che, al pari di quella neo-populista, non può che porsi trasversalmente rispetto allo schema destra/sinistra. In sostanza, non c’è bisogno di un Terzo Polo, c’è semmai bisogno di un’area che sappia porsi come il secondo polo, il polo alternativo al bipopulismo: l’altro polo.

  1. Nuova narrazione

L’elaborazione della narrazione di un inedito Polo Liberaldemocratico e Riformista, presuppone la consapevolezza di come la proposta neo-populista affondi le sue radici nella cultura politica della destra sociale, ma anche (e soprattutto) nella cultura politica della sinistra ribellista, cultura di gran lunga dominante nella sinistra, quantomeno in Italia. La nuova narrazione politico-culturale deve quindi distinguersi rispetto a ciò che destra sociale e sinistra ribellista hanno in comune: la cultura del nemico. Nemici di classe, nemici del popolo, nemici degli italiani, nemici dei cittadini. Basta, la nuova narrazione dev’essere una narrazione-per, non una narrazione-contro, una narrazione positiva, fondata su una concezione ottimistica della natura umana, sulla fiducia nelle possibilità degli individui, sulla fiducia nel naturale progresso dell’umanità. E’ paradossale, ma comprensibile che un tale approccio sia illustrato e sostenuto nel prezioso libello di Aldo Schiavone, nel quale l’autore analizza le opportunità straordinarie di un nuovo umanesimo cosmopolita reso possibile dall’uso delle innovazioni tecnologiche orientate e finalizzate al bene comune universale: “L’Occidente, e con esso il mondo intero, è innanzi a una rivoluzione che non ha precedenti. Siamo di fronte allo stato nascente di una nuova civiltà: la prima civiltà globale della storia; l’epoca dell’unificazione planetaria dei destini della specie” (Sinistra!).

Peccato che tale messaggio sia rivolto ad una Sinistra che “avrebbe perso la sua anima, che per così dire avrebbe compromesso con il demone del potere. (ma) Non è così. E’ la testa che ha perduto, innanzitutto il Pd; o probabilmente non l’ha mai davvero avuta. Il cervello, assai prima del cuore” (sic!)

  1. Nuova visione

A quale mondo stiamo andando incontro? Che società vogliamo costruire? Come ci immaginiamo nel mondo di domani? Quale sceneggiatura vogliamo dare al film del nostro futuro? L’elaborazione della visione consiste in convincenti e attraenti risposte a queste domande. L’atteggiamento più efficace per elaborare una visione di futuro, non è quello di chi parte dal giudizio negativo del presente, è quello di chi, per dirla con Italo Calvino, sa «scovare il bello e dargli spazio». I giudizi da boomer su quanto i giovani stiano sui social, espressi sui social stessi, sono, ad esempio, il peggior viatico dell’atteggiamento più funzionale all’elaborazione della visione. E’ necessario scovare il bello e dargli spazio.

  1. Nuovo linguaggio

L’elaborazione politica del Polo Liberaldemocratico presuppone anche la ricerca di nuove parole, la proposta di un nuovo linguaggio coerente coi paradigmi dell’epoca 4.0. Potrebbe apparire come una questione di maquillage quando invece si tratta di una questione assolutamente cruciale.

  1. Nuova forma organizzativa

I partiti vivono una dimensione nazionale e una locale, ed entrambe le dimensioni concorrono al successo del partito. La distinzione fra queste due dimensioni genera normalmente un tragico equivoco: si ritiene che l’elaborazione politica appartenga esclusivamente alla dimensione nazionale e a quella locale sia demandato il compito della diffusione sui territori.

Insomma, noi che stiamo a Roma (o a Firenze) decidiamo la linea politica, gli altri fanno i banchetti. Questa logica non premia capacità e attitudini, capacità e attitudini inevitabilmente diffuse e quindi ovviamente presenti anche a livello locale, ma frustrate, represse, inascoltate, così sui “territori” finiscono per operare solo i peraltro encomiabili volantinatori.

Per una forza nuova, bisognosa di contributi diffusi e energie molteplici, questa sarebbe una trappola mortale: occorre creare un flusso continuo fra centro e periferia, che non sia solo un flusso informativo, ma soprattutto elaborativo. La tecnologia aiuta, bisogna definire e distinguere gli spazi del confronto, da quelli della decisione e dell’execution, valorizzando però le capacità ovunque si trovino, mossi dall’intento di diffondere la leadership.

