Faccetta nera, ipocrisia verde

Elena Donazzan (a sinistra) con Giorgia Meloni

Il caso Donazzan ha confermato (e non ce n’era bisogno) che la situazione è grave ma non seria. A Verona cortina fumogena sui guai di Cattolica. Benvenuto al neo-direttore dei giornali Gedi


Ieri 19 gennaio, un gruppo di carbonari conosciuti anche come consiglio regionale del Veneto ha discusso e messo ai voti l’impeachment per una esponente della misteriosa nebulosa che si fa chiamare giunta regionale del Veneto, tale Elena Donazzan, camerata sempre-pronta a temerarie azioni per difendere la memoria della buonanima del Capoccione. In Venetolandia, più nota come Zaiastan, a decidere anche se piove o fa bel tempo è difatti uno e uno soltanto, LUI: l’immarcescibile, incommensurabile, imbattibile Zaia, futuro vincitore della battaglia del grano, anzi della grana, che auspicabilmente scorrerà a fiumi grazie all’autonomia, la nostra Abissinia. Fuori dal covo sito in Venezia, i veneti laboriosi e porcheggianti per la recessione da Covid a tutto stavano pensando, tranne che al destino della Donazzan. Che sarà fascista, o non lo sarà più, chi lo sa, tuttavia l’essersi esibita a canticchiare simpaticamente “Faccetta nera” sulle onde radio della “Zanzara” (parentesi: noi si è contrari a ogni censura, ma faremmo volentieri un’eccezione per Cruciani e Parenzo), girare cioè in canzonetta il colonialismo nero dimenticandosi di avere un ruolo istituzionale – e anche di essere in un partito, Fratelli d’Italia, che tenta in tutti i modi di mutarsi in conservatore nascondendo un passato che, evidentemente, non passa – ha significato rimediare una bella figura di cioccolata al capo, a quello Zaia che ha proprio un bel daffare, a militarizzare ogni millimetro quadro di comunicazione se poi salta fuori una nostalgica che gli rovina l’immagine da campione tutto centrato sul fronte anti-virus. Ad ogni modo, dopo essere stata messa al bando dai social – cosa inammissibile, solo l’autorità giudiziaria dovrebbe disporre bavagli in base alla legge – la Donazzan si è scusata con scuse che valgono quanto quelle del discolo beccato a dire le parolacce: “Non era mia intenzione offendere nessuno e certamente non mi troverò mai più nella circostanza di rispondere ad una trasmissione, qual è la Zanzara, irridente e sopra le righe, creando imbarazzo alla mia amministrazione regionale”. Insomma, “accade nella vita di sbagliare”. Chi scrive non ha patente per dare patenti a nessuno, ma a parte cronache ben fatte (Corriere del Veneto, quotidiani Gedi) e l’intervento dello scrittore Ferdinando Camon (invero un po’ scontato, nel ricordare il contesto storico della canzone, ma meglio di niente), non si è visto un fondo, un commento, un editoriale degno di tal nome che spieghi l’assoluta gravità