La riforma fiscale. Tra le riforme chieste dall’Unione Europea da decenni

(Di Enzo De Biasi) Avviata a colpi di fiducia quella della giustizia, seguirà quella fiscale. I lavori delle Commissioni Parlamentari. Importante non limitarsi alla rimodulazione dell’IRPEF per i redditi fino ai 55 mila € e/o al mantenimento (rafforzamento) del regime forfettario.


Martedì 3 agosto è iniziato il semestre bianco. Impossibile per il Presidente Mattarella sciogliere il Parlamento e probabilmente il Governo Draghi vedrà notevolmente accresciute le sue difficoltà nel far approvare le tre riforme cardine: giustizia, fisco e pubblica amministrazione in entrambi i rami del Parlamento od almeno in una delle due assemblee elettive. L’Unione Europea lo chiede da decenni. Adesso, lo ha imposto come requisito imprescindibile per beneficiare e della prima tranche del PNRR di 25 miliardi di € e di quelle successive fino ad arrivare a quota 210 miliardi di €. Non a caso, di recente, il Premier ha replicato a muso duro a Salvini per la vicenda no-vax e ha mediato l’impossibile tenendo il punto sulla questione giustizia con Conte. Al di là del merito delle singole vicende, trattasi di un avviso ai naviganti affinché, se qualche gruppo prepara la guerriglia parlamentare di logoramento, avrà di fronte il Capo dell’Esecutivo teso a sventare in anticipo salti nel buio; fortemente convinto di poter (dover) procedere a colpi di fiducia.

Draghi sarà tempestivo nell’indicare all’opinione pubblica chi, come e perché non sta ai patti sottoscritti a febbraio di quest’anno, anche se sarà obbligato a navigare tra le contrapposizioni, sovente fatte per meri scopi “identitari”. Del resto, i partiti che contano, stando ai sondaggi sono tutti attorno ad un risicato 20%. Una larga fetta dell’opinione pubblica appare soddisfatta delle decisioni fin qui assunte, caso green pass è un esempio con 2/3 di cittadini assenzienti l’iniziativa. L’autorevolezza di questo premier di statura internazionale, oggi chiamato a reggere le sorti del Paese, colpisce positivamente se non altro perché alla fine della fiera decide. Inoltre, l’inquilino del Quirinale benché impedito nel prossimo semestre di spedire a casa deputati e senatori, in caso di perduranti veti partitici, può sempre mandare l’esecutivo avanti alle Camere per una verifica della propria maggioranza. Lì si vedrà chi si tira indietro, aumentando le difficolta per l’Italia di ottenere risorse mai viste prima, cinque volte il piano Marshall del dopoguerra.

Incardinata, in qualche modo, la riforma della giustizia penale (mancando tuttora all’appello quella civile e la riforma del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) materie non proprio irrilevanti per avere “una giustizia giusta”, il secondo step obbligato è quello della “riforma fiscale”, attesa come le altre da almeno un trentennio.

Sull’argomento a giugno di quest’anno, le Commissioni Finanze di Camera e Senato hanno concluso un’indagine intitolata “sulla riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e altri aspetti del sistema tributario”. Il materiale raccolto è notevole, frutto di 60 audizioni e 6 mesi di lavoro, anche se l’impressione ricavata è che ciascuna delle parti sociali interpellate o dei singoli esperti che riflettono differenti “scuole di pensiero economico-tributario” abbiano tendenzialmente privilegiato ad evidenziare le proprie inderogabili esigenze di ciò che si aspettano in relazione al loro punto di vista, piuttosto che indicare – rispetto alle collaudate posizioni di partenza su: IRAP, IRPEF, IVA, tributi locali, rendite finanziarie- cosa sono disponibili a modificare in termini incisivi e sistemici. La sensazione è che la spinta al cambiamento, forse potrà avvenire, ma con il piede ben pigiato sul pedale del freno.