C’è poi un’altra questione. Quanto deve essere democratico il partito del Terzo Polo? Secondo una certa retorica, più democrazia c’è e meglio è. Io non penso che sia così. Le aziende, ad esempio, non sono certo organizzazioni democratiche, ma non credo che funzionerebbero meglio se i ruoli fossero decisi in assemblea. Bisogna trovare un punto di equilibrio fra rappresentanza ed efficienza. Non è facile, ma è cruciale. Occorre essere consapevoli delle due possibili derive: la deriva dei modelli ultra-democraticisti è la campagna elettorale interna permanente; la deriva dei modelli efficientisti è il familismo determinato dalla nomina degli amici e dei fedeli. In entrambi i casi, si tratta di un disastro. Occorre garantire livelli sostenibili di rappresentanza e criteri e processi trasparenti di nomina. Un vecchio carosello diceva «sembra facile, ma non è». Sì, sembra facile, ma non è.

  1. Nuovi volti

Un po’ tutti dicono che la leadership del nuovo partito dev’essere, com’è di moda dire, contendibile. Bene, quindi vedremo chi se la contenderà. Qualche riflessione però si può già fare e la mia è la seguente: un partito nuovo, così tanto nuovo come ho cercato di argomentare ai punti precedenti, è bene che possa contare su una leadership nuova.

Credo che il partito nuovo dell’altro polo, il partito del polo alternativo a quello bipopulista, debba essere guidato da una figura diversa dagli attuali leader di Azione e Italia Viva. Matteo Renzi e Carlo Calenda, grazie alla loro iniziativa politica, rendono oggi forse possibile la nascita di un’autentica alternativa al bipopulismo e di ciò bisogna e bisognerà dargliene atto e rendergli merito con tutti gli onori del caso.

Nessuno dei due, per ragioni molto diverse fra loro, è però davvero funzionale a questo tipo di progetto. Non ha senso allo stato attuale fare altri nomi, bisogna però fin da subito aprire la partita senza nascondersi dietro la litania falsa e retorica del «prima i contenuti, la leadership viene dopo». No, elaborazione politica e definizione della leadership sono processi fortemente interconnessi. Si apra la partita.

https://www.linkiesta.it/2023/02/liberal-democratici-riformisti-azione-italia-viva-calenda-renzi-partito-unico/

I principi fondanti (statutari) del nuovo Partito

1.

Un partito pluralista partito pluralista (federale e multilivello), un partito orgogliosamente plurale, forte della convivenza di visioni convergenti sui programmi ma anche diverse, non può che avere ruoli interni e cariche contendibili.

2.

La cosiddetta linea politica dovrebbe essere determinata dalle scelte sulle politiche non dai cosiddetti valori, le scelte di politiche pubbliche implicano i “valori” o i principi di riferimento culturale, li mettono a terra, li implementano, li trasformano in comportamenti pratici verificabili.

3.

Il baricentro politico del partito è in parlamento, nelle assemblee elettive legittimate dal voto popolare. Va riconosciuto al coordinatore delle attività in parlamento (nelle assemblee elettive) il ruolo di leader politico.

4.

Va realizzata una differenziazione tecnico funzionale dei ruoli tra responsabili della conduzione del partito (che potrebbero essere dipendenti stipendiati dall’organizzazione) e leader politico.

5.

I tempi di vita del partito dovrebbero corrispondere a quelli delle elezioni politiche.

6.

L’organizzazione ha due momenti essenziali: la scelta del candidato di punta (le cosiddette primarie) e le conferenze annuali. Solo in vista delle elezioni si organizza con il coinvolgimento degli elettori la scelta del candidato di punta che sarà il leader dei gruppi parlamentari che mantengono la loro piena autonomia lungo tutto il mandato.

7.

Anche i parlamentari dovrebbero essere scelti o confermati con il coinvolgimento degli elettori.

8.

La conferenza annuale è il fulcro dell’attività continuativa del partito sul terreno, si discutono anche i punti qualificanti della stagione politica in corso. Una precisa regolamentazione delle procedure di convocazione e realizzazione (tempi e modi) della conferenza annuale metterebbe in evidenza i diritti degli iscritti e delle organizzazioni “affiliate” nell’avanzare proposte di ordini del giorno o mozioni. Queste riflessioni potrebbero essere approfondite da una feconda attività di convegni e seminari da svolgere con i principali centri di ricerca, accademici e non,

9.

