Autonomia regionale rafforzata (Parte III). Serve una Repubblica Federale, unione di Stati

L’Autonomia Regionale Rafforzata è uno zombie che cammina. Serve una Repubblica Federale con elezione diretta del Capo dello Stato.

Questo è il terzo di tre articoli di Enzo De Biase sul tema dell’Autonomia regionale rafforzata.
La prima pubblicazione è stato l’articolo La proposta del Veneto: un soufflè afflosciato, classificabile come mera propaganda” e il secondo è intitolato “50 anni dopo, le Regioni servono ancora?“.


Arrivati alla soglia del 2020, i 72 anni trascorsi dopo l’approvazione della Costituzione che indicava entro un anno data la nascita delle Regioni (leggi il secondo mio articolo “Autonomia regionale rafforzata (Parte II). Le Regioni 50 anni dopo” e attribuzione alle medesime di poteri legislativi ed amministrativi, poi “rafforzati” 18 anni or sono, stanno a dimostrare che le classi dirigenti nazionali succedutesi in questi decenni non hanno voluto cogliere l’obiettivo.

Il regionalismo più o meno spinto non è mai rientrato tra le scelte strategiche né della D.C., al di là dei proclami e del consenso raccolto, né del PCI convintosi alla causa una volta superato il periodo stalinista. Gli altri partiti poco potevano e poco hanno inciso. Nella seconda fase della vita repubblicana, il “federalismo amministrativo” cioè il perseguimento del massimo decentramento attuabile senza modifiche costituzionali, così come il “federalismo fiscale” collegato alla finanza locale, non hanno fatto molta strada. A parte il lifting nominale dell’impianto denominato “regionalismo”, la disciplina varata in materia dal Centro Sinistra non si è dispiegata compiutamente dato il brusco stop subito dalla Commissione Bicamerale D’Alema. La situazione è migliorata, di poco e sempre ad opera della precitata coalizione, con il cambio integrale del titolo V della Costituzione attivo fin dal 2001. In verità, oltre al letargo quasi ventennale nelle intese Stato-Regioni per “ulteriori forme e condizioni di autonomia “ è stata prodotta una forte litigiosità tra i due livelli di governo nelle materie definite “concorrenti”. In questo ambito avrebbe dovuto prevalere il principio costituzionale di leale collaborazione, ma così non è succeduto né accade oggi. Nel 2016, una prova di riordino sull’argomento venne tentata dal referendum Renzi, rigettato in toto al mittente dal popolo sovrano. Dalle parti del Centro Destra, nel 2006 è stato bocciato il referendum costituzionale reggente, la “devolution” di alcune materie da assegnarsi alle regioni, la fine del bicameralismo perfetto e il tentativo, mancato, di diminuire il numero dei parlamentari. Più fortuna ha avuto la disciplina per la finanza locale, legge nr. 42/ 2009, tesa a garantire uguaglianza sostanziale nell’accesso ai servizi essenziali dell’area “diritti civili e sociali” affidati agli enti locali, regioni incluse. Il dato da registrare è che i criteri operativi tardano a venire. Le criticità riguardano soprattutto i LEP, Livelli Essenziali di Prestazioni, risultanti dalla combinazione tra costi e fabbisogni standard. I LEP sono in apnea, causa assenza delle risorse (ingenti) necessarie per attuarli su tutto il territorio nazionale in modo omogeneo. Ulteriori problematicità sono emerse al fine di individuare e identificare i livelli minimi da erogare. A queste difficoltà, va aggiunta l’opzione discrezionale nei servizi su base locale. A titolo di mero esempio, il finanziamento regionale per la rete di asili nido può essere potenziata o depotenziata a seconda del ruolo -da incentivare o disincentivare- affidato ex ante alla famiglia d’origine singola e/o aggregata.

In sintesi, il trentennio appena trascorso ottiene un risultato a somma zero pur avendo intrecciato assetti di governance nazionale rimasti incompiuti, leggi elettorali fatte e disfatte, valorizzazione (sulla carta) delle Autonomie in primis le Regioni, ma senza alcun significativo cambio di passo rispetto al precedente periodo. Emblematico è l’assenza di programmazione e certezza pluriennale nei trasferimenti erariali, oggi come ieri, l’intero comparto è agganciato alla legge di bilancio d’annata. Del resto, l’evaporazione dei partiti coalizzati nella formula del pentapartito esistente fino al termine dei partiti storici, ha visto il subentro di nuovi soggetti sull’arengo nazionale senza alcun miglioramento della qualità nell’azione politica. Anzi! È semplicemente successo che i vertici dei partiti collassati per propri demeriti sono stati spediti a casa, mentre la nomenklatura di seconda, terza e financo quarta fila ha costituito la spina dorsale dei moderni contenitori. Ci siamo trovati di fronte a nuove sigle con una nomenklatura di collaudato imprinting, sdoganati sulla destra l’ex MSI, pienamente legittimato a governare e sul lato sinistro l’ex PCI diventato azionista di riferimento che, per la prima volta, si è sperimentato dentro la stanza dei bottoni. Le ultime leve, il riferimento è ai 5 stelle, qualificabili per lo più come “scappati di casa”, sorti per iniziativa di un comico effervescente e selezionati da una ditta privata, questi epigoni ben rappresentano il pensiero politico della società italiana attuale. I problemi lasciati irrisolti dai predecessori, debito pubblico stratosferico ed incompleto regionalismo, per stare sul tema, sono rimasti tali e quali. Questa è l’immutabile ed immutata sostanza. Invece, la descrizione del teatrino politico-mediatico narra che dopo il 1994 sono arrivati “il nuovo” e la “seconda repubblica”. La tesi è accoglibile se si accetta che capitolate le ideologie e conseguenti mistificazioni, dissolti gli ideali e financo le idee, l’importante non è il merito delle questioni da comprendere ed avviare a soluzione, piuttosto valgono messaggio e testimonial da veicolare in televisione e/o nei twitter quotidiani. Tutto il resto è marginale, quasi un accessorio.

In questo periodo inconcludente, l’unica scelta davvero determinante per il recente passato, presente e futuro, è stata l’adesione dell’Euro fin dal suo primo debutto, 2001.Ciò è stato possibile in quanto l’Italia nel 1993 aveva sottoscritto il Trattato di Maastricht che ha dato vita all’Unione Europea, condivisa allora da 12 nazioni. Tale patto prevedeva, tra l’altro, la moneta unica e l’istituzione della Banca centrale europea (BCE); soggetti non complementari per fronteggiare le crisi che abbiamo avuto e che stiamo attraversando, spread tedesco e dazi made in USA inclusi. L’anno scorso, il 2018, ricorreva il 25esimo anniversario da questo evento epocale, un assordante silenzio. Le classi dirigenti nazionali, tranne rari casi (Romano Prodi ad esempio) invece che motivare e spiegare il percorso fin qui compiuto ed indicare gli scopi da perseguire in una prospettiva di maggiore integrazione europea, giocano spesso la carta del “lo dobbiamo fare, perché ce lo chiede l’Europa”. Noiosa litania recitata, quando le scelte sono fastidiose per l’audience da talk show o dei potenziali votanti; più o meno i due pubblici coincidono. L’essere stati co-fondatori dell’Unione Europea, nel frattempo allargatasi a 28 Stati membri e di questi 19 sono nell’eurozona, ci permette di procedere con serenità in una differente articolazione dell’organizzazione delle funzioni pubbliche. In questa fase, date le loro condizioni di partenza, i maggiori destinatari dei fondi europei sono i Paesi dell’Est Europa, con la Polonia in testa e gli altri del gruppo Visegrad, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia, a seguire. Noi abbiamo avuto la medesima chance tra l’inizio degli anni Settanta e primi anni Novanta del Novecento. All’epoca eravamo un beneficiario netto, ora invece, siamo un contribuente netto verso il bilancio della UE; nel 2017 abbiamo versato 12 miliardi ne abbiamo utilizzati solamente 9,8. Come abbiamo speso le notevoli risorse precedentemente ottenute e perché non riusciamo a presentare e realizzare progetti per quello che attualmente diamo?. La politica nazionale balbetta o non risponde. Cosi come non ha saputo modificare regole e comportamenti, ma -a contrario- ha generato instabilità e debolezza dei Governi pro-tempore in carica. La durata media è poco più di un anno, al di là delle declamazioni queste compagini governative sono inabilitate a condurre a termine processi riformatori complessi,la vicenda regionalistica docet. Per la cronaca oggi siamo al 66esimo esecutivo. La seconda causa invalidante, costantemente sottovalutata, è la resistenza passiva al limite del boicottaggio da parte degli apparati centrali oggetto di rottamazione o di semplificazione. Entrambe le cause sono un “di fatto” che non sta scritto nelle norme pubblicate in Gazzetta Ufficiale. Appena appare il testo “innovativo” esse entrano in campo e remano contro.

Una Repubblica federale, un’opzione radicale ma affatto nuova.

L’Autonomia Rafforzata è uno zombie che si trascina (trascinerà) da un palazzo governativo ad uno regionale e viceversa, con passaggi obbligati in parlamento e tempi almeno decennali in attesa dei decreti attuativi affinché si concluda. Già visto e sperimentato. Occorre un cambio di paradigma, una scelta radicale di riordino complessivo. L’opzione è quella di prefigurare la Repubblica Federale, unione di più stati. Ad ognuno di questi federati vanno riconosciuti i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario nei limiti previsti dalla costituzione.

L’idea non è nuova, risale al dibattito del tardo Ottocento dove si confrontarono tre visioni differenti. Quella testata da più di 150 anni di derivazione francese ed interpretata da casa Savoia e Mussolini, quindi rivisitata nel secondo dopoguerra con l’odierna costituzione. La seconda, quella di Mazzini imperniata nella repubblica unitaria con Roma capitale e diritti civili uguali per tutti ed infine, la terza, quella di Cattaneo che pensava ad una Repubblica Federale, basata sulle specificità regionali, quale tappa intermedia per arrivare agli Stati Uniti d’Europa.

Aggiornata ai nostri tempi, la Repubblica Federale può essere articolata in “macro-regioni” cosi come già supposto dagli studi della Fondazione Agnelli e/o nei disegni di legge depositati nella precorsa legislatura. Le materie di competenza federale sono quelle essenziali afferenti i servizi sociali, sanitari, civili nonché le infrastrutture e le reti materiali ed immateriali, in modo da garantire tutti i cittadini italiani indipendentemente dalla loro residenza. Per le funzioni nazionali, è prevedibile una riserva pari al 40% del gettito fiscale raccolto localmente; il restante rimarrà nelle disponibilità di ciascun Stato dell’Unione.

A macroregioni/stati forti, deve corrispondere un centro altrettanto robusto. In questa ipotesi, il Presidente della Repubblica è eletto direttamente dal popolo, nomina il governo e resta in carica 5 anni; la legge elettorale è quella a doppio turno (sistema francese). L’iter da seguire è quello suggerito da Umberto Bossi che -nei primi anni Novanta- chiese un’Assemblea Costituente per la rifondazione della Repubblica Italiana su nuove basi. I risultati della rinnovellata Costituente sono da sottoporre a referendum popolare.

Superata -forse- la fase più acuta dei populismi al potere, è bene tenere a mente che la Lega di Salvini è sempre attestata attorno al 30% dei consensi, capace di riprendersi la ri-vincita alle prossime consultazioni. Difficile pensare che per altri 30 anni il vincitore di turno cambi, ogni volta, le regole costituzionali e/o elettorali. È opportuno che il campo da gioco sia ri-definito una volta per tutte da players eletti dal popolo. In questo modo, ciascuna forza politica può riconoscersi in quanto ha contribuito a costruire -seppur in termini dialettici con il proprio avversario- regole condivise e digerite per il presente e per le prossime generazioni.

Enzo De Biasi