Una più generale revisione del sistema tributario, andando oltre gli interessi di brevissimo termine, consentirebbe di avere più risorse e sciogliere qualche nodo strutturale; ma il clima non sembra esser questo. Ad esempio, è noto che la tassazione dei fattori produttivi: capitale, terreni, immobili, prodotti finanziari, lavoro privilegia -diciamo così- i redditi da lavoro. Non a caso, questi ultimi costituiscono da soli l’84 per cento del gettito Irpef raccolto dall’erario. I restanti percettori di reddito: lavoro autonomo, professionisti, artigiani, commercianti, agricoli, industriali contribuiscono con una percentuale miserrima del 16% e guarda caso, nella stragrande maggioranza, si pongono in una fascia di reddito ai fini IRPEF sotto i 35.000,00 lordi annui. La situazione è notevolmente peggiorata a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. All’epoca il lavoro contribuiva al gettito dell’IRPEF per il 52 %, mentre il 48% era generato dalla restante platea di contribuenti. Indubbiamente, il criterio cardine della riforma del 1971 (legge n. 825 del 9 ottobre 1971 attuata, in prima battuta, con 19 decreti) secondo il quale ciascun cittadino paga le tasse “in ragione della propria capacità contributiva e della progressività” (principio sancito dalla Costituzione) è stato, alla prova dei fatti, del tutto disatteso. Oppure per essere più precisi, è stato correttamente applicato ad una unica fonte di reddito tassabile. Oggi, dopo 50 anni di Governi ideologici e post-ideologici, la matassa è talmente ingarbugliata che l’unico risultato tangibile è che parti cospicue di gettito imponibile sono semplicemente sottratte al fisco, grazie anche ad una legiferazione dedicata a categorie di persone fisiche e giuridiche ritenute “speciali” per il decisore politico di turno al momento dell’adozione del provvedimento ad hoc. Trattandosi in genere, di gruppi socioeconomici ben organizzati, chi è venuto dopo il “benefattore” a reggere il dicastero delle Finanze e del Tesoro, si è ben guardato dall’abrogare le agevolazioni precedenti, anzi -di solito- ne ha aggiunte altre o ha ampliato la platea dei potenziali beneficiari. Va da sé che l’ispirazione non è stata quella sancita dal dettato costituzionale della “progressività” tradotto, chi più ha più deve dare in tasse allo stato.

Il gioco è durato mezzo secolo, sarà questa la volta buona per cambiare “paradigma”?

Il 30 giugno le Commissioni hanno elaborato un documento conclusivo, approvato da tutti i partiti (tranne Leu), contenente le direttrici su cui si dovrebbe indirizzare la prossima riforma del Fisco italiano e -come fatto nel 1971- confluire in una legge delega con tanti decreti successivi da farsi nei prossimi anni. Di suo, il Governo s’ era impegnato ad avviare, entro il 31 luglio 2021, il percorso di modifica del sistema tributario italiano (per inciso richiamato anche nel Piano nazionale di ripresa e resilienza); ma come si desume dal calendario solare il termine è decorso inutilmente.

Venendo a qualche spunto specifico. Ampia convergenza si è avuta in sede parlamentare nel ridefinire la struttura dell’Irpef, in accordo con gli obiettivi generali di semplificazione e stimolo alla crescita. Uno degli obiettivi da cogliere resta quello di abbassare l’aliquota media effettiva, con particolare riferimento ai contribuenti nella fascia di reddito 28.000-55.000. Questo porterà ad eliminare paradossi dell’Irpef, per cui per i soli lavoratori dipendenti, la media delle aliquote marginali effettive supera oggi il 40% già intorno ai 17 mila euro di reddito, laddove per oltre il 20% dei lavoratori dipendenti occupati da almeno 12 mesi le aliquote marginali effettive sono superiori a quella massima legale (43%). Un tale intervento comporterebbe un taglio delle tasse per circa 7 milioni e mezzo di contribuenti. Vale a dire quell’ampia platea di italiani che si trovano nella fascia di reddito compresa tra 28 mila e 55 mila euro lordi, attualmente sottoposti alla terza aliquota dell’Irpef con un prelievo nominale del 38%, superiore di ben 11 punti percentuali a quella dello scaglione precedente, e che, considerando anche le addizionali comunali e regionali, è sottoposta ad un prelievo teorico che supera il 40%.