Differenziazione tecnico funzionale dei ruoli di responsabile dell’organizzazione di partito e leader dei gruppi in parlamento significa separazione del ruolo di manager organizzativi e gruppi eletti. Per evitare conflitti di interesse e che i manager organizzativi, che potrebbero essere dipendenti stipendiati dall’organizzazione, agiscano in funzione della propria elezione lo statuto dovrebbe prevedere che questi non possano essere candidati se sono ancora in carica o se non sono passati un certo numero di anni dalla carica ricoperta.

10.

L’organizzazione sul terreno svolge tre funzioni principali che vanno specificate in documenti di indirizzo dagli organismi dirigenti

a. interazione dei cittadini con i processi di scelta delle politiche (conferenza tematica annuale dove possono essere avanzate proposte “popolari”),

b. sostegno e verifica dell’operato degli eletti,

c. consultazioni degli elettori per la scelta dei candidati (quelle che ormai vengono definite primarie). E qui si pone la questione di un eventuale registro degli elettori come condizione per la partecipazione alle consultazioni.

11.

Gli iscritti hanno il ruolo essenziale di contribuire alla selezione dei leader e delle scelte programmatiche: gli iscritti sono gli organizzatori del “torneo della democrazia”.

12.

Va prevista e chiarita la condizione di stato d’eccezione che si può determinare a seguito di una crisi della leadership politica indotta da sconfitte elettorali o altri esiti di conflitti politici. Tra eletti (gruppi parlamentari) e organizzazione sul territorio si sviluppa una collaborazione che può anche essere in alcuni momenti conflittuale: un’interazione che chiude definitivamente ogni idea top down, ogni idea che il compito della organizzazione possa essere il retweet, ogni nuova declinazione della vecchia cinghia di trasmissione o del centralismo burocratico più che democratico.

La necessità di mappare il mercato elettorale

In coerenza con la riflessione politico-culturale complessiva finora esposta ed il modello di partecipazione democratica indicato, diventa fondamentale procedere ad analizzare se esiste un elettorale al quale il manifesto può essere indirizzato e conseguentemente il progetto di comunicazione e di avvicinamento che deve essere messo in campo.

Bisogna cioè fare i conti da un lato con la geografia degli orientamenti culturali, sociali e politici degli italiani, dall’altro con la mutazione radicale dei linguaggi, degli strumenti e delle modalità di informazione intervenuta nel sistema dei media e del rapporto dei cittadini-elettori con gli stessi.

Sulla prima questione riteniamo utile partire dalle considerazioni di Ilvo Diamanti formulate in un articolo che affronta in modo specifico l’interrogativo sulle prospettive del Terzo Polo

IL MIRAGGIO DEL CENTRO I PARTITI LO CERCANO MA I VOTI SONO ALTROVE

[La Repubblica, 19 ottobre 2020]

I partiti sono alla ricerca di identità. E di spazio politico. Tanto più in questo tempo sospeso, senza tempo, in questo Paese spaesato. In questa democrazia virale, contaminata dal Covid. Così assistiamo a conflitti e tensioni non solo fra i partiti, ma anche dentro ai partiti. Nel Pd, secondo la tradizione del Centro-Sinistra. Ma anche nella Lega nei confronti di Salvini si levano voci critiche. Di militanti e dirigenti che vorrebbero uscire dall’angolo in cui si trova il partito. In fondo a Destra. Dove è sfidato e “chiuso” dai Fratelli d’Italia, FdI, di Giorgia Meloni. Che sono un vero partito di Destra. Senza se e senza ma.

Giancarlo Giorgetti, in particolare, incita a voltare lo sguardo verso il Centro. Intorno al quale si muovono altre formazioni, ancora provvisorie. E “personalizzate”. Italia Viva, anzitutto, Il PdR, Partito di Renzi. Che partecipa alla maggioranza di governo. Ma in modo critico e intermittente. Per dare visibilità a Matteo Renzi. Uscito dal Pd, poco più di un anno fa, principalmente, per riconquistare visibilità e spazio politico. Sul piano dei consensi l’operazione, fin qui, non pare riuscita, visto che Italia Viva è stimata circa al 3%. Ma il ruolo di Renzi è, sicuramente, significativo. Perché il suo peso in Parlamento è più ampio – e decisivo – che fra gli elettori. Tuttavia, vi sono altri partiti “personali”, caratterizzati da leadership “personalizzate”, che girano intorno al Centro. Fra gli altri: Azione, di Carlo Calenda. A differenza di Italia Viva, all’opposizione, rispetto al governo. Ma anche +Europa, il partito di ispirazione radicale ed europeista fondato da Emma Bonino.

