Berlato, Ciambetti e il Veneto allergico alle critiche

Il litigone in tv fra l’esponente FdI e il leghista ci parla di qualcosa di più della momentanea divisione a Roma fra i due partiti qui alleati. Caos vaccini, perchè il Veneto non ha richiamato l’attenzione come la Lombardia. Il Verbo amazoniano fa una vittima illustre: i fatti


Per fortuna che ci ha pensato Marco Bonet sul Corriere del Veneto (28/3), a dar conto del pollaio in diretta televisiva fra gli alleati (insomma…) Roberto Ciambetti, presidente leghista del consiglio regionale del Veneto, e Sergio Berlato, eurodeputato ed esponente di punta di Fratelli d’Italia in regione. Venerdì sera su TvA i due si sono azzuffati come se anche qui, nelle plaghe del doge Zaia, fossero uno in maggioranza e l’altro all’opposizione, come a Roma. E infatti, l’oggetto della contesa era la politica del governo Draghi, contestata da Berlato soprattutto sulle chiusure che stanno strozzando l’economia, per finire sui tamponi, non tutti ugualmente attendibili (solo quelli rapidi di terza generazione sono stati equiparati ai molecolari). Secondo Berlato, nessuno dei tre è validato. Ciambetti a questo punto esplode, innescando una raffica di accuse reciproche (“spari cazzate!”, “sei un irresponsabile!” e altre gentilezze di questo tipo) alzando i decibel e la tensione in studio. Detto che sarebbe servito un giornalista in loco a dirimere la questione – direbbe Feltri-Crozza – fattuale riguardo l’affermazione di Berlato, ciò che colpisce non è l’intraprendenza polemica di quest’ultimo, che da anni ormai fa il frondista nel granitico moloch del centrodestra veneto, ma la reazione di Ciambetti. Come fa correttamente notare Bonet, il leghista vicentino di lungo, lunghissimo corso è uno abituato a misurare parole e omissioni, da animale politico di eterno galleggiamento com’è. Può starci l’antipatia personale verso il guastafeste patron dei cacciatori, ma volendo intravederci un significato politico, uscire dai gangheri, per un uomo-simbolo della compattezza zaiana, va oltre il banale imbarazzo di essere oggi la Lega corresponsabile delle zone rosse, è il sintomo dell’allergia tutta locale alla critiche che il consueto marciare uniti dietro la voce unica del padrone porta con sè come tossico corollario. Succede così, quando il dibattito interno (in questo caso interno a una coalizione) è azzerato, soffocato, proibito. Al cittadino spettatore di queste scene rivelatrici resta l’amara sensazione che solo di sceneggiate si tratti, perchè al dunque, quando c’è da conquistare e mantenere il potere, quelle stesse facce rifanno capolino regolarmente assieme, una affianco all’altra, sorridenti e paciose come se nulla fosse. E fra l’altro, come già scriveva Fortebraccio sui “cuccagnoni” dell’allora maggioranza a guida Dc nel lontanissimo 1974, “sempre quelle facce”, identiche, di legislatura in legislatura, di mandato in mandato, eternamente ritornanti. Fingendo, nella sostanza politica, di litigare. Che palle.