e, contemporaneamente, assoluta banalità dell’ultima uscita dell’assessore all’istruzione e al lavoro. Anzitutto, facendo presente che non è “accaduto”, non gli è scappato, ma è appunto solo l’ennesima volta che la politica bassanese, in Regione da quindici anni forte di voti e appoggi, evoluisce in pubblico con ammiccamenti, minimizzazioni, assoluzioni e celebrazioni del Ventennio. Quindi non è stata voce dal sen fuggita: lei giudica più positivamente che negativamente il regime di Mussolini. Cosa giuridicamente lecita, perchè in Italia è vietata l’apologia di fascismo (cioè l’attività di propaganda per ricostituire il partito fascista o riesumarne le forme), mentre non lo è avere idee fasciste (in democrazia le idee non si ammanettano, si combattono). Ma passando al piano della sensibilità e dell’opportunità, se hai un incarico pubblico, e per giunta hai intestata la delega alla scuola, non ti metti a banalizzare una vicenda densa di contrasti ancora attuali, fingendo di cadere nel trappolone di due professionisti del cazzeggio. E’ la mancanza di serietà, che rende grave il fatto. E’ buttare in caciara, sul ridere, sul motivetto eventi di portata tragica, fra l’altro mentre l’Italia agonizza affossata dalla pandemia: è la banalità del male, il male. Meno scusabile ancora è la commedia delle pseudo-rampogne di leghisti inquadrati dietro i diktat di Zaia (che, come sempre, in aula non s’è visto), una fiera dell’ipocrisia di piccoli uomini il cui reale retropensiero era di mettere le mani sul posto della reproba, essendo la diatriba fascismo/antifascismo per loro una disquisizione da quarta dimensione. Non irrealisticamente, però: lo è altrettanto, piaccia o no, per la maggior parte del popolo votante. Per il quale la condanna quotidiana permanente dell’Italia in camicia nera viene molte caselle dopo preoccupazioni più contingenti e immediate. Zaia questo lo sa molto bene, perciò ha voluto mettere per qualche giorno sulla graticola l’irrequeta (ma blindatissima) collaboratrice di giunta: perchè, come ha detto lei stessa, lo ha messo in imbarazzo, date le circostanze e in ossequio alla sua strategia di anestetizzazione totale. Non certo perchè ha dato il centounesimo spettacolo del suo genuino trasporto per quando c’era Lui, l’altro Lui. Il fattaccio dunque si chiude con l’astensione-farsa dei legaroli, la grazia per la contrita “gaffeur”, e con tanti saluti al centrosinistra subito scattato nel riflesso pavloviano di opporre “Bella ciao” (fra l’altro, come scrisse a suo tempo Giorgio Bocca, un inno ex post, intonato più dopo che durante la guerra) alla soundtrack dell’imperialismo all’italiana. Compagni e non compagni, mettetevela via: non vedrete mai un fascistone cadere per spudorato filo-fascismo, negli anni 2000, specialmente in Veneto. Banale, ma vero.