Tuttavia, il problema di fondo appare la precarietà dello “spazio politico”, come l’abbiamo conosciuto in passato. Soprattutto nella Prima Repubblica, quando il Centro era presidiato dalla Dc. Che, anche per questo, poteva costruire e guidare coalizioni con soggetti politici di entrambi i versanti. Destra e Sinistra. Oggi, però, non è più così. Ormai da tempo. Il Centro è divenuto, infatti, un luogo “poco centrale”. E sempre più “marginale”. Dal punto di vista del peso “elettorale”, anzitutto.

Negli ultimi 10 anni, infatti, vi si riconosce una quota limitata di elettori. Intorno all’8-9%, secondo i sondaggi condotti da Demos. Non solo, ma nello stesso periodo si è ridimensionata anche l’ampiezza degli spazi che accompagnano e “mediano” (appunto) la distanza con la Destra e la Sinistra. Nel 2013 si diceva di Centro-Destra o Centro- Sinistra il 37% degli elettori. Oggi il 32%. A causa, soprattutto, del calo del Centro-Sinistra. Nello stesso tempo, è cresciuto il peso degli “Esterni”. Di chi si chiama fuori. E rifiuta queste categorie. I “né né”. Né di Destra né di Sinistra. Né, ovviamente, di Centro. Oggi riuniscono circa un terzo degli elettori. Tuttavia, chi “si chiama fuori” gioca un ruolo non molto diverso da chi, nella Prima Repubblica, si diceva di Centro. L’Italia Media. “Mediamente” distante dalla politica e dai politici. Eppure, per questo, saldamente ancorato al Centro. Cioè, “in mezzo” al sistema politico . E, al tempo stesso, “lontano” da esso. La differenza principale, da allora, è che oggi non c’è alcun partito a presidiare il Centro. Nessun partito, oggi, è in grado di “mediare”. Peraltro, anche sul piano territoriale, il Centro dell’Italia, ha largamente perduto il suo colore. Le “zone rosse” oggi si sono sbiadite. Come hanno confermato le elezioni degli ultimi anni e degli ultimi mesi. Mentre la “zona bianca”, il Veneto, si è “presidenzializzata. Più che “Verde- Lega”, è “Verde-Zaia”. Così, se osserviamo l’evoluzione recente dei partiti nello spazio politico, si osserva una tendenza al distacco e al distanziamento fra i poli. Fra Sinistra e Destra. Che oggi coincidono con Maggioranza e Opposizione. Entrambe, più distanti dal Centro.

Gli elettori del Pd, infatti, nell’ultimo anno, si sono spostati più a Sinistra. Come quelli del M5s. Mentre gli elettori della Lega si sono allineati, a Destra, con quelli dei FdI. L’unica base elettorale ad avere spostato (di poco) il bari-centro del proprio elettorato verso il centro è Fi. Probabilmente perché una parte dei suoi elettori si è orientato altrove. In alto, dove si pone chi rappresenta “il voto di chi sta fuori”, contro tutti, svetta ancora il M5S. Tuttavia, due anni e oltre di governo, ieri con la Lega e oggi con il Pd, lo hanno normalizzato. Almeno in parte.

Così, la conquista del Centro, rivendicata da molti attori politici, oggi appare una prospettiva poco interessante e, prima ancora, poco realistica. Per una semplice ragione. Il Centro non c’è (quasi) più. Anche per questo, risulta difficile, alle diverse “parti” politiche, non solo governare il Paese, ma, prima di tutto, “partecipare” a un “comune” percorso. “Comunicare”. Pur da posizioni diverse.

Perché, senza un Centro, la “mediazione”, più che difficile, diventa impossibile. Per definizione.

http://www.demos.it/a01772.php

Il programma del nuovo Partito Liberaldemocratico può già contare sulle basi robuste costruite in occasione della recente scadenza delle elezioni nazional

file:///C:/Users/V3-371/Documents/SILLABARIO%20DEMOCRATICO/AZIONE/MANIFESTO/(7_progr_2_)-programma_azione-italia_viva-calenda.pdf