Importante è che non ci si limiti unicamente a questa, pur necessaria ed importante, rimodulazione dell’aliquota, anche perché in assenza di radicali modifiche nell’area delle spese deducibili e detraibili nonché un maggiore “coinvolgimento” fiscale delle altre fonti di reddito, tutto rischia di restare pressoché immutato.

Venendo ad altre questioni essenziali, uno dei temi caldi è il riordino dell’IVA. Lo scopo è quello di perseguire una sua semplificazione e di una possibile riduzione dell’aliquota ordinaria attualmente applicata del 22 per cento. In un’ottica di miglioramento del rapporto tra contribuente ed Amministrazione finanziaria, la proposta è quella di prevedere un meccanismo strutturale di premialità per i contribuenti leali, inclusa la concessione di forme di certificazione del rispetto delle obbligazioni tributarie, in base alle quali riconoscere, in maniera automatica, benefici, quali riduzioni dei termini di controllo e accertamento e dei tempi di rimborso fiscale. In tale ottica si propone inoltre valutare l’introduzione di una nuova norma di principio che imponga agli uffici dell’ente impositore l’obbligo di assolvere ad uno specifico onere motivazionale anche in relazione ai chiarimenti forniti dal contribuente, dando conto espressamente delle giustificazioni dallo stesso offerte e argomentando puntualmente sulla loro relativa fondatezza. Inoltre, per i lavoratori autonomi viene auspicata una rateizzazione opzionale, destinato alle persone fisiche, società di persone o di capitali ovvero associazioni tenute al versamento di saldo e acconto. La rateizzazione potrebbe prevedere il versamento del saldo e del primo acconto in sei rate mensili di uguale importo da luglio a dicembre dello stesso anno. I versamenti dovrebbero -ben s’intende – essere senza l’applicazione di alcuna sanzione e/o interesse. In tema di IRAP, si preconizza il “superamento”, facendola magari confluire, come addizionale, nell’Ires, un’imposta sul reddito delle società pari al 24% della base imponibile. La circostanza potrebbe determinare un incremento dell’aliquota dell’imposta sulle società, ma sarebbe comunque un importante passo in avanti nella direzione della semplificazione. Del resto, in alcuni casi, le imprese in perdita devono versare il tributo regionale. Il problema risulterebbe superato ove l’IRAP si trasformasse in un incremento dell’aliquota IRES.

Il nodo coperture, la stima dei 40 miliardi necessaria per la riduzione della pressione fiscale sarà a carico di….?

La diminuzione del carico fiscale è la strada maestra seguita, di fatto il principale strumento a cui si affida l’aumento della crescita. Si auspicano sgravi all’Irpef, l’abolizione dell’Irap, compensata (almeno parzialmente) con “altri tributi esistenti”, il calo dell’aliquota IVA ordinaria, e altri interventi ancora. Ciò che manca del tutto è un quadro di compatibilità finanziaria, per la cui definizione la palla è buttata sul campo governativo, cui spetterà l’ingrato compito di reperire le risorse necessarie. Bel modo di esercitare la propria responsabilità politica! Facile prevedere che quanto sarà predisposto dal duo Draghi-Franco, risulterà indigesto ai commensali di Palazzo Chigi e del Parlamento, ovvero gli stessi che avrebbero dovuto- al contrario- agevolare l’iter decisionale.