San Bedoni martire

Tutta Italia sa che a Verona c’è un ventennale potentato che è stato sbugiardato, con nomi e cifre, da un’autorità nazionale, tranne che Verona. E se non è così, poco ci manca. La settimana scorsa sono fioccate sui media le indiscrezioni sul rapporto dell’Ivass (vigilanza cooperative) che ha fatto seguito all’indagine Consob su Cattolica Assicurazioni. Due anni fa, la defenestrazione dell’ex amministratore delegato Alberto Minali (oggi consigliere economico del Papa, così, tanto per dire) fu il detonatore di un’implosione di cui oggi si raccolgono i cocci. L’Ivass, in sostanza, ha messo in fila una serie di capi d’accusa da ammazzare un toro: Paolo Bedoni (presidente da 15 anni, consigliere da più di venti) avrebbe tenuto all’oscuro i vertici violando lo statuto, il board avrebbe preso decisioni senza ponderarle incurante dei rischi, non avrebbe controllato abbastanza le controllate e gli investimenti (come quello su H-Farm e il suo campus), la joint venture di bancassicurazione con il Banco-Bpm (che ora vuole rompere, per non finire in bocca a Generali prossima conquistatrice) non sarebbe stata sottoposta al vaglio dell’effettivo rendimento. In sintesi, un disastro: giudizio “sfavorevole”, il peggiore in una scala da uno a cinque. In riva all’Adige, Bedoni, maestro del consenso nel sistema di voti mutualistico (su cui sta indagando la Procura), è un po’ come dire Zonin per Vicenza. Il paragone non lo offenderà, dato che Zonin è innocente fino al terzo grado di giudizio, senza contare che fra i due c’è stata un’intesa solida di anni e anni di partecipazioni e nomine incrociate, nel mélange tra la defunta Popolare di Vicenza e la compagnia assicurativa scaligera. Inchiodare Bedoni e il suo gruppo di comando a responsabilità dettagliate e circoscritte è tritolo puro, negli artitrici gangli di potere veronese. Lui naturalmente ostenta tranquillità: in una paciosa intervista al Corriere della Sera del 16 gennaio, ha derubricato la esplicita richiesta da parte dell’Ivass di togliersi di mezzo come un fatto fisiologico, visto che Cattolica è ormai una spa, e inoltre, non pago, ha negato l’evidenza respingendo la fama di presidente-padrone (con una specifica a suo modo veritiera, quando afferma che l’appoggio delle masse di soci non poteva inventarselo; bisogna vedere però come se l’è accaparrato…). Di tutto ciò, i veronesi hanno appreso versioni soft, liofilizzate, innocuizzate il giusto per evitare imbarazzi al presidentissimo santo e apostolo. Quando ormai il testo della relazione ispettiva non poteva non uscire, e infatti è uscito un po’ dappertutto, il quotidiano L’Arena l’ha dato così, in un pezzo di spalla in economia (guardandosi bene dal conferirgli lo spazio che meritava, e cioè la prima pagina): titolo “Indagine Ivass, Cattolica: «Cda con nuovo statuto»”; occhiello: “La compagnia alza il velo sul resoconto dell’Autorità”; catenaccio: “I particolari resi noti su richiesta di Consob: sotto accusa le funzioni di controllo. Si dimette Castelletti”. Un povero lettore, che già in media sfoglia e non legge, avrà capito che: Cattolica, ma che brava, ha svelato un semplice “resoconto” della vigilanza; sono stati gli addetti interni al controllo ad aver combinato eventuali marachelle; ed è la stessa società che ha stabilito di rinnovare il consiglio d’amministrazione e lo statuto; infine, dà le dimissioni l’ex presidente di Veronafiere, del consorzio Zai e già vicepresidente di Unicredit, il Castelletti, e questo magari può incuriosire inducendo a dare una letta al pezzo, in cui invece, per lo meno, si legge che “sotto accusa c’è il presidente del cda, Paolo Bedoni”, oltre a un sunto della requisitoria. Ecco, è solo un micro (o macro) esempio di come trasformare delle notizie-bomba in sottilette semi-invisibili. Ma a Verona, è noto, ci sono abituati.

Kennedy in Veneto

“Con troppa insistenza, e troppo a lungo, abbiamo rinunciato all’eccellenza personale e ai valori della comunità, in favore del mero accumulo di beni”. Ha citato niente di meno che John F. Kennedy, nel suo editoriale d’esordio del 15 gennaio, il neo-direttore dei quotidiani Gedi (Il Mattino di Padova, La Tribuna di Treviso, La Nuova Venezia, Il Corriere delle Alpi), Rodolfo Brancoli. Soggiungendo: “Il nostro tempo è teatro di trasformazioni esili ma incessanti: siamo capaci, saremo capaci, di stare insieme, di usare sempre la prima persona plurale?”. Noi, nel nostro piccolo, gli rispondiamo che dipende con chi, stare insieme. Con tutti tutti, no. Il pathos della distanza è indispensabile, nel nostro tempo di trasformazioni nient’affatto esili. Per esempio, non siamo sicuri di voler far comunella per forza con chi ha contribuito a svellere quel che restava del paesaggio di un Veneto già abbastanza sconciato. Come, per dirne due, chi ha permesso quell’obbrobrio di Borgo Berga a Vicenza, o ha dato via libera alla lenta morte per consunzione turistica di Venezia. Gente di destra e di sinistra. E’ il famoso “accumulo di beni”, il motore dello scempio. Trasversale e in genere ben visto dalla stampa che tifa “sviluppo” a prescindere, all’ingrosso, basta che la ruota giri. In bocca al lupo, direttore.