Dimissioni di Zingaretti, occasione per ri-nascere o perire

(di Enzo De Biasi) Le dimissioni di Zingaretti, un’opportunità da non sprecare per rifondare il PD oppure avviarsi sul viale del tramonto

Sentita l’ultima uscita di Beppe Grillo , già iscrittosi al PD ma rifiutato anni fa da Piero Fassino, che si propone quale potenziale segretario nazionale e federatore di sinistra-destra e centro con il simbolo 2050, vale la pena di planare a terra e di occuparci delle dimissioni “irrevocabili” di Nicola Zingaretti.

Le motivazioni addotte dall’autoaffondatosi segretario sono prive di contenuti apprezzabili. Lo “stillicidio” di voci contro la sua persona, il chiacchiericcio usuale che da sempre c’è nelle organizzazioni partitiche attorno alle “poltrone” , “le correnti del partito” e via salmodiando, tendono a presentare il massimo responsabile quale vittima, drammatizzando e personalizzando una situazione già di per sé negativa. La mossa è quella collaudata di giocare d’anticipo, mettendosi (momentaneamente ?) a bordo campo. Egli, dunque, si sacrifica per tutti, causa i cattivoni (tutti i maggiorenti del partito ed amici suoi) sempre stati consenzienti nelle scelte “fondamentali”, ma sempre pronti a pugnalarlo dietro le spalle.

Un probabile spicchio di sincerità, che va completato con i 9/10 tutt’ora mancanti.

Il Pd, costituitosi nel 2007 , nelle elezioni nazionali del 2018 ha ottenuto la minore % di consensi di sempre, ovvero il 19%. Nelle due precedenti tornate il quoziente era stato del 26% (2013) ed appena sceso in campo nel 2008, del 33%. I rappresentanti eletti in Camera e Senato sono diminuiti da 335 a 121. Trattasi di piano inclinato verso l’irrilevanza politica? All’inizio della sua avventura il PD, nato a seguito della fusione di Margherita e Democratici di Sinistra ( cattolici-democratici ex-D. C. e riformisti comunisti ex-P.C.I.), ma includente anche socialisti, verdi e liberali rappresentava il campo largo del centro-sinistra.

Il DNA costitutivo non era rivolto verso un’unica direzione di marcia (la sinistra), quanto piuttosto doveva (avrebbe dovuto) essere la sintesi di una pluralità di posizioni talora fortemente divergenti. In questo periodo il PD ha avuto ben sei scissioni, perdendo per strada: Rutelli, Civati, Fassina, Speranza, Calenda e Renzi tutti capi di mini qualcosa o che hanno abbandonato (Rutelli). Rotture tutte inevitabili ed irreparabili ? In questi 14 anni, i segretari significativi sono stati: Veltroni, Bersani e Renzi. Tutti e tre hanno dovuto dimettersi dall’incarico a seguito di sconfitte in consultazioni regionali (Sardegna) e nel referendum costituzionale il primo ed il terzo, siluramento da parte dei 101 piddini eletti in Parlamento per portare Prodi alla Presidenza della Repubblica, per il secondo. La new entry sorta dopo il crollo del muro di Berlino, nei fatti, non ha saputo realizzare nell’azione concreta criteri di convivenza civile alternativi all’ibrido e perverso prodotto derivato dal centralismo democratico (ex PCI) intersecato dalle più deleterie logiche correntizie (ex-DC). Il mantenimento delle posizioni di potere è stato assicurato a chi mostrava più fedeltà ed obbedienza, piuttosto che creatività e capacità di risolvere problemi; secondo tradizione italiota. Di recente e ad esempio, hanno “lasciato” verso altri lidi dirigenti di rango e di valore quali: Letta, Martina o Minniti, concorrenti qualificati e preparati per posti di vertice e quindi invisi alla nomenklatura più ossificata, inossidabile e buona per tutte le “stagioni”, purché ci sia un posto a tavola.

Zingaretti in questi due anni di segreteria, pur con gruppi parlamentari di nomina renziana (ma la stessa cosa era successa al suo predecessore con i rappresentanti di nomina bersaniana nella precedente legislatura) è stato il nulla , tranne la partecipazione subita del PD al Governo Conte 2 che -per certi aspetti – ha spinto i più “in vista” a traslocare dal partito a Palazzo Chigi Sopportata la scissione di Renzi, Zingaretti non ha trovato di meglio che osannare l’avvocato del popolo anche quando si era dimostrato non all’altezza: PNRR docet.

Per chiarezza va detto che il senatore fiorentino, lesto e corsaro, deve ancora una risposta sulla sua consulenza di 80.000,00 dollari percepita in Arabia Saudita, in un Paese che pratica la pena di morte e che schiavizza i lavoratori che importa per le opere e le infrastrutture necessarie , ai quali non garantisce alcun grado di tutela.

Nel Governo guidato da Draghi con “tutti dentro” tranne la destra, le carte inevitabilmente si mescolano. L’imprinting dell’attuale Presidente del Consiglio è di stampo liberal-socialista e questo non dovrebbe dispiacere. Può essere l’inizio di una nuova stagione per alcuni, come hanno già colto i 5 stelle nominando loro capo il già Presidente del Consiglio, oppure la fine per altri, PD tra questi; come del resto -per quanto labili- confermano i sondaggi. Del resto, i 5 stelle hanno già chiesto l’iscrizione al PSE e al di là del diniego dato dalla Presidente attuale, presto arriverà il beneplacito formale. L’unica bandierina sventolata dal PD come sta e giace è il c.d. “ europeismo”, facile che anche questo spazio debba essere condiviso e rappresentato da altri più “freschi e in forze”.

L’opzione di Zingaretti di allearsi in anteprima con i grillini e a mo’ di dispetto verso Renzi ha avuto ed ha poco senso. In ogni caso la decisione di legarsi al nuovo leader pentastellato, non più federatore ma esponente di un partito concorrenziale, è casomai decisione da assumersi in sede congressuale, primarie incluse. Il tempo c’è. La mancanza di alternative all’attuale esecutivo e il semestre bianco che inizierà a fine luglio, inevitabilmente porteranno a votare o a primavera 2022 oppure a quella del 2023. Nell’anno in corso, un congresso si può fare, se si vuole.

In quella sede si potranno presentare e quindi scegliere contenuti programmatici ed alleati preferibili, la base sociale darà l’orientamento prevalente da seguire. Contestualmente nulla vieta che per tentare di tornare ad essere un partito a vocazione maggioritaria, si attivi un iter costituente programmatico e di corresponsabilità nelle scelte future, utile se del caso a superare anche l’attuale contenitore, con tutte le componenti che a mano a mano si sono scisse e con altre, tipo le sardine scaturite dalla società civile in questi ultimi anni. Il primo banco di prova è la legge elettorale che dovrà essere di stampo maggioritario, non certo proporzionale.

L’assemblea nazionale prossima può o fare melina e imbalsamare un involucro vuoto o procedendo a passi spediti verso l’ascolto degli iscritti e simpatizzanti, accertare in via risolutiva se c’è l’” amalgama”, oppure se questa manca , come disse Massimo D’Alema all’incipit di questa breve storia. In quest’ultimo denegata ipotesi, il viale del tramonto è assicurato.

Enzo De Biasi

06 marzo 2021