La stima del costo necessario per compensare tutte le “riduzioni del carico fiscale a vantaggio della crescita economica» è stata fornita dalla “Voce Info” in un articolo di luglio siglato da tre economisti come Massimo Baldini, Silvia Giannini e Simone Pellegrino. Gli esperti sottolineano che «Un forte limite del documento è -appunto- l’assenza di ogni indicazione sulle coperture delle riforme ipotizzate che vanno tutte nella direzione di una riduzione. Il punto è che i 40 miliardi – calcolati da Simone Pellegrino – non trovano compensazione nelle pagine del documento parlamentare. Infatti, sono previsti alcuni rincari dell’Ires e il “riassorbimento” del bonus Renzi, ma del tutto insufficienti a coprire la prevista riduzione dei tributi”; senza contare che andare oltre l’IRAP, significa rinvenire 20 miliardi sostitutivi da trasferire alle regioni per il funzionamento della sanità. Infine, è previsto il mantenimento, anzi l’estensione, del regime forfettario degli imprenditori individuali e dei professionisti (la cosiddetta “flat tax” degli autonomi bandiera della Lega), che da semplificazione per contribuenti marginali, tende a diventare il principale strumento di tassazione di questa tipologia di lavoro, fuori dalla logica progressiva e fonte di gravi iniquità orizzontali. Già oggi il 60% delle imprese stanno nella categoria fino ai 65.000,00 € godendo di una tassazione del 5%, incrementata al 15% se tale soglia è superata. Perché non ampliare a 100.000,00 € ed abrogare anche l’odioso balzello del 5 %? Chi fa impresa, per legge, non deve pagare tasse sul reddito prodotto, trattasi di persona benemerita a prescindere, come direbbe Totò.

Ignorare le compatibilità finanziarie, vuol dire ignorare il collegamento fra entrate e spesa pubblica. Il Documento asseconda e incoraggia così quell’orientamento maturato nell’ultimo cinquantennio per cui è legittimo chiedere aiuti e sostegni sul fronte della spesa pubblica e degli sgravi fiscali, ma al contempo, il fisco è una sorta di “male in sé”, da abbattere e dal quale è legittimo sottrarsi. Nella vulgata, chi non paga le tasse è furbo per definizione, chi le paga è invece fesso; poi ci sono quelli che dicono “io sono per le tasse giuste”, ovvero quelle che io penso che debba pagare non quello che decide lo stato, ohibò!

Nel lungo elenco di proposizioni, scarsamente coerenti tra di loro, mancano alcune risposte a quesiti lapalissiani del tipo: quali delle riduzioni fiscali proposte è prioritaria? Occorrerà ridurre spese pubbliche, se sì, quali? Un’annotazione. Nei primi anni settanta del secolo scorso, il bilancio dello stato necessitava di 400 miliardi di € , oggi ne occorrono 800, quali capitoli di spesa “tossico-nociva” vanno diminuiti? Oppure, si ritiene di continuare, anche dopo la fase emergenziale collegata al Covid, con bilanci fortemente in disavanzo? Per la cronaca, è il caso di segnalare che i soldi del PNRR non sono elargiti per l’abbattimento della pressione fiscale su cittadini ed imprese; nel contempo il debito pubblico è asceso a 2.680, 5 miliardi nel primo trimestre 2021, circa 43.000,00 pro-capite neonati inclusi.

Oltre a questi interrogativi senza risposta, si aggiungono le omissioni. Poco o nulla si approfondisce sulla questione delle imposte patrimoniali, sulla tassazione diversificata tra titoli di stato ed altri titoli ed obbligazioni da capitale e rendite finanziarie, sulla riforma del catasto, sulle cedolari sugli affitti, sulle imposte di successione e donazioni, sull’ipotesi di condizionalità ambientali.

In conclusione, ogni categoria produttiva e sindacale, come si usa dire “ha dato il meglio di ciò che poteva dare” , a seguire le forze politiche hanno issato la propria “bandierina”. La sensazione è che prevale un’impostazione di conservazione dell’esistente, con ritocchi esigui inidonei a cambiare il quadro d’insieme nelle direttrici di fondo: allargamento del carico fiscale in termini equi a tutti i fattori produttivi, forte ristrutturazione della spesa pubblica ed -in prospettiva post-Covid- ridimensionamento del debito pubblico. Decisioni, allo stato, non adottate; di conseguenza non resta che aspettare le decisioni di Palazzo Chigi.

03 agosto 2021

Enzo De Biasi