Il culo nel burro

Non solo Lombardia. Anche il Veneto ha le sue, nella gestione dei vaccini. Però non tali da finire in primo piano. Perchè? Prima di tutto, per un fatto numerico che va riconosciuto per quel che è: in una settimana, la scorsa per l’esattezza, dalla quint’ultima posizione in Italia la Regione governata da Luca Zaia è risalita all’ottava per numero di somministrazioni, insieme al Lazio. Il merito dell’accelerazione va all’incremento dei punti vaccinali (da 58 a 71), alla sperimentazione della chiamata per classi di età (una sorta di appello analogico, parallelo alla prenotazione online) e al coinvolgimento dei medici di famiglia, che hanno iniziato a inoculare le dosi in ambulatorio. Secondo: la capacità mediatica di Zaia di non offrire il fianco al mirino nemico, “inabissandosi” per qualche giorno rispetto al petto in fuori e sindrome da capoclasse suoi standard normativi nelle conferenze stampa-show, per poi riemergere – magari con apposita intervista al Corriere della Sera il 26 marzo – quando si stava risalendo la china. Terzo: la solita dispersione e coltre di vapore che non danno troppo risalto alle falle del sistema. Gli episodi di inefficienza rompono ogni tanto la barriera del suono ma restano lì, isolati, lasciati all’obbligata offensiva di rito delle opposizioni, senza che un giornale li problematizzi e li approfondisca. Prendiamo per esempio la sconcertante doppia statistica fra il “Report vaccini anti-Covid 19” del governo e quello diffuso dalla Regione il 25 marzo: nel primo, si parlava di 24 mila dosi al giorno, per un totale di 694 mila, di cui 222 mila a operatori sanitari, 201 mila a over 80 anni, 68 mila a personale scolastico, 66 mila a ospiti delle case di riposo, 10 mila alle forze armate, 16.500 a “personale non sanitario” e 108.500 a un non meglio specificato “altro”. Secondo i dati regionali, invece, al personale sanitario erano andate 192.500 dosi, a quello delle rsa 51.500, agli over 80 252 mila, a professori e bidelli 70.500 e 27 mila alle forze dell’ordine. Discrepanze apparentemente inspiegabili, di cui il Giornale di Vicenza il 26 marzo ha dato conto senza tuttavia cercare di capire il perchè. Quarto: una motivazione più generale, al di là del contingente, ci dice che il Veneto, confrontato con la Lombardia con cui pure condivide il colore politico di maggioranza, sconta una minor attenzione a livello nazionale da sempre e anche, se l’andazzo rimane questo, per sempre. Non soltanto sul fronte della sanità (che a Milano e dintorni è stata selvaggiamente privatizzata, cosa non avvenuta qui dove i privati hanno aumentato sì il loro peso, ma in proporzioni non paragonabili e con modalità indirette, striscianti, senza l’arroganza liberista dell’epoca Formigoni al Pirellone), ma su tutto. Le ragioni affondano nella storia: un’area bistrattata perchè incapace di muoversi come lobby trasversale nella Capitale, affetta da un lamentoso nanismo politico a dispetto, o meglio a causa di un gigantismo economico avaro di classe dirigente (quella democristiana d’antan lasciava fare parecchio, agli animal spirits imprenditoriali), dove Venezia non è Milano e le storture e gli orrori facevano e fanno meno notizia, anche quando gravissimi (si pensi ai Pfas, un caso di inquinamento delle acque che fosse accaduto fra i lombardi avrebbe scatenato il diluvio). Infine, c’è anche da mettere in conto l’occhio di riguardo dell’establishment politico-giornalistico verso il governatore veneto, considerato più passabile del malvagio Salvini, a cui viene addebitata (via Attilio Fontana) la paternità ultima dei disastri lombardi. Niente da fare: questo Zaia ha proprio il culo nel burro.

San Bezos protettore dei pacchi

Scoppiettante intervista sui quotidiani Gedi del 28 Marzo a Gabriele Sigismondi, responsabile di Amazon Logistics in Italia. Dopo il primo sciopero nazionale di dipendenti e fornitori della multinazionale avvenuto il 22 marzo scorso, una fitta sequela di domande andava pur fatta, a qualche dirigente disposto a spiegare come sarà stato mai possibile che soprattutto i secondi, ovvero gli autotrasportatori, abbiano osato rinunciare a una giornata di schei, unica lingua conosciuta nell’universo parallelo di Jeff Bezos. Confessiamo, giunti alla fine dell’articolo, che spiegazione razionale non c’è. Stando a Sigismondi, quello di Amazon è l’Eden ritrovato, dove l’armonia regna incontrastata e la cornucopia di ricchezza si spande nelle tasche di tutti coloro che hanno la fortuna di venirci a contatto. Nuovi programmi di lavoro, attenzione al femminile, indotto per le piccole imprese, future sedi da aprire, salari con benefit e bonus, e naturalmente imprecisate “tecnologie” (leggi: algoritmi da infarto, a quanto sostengono gli animatori della proesta) che non causano “pressioni”, assolutamente, ma che scherziamo? Poteva venire in mente, a una certa, di chiedere all’amazoniano per quale imperscrutabile motivo ci sia qualcuno di scontento, a questo punto. Sono matti, gli scioperanti? Agenti infiltrati di quella misteriosa entità ostile nota come sindacato? Vittime di cecità e sordità dinnanzi alla perfezione manageriale dell’Azienda, ingrati verso il Mega-Presidente Galattico che dagli Usa offre al mondo il progresso del pacco a casa in ventiquattr’ore, anche a costo di ingerire e sputare fuori le maestranze raccattate a poche mensilità dalle interinali, o di spremere come limoni i “driver”, che nomati all’inglese sembrano meno sfruttati dei comuni camionisti? Ma siamo noi che non capiamo: nel brave new world Amazon, che tanto new non pare perchè assomiglia molto alla vecchia fabbrica taylorista con aggiunta di big brother elettronico, fare domande è scortese. La (ri)educazione prima di tutto, orsù.