Attualità del pensiero politico di Luigi Sturzo (di Paolo Giaretta)

Comunicazione al convegno Popolarismo antidoto al populismo con padre Francesco Occhetta e Giovanni Ponchio. Padova, Centro Filippo Franceschi 16 novembre 2019

È pressoché impossibile riassumere in pochi minuti gli elementi principali del pensiero di Don Luigi Sturzo. Mi limiterò perciò ad evidenziare, usando anche le sue parole, alcuni aspetti che più intensamente ci richiamano all’attualità, fornendo una riserva di pensiero che ci può orientare anche nel presente. Cercherò di farlo consapevole che esistono diversi momenti della personalità di Sturzo: lo Sturzo costruttore di pensiero politico e leader politico, lo Sturzo condannato all’esilio, prima in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti, predicatore instancabile contro tutti i totalitarismi, infine lo Sturzo del dopoguerra, sostanzialmente emarginato contro la sua volontà da una attività politica per la quale si sentiva ancora portato ed alla quale si sentiva in grado di dare un contributo.

Spiriti liberi e forti per una nuova impresa politica

Conviene partire dalle parole iniziali dell’Appello ai liberi e forti, un documento di straordinaria attualità, fatta la tara degli aspetti più legati alla contingenza di quei tempi, per la precisione e la completezza con cui vengono indicati i problemi della vita nazionale e le possibili soluzioni.

A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini supremi della patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché insieme propugnino nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà”.

Un appello lanciato il 18 gennaio del 1919, centenario perciò, eppure lo sentiamo appunto di straordinaria attualità in questi tempi caratterizzati da un indebolimento di valori orientativi, da uno smarrimento di punti di riferimento: così l’appello invita ad una ostinata ricerca della libertà, tutta intera, fondata innanzitutto sulla libertà individuale, la virtù della fortezza, che pure per noi cristiani è una virtù cardinale che ci invita alla fermezza e alla costanza nella ricerca del bene, indica gli ideali di giustizia e libertà come strumenti della iniziativa politica.

L’appello costituiva l’atto di fondazione del Partito Popolare, la più alta creazione politica di Luigi Sturzo, frutto di un lavoro politico, intellettuale e organizzativo di più di un ventennio. E i risultati alle successive elezioni politiche del 1919 furono esaltanti. Il Partito Popolare, affrontando da solo una campagna elettorale difficile, segnata da atti di violenza estremistica in particolare da parte di esponenti massimalisti del Partito Socialista, raggiunse un risultato entusiasmante ed imprevisto, con il 20,6% dei voti, portando alla Camera 100 deputati.

I cattolici rientravano a pieno titolo nella vita pubblica della nazione, non in base ad accordi con i partiti tradizionali, come era avvenuto con il Patto Gentiloni, ma con un proprio partito ed un proprio programma. E infatti così pensava Luigi Sturzo: “la presente lotta che per il partito Popolare segna il suo entrare aperto e franco nella vita politica del nostro paese, deve essere per noi la prima affermazione di sincerità, di lealtà e di correttezza elettorale. Così solo si acquisisce il diritto ad essere e a farsi rispettare dagli avversari”.

Luigi Sturzo (1871-1959) si forma negli anni decisivi della scoperta della questione sociale sotto il pontificato di Leone XIII, con una mobilitazione delle energie presenti in un vasto mondo cattolico. Con le speranze e le passioni suscitate dalla enciclica leonina “Rerum Novarum”, sulle cose nuove che irrompevano nel mondo alla fine dell’800. Con parole coraggiose ed inequivoche: “…avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli ed indifesi in balia della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male una usura divoratrice …a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco meno che servile”.

È questo il contesto in cui si sviluppa l’azione politica e sociale di don Luigi Sturzo. Rispettando le disposizioni del non expedit si impegna nell’organizzazione sociale con la costituzione a Caltagirone di cooperative agricole, casse rurali, società operaie, sviluppando una forte coscienza meridionalista.

All’attività sociale si accompagna l’impegno delle amministrazioni locali: prosindaco di Caltagirone tra il 1905 e il 1920, vicepresidente dell’Associazione dei comuni italiani, e poi segretario della Giunta dell’Azione cattolica tra il 1915 ed il 1917, gli anni travagliati della guerra.

Un partito nuovo come esito di programma, radicamento sociale, capacità organizzativa

Il partito nuovo pensato da Sturzo nasce con un lavoro profondo nella società e con una visione e capacità interpretativa. Par le peuple, pour le peuple, dicevano i cattolici francesi. Dal basso, le radici, dall’alto, la chiave interpretativa.

Le idee chiare ed i punti di riferimento saldi sono già delineati da Luigi Sturzo nel discorso che tenne a Caltagirone il 24 dicembre del 1905 su “I problemi della vita nazionale dei cattolici italiani”, Era chiaro a Sturzo che l’ambizione che aveva animato il movimento sociale e politico dei cattolici sull’onda delle innovative affermazioni della Rerum Novarum per individuare un ordine civile ed economico che andasse oltre a quello capitalistico avrebbe richiesto di affrontare la questione della politica e dello Stato e perciò la discesa in campo di un partito politico animato dai cattolici con uno stile di piena laicità.

Afferma infatti Sturzo: “Ora io stimo che sia giunto il momento che i cattolici staccandosi dalle forme di una concezione pura clericale…si mettano al paro degli altri partiti nella vita nazionale, non come unici depositari della religione o come armata permanente delle autorità religiose che scendono in guerra guerreggiata ma come rappresentanti di una tendenza popolare nazionale, nello sviluppo del vivere civile…così cattolici o socialisti, liberali o anarchici, moderati o progressisti.

E per Sturzo doveva essere chiara la scelta di campo, non servivano equivoci raggruppamenti in nome di una astratta unità dei cattolici: “O sinceramente conservatori o sinceramente democratici; una condizione ibrida toglie consistenza di partito e confonde la personalità nostra con quella dei conservatori liberali…A me democratico autentico è inutile chiedere quali delle due tendenze politiche nel senso comune della parola io credo che risponda meglio a quegli ideali della rigenerazione della società in Cristo che è l’aspirazione ultima di tutto il nostro precorrere, agire, lottare. È chiaro che io stimo monca, inopportuna, che contrasta ai fatti, che rimorchia la Chiesa al carro dei liberali, la posizione di un partito cattolico conservatore e che io credo necessario un contenuto democratico del programma dei cattolici nella formazione di un partito nazionale

Non possiamo qui ripercorrere l’accidentato percorso che dovettero compiere i cattolici che si aprivano all’impegno politico nel primo decennio del ‘900, con la crisi del modernismo, le posizioni di chiusura di Pio X, fino al Patto Gentiloni, che nel 1913 cercava di dare una risposta ai problemi posti dall’enorme allargamento della base elettorale introdotto da Giolitti con il suffragio universale maschile. L’elettorato attivo passava da 3 a 8 milioni di votanti, con l’irrompere di masse elettorali nuove, con il rischio che l’impetuoso movimento socialista potesse avere il sopravvento. Si decise quindi di appoggiare quei candidati che esplicitamente sottoscrivessero i 7 punti di un documento, che riguardavano sostanzialmente la libertà religiosa, le politiche famigliari, l’istruzione cattolica, ecc. Era un compromesso, ma era un primo passo per segnare un più deciso ingresso dei cattolici nella vita dello Stato.

Sturzo non fu un sostenitore di questo compromesso. Lo avrebbe così giudicato in scritti successivi: “Il Patto Gentiloni, da me avversato nella qualità di consigliere dell’Unione elettorale cattolica fu come la lancia d’Achille della quale dice Dante…da un lato quel patto legò di più i cattolici alle consorterie clerico moderato, dall’altro sviluppò due reazioni: l’anticlericale e socialista e quella dei cattolici sociali”. Alle successive elezioni amministrative del 1914 scriveva ad un suo compagno di lotta politica: “contarsi una buona volta, anziché rimanere in un numero incerto ed equivoco”.

La legittimazione del ruolo civile dei cattolici con la Grande Guerra

Il turbine della Grande Guerra fu decisivo per una piena legittimazione dei cattolici nella vita pubblica. Nell’avvicinarsi alla guerra il mondo cattolico per la verità si divise. Da un lato per le correnti intransigenti fu l’occasione per riprendere le distanze da uno Stato mai interamente riconosciuto, che si proponeva di fare la guerra alla cattolicissima Austria. Dall’altro emersero le posizioni più opportunistiche, che non vedevano nell’eccitazione nazionalistica i danni che ne sarebbero derivati e sottovalutavano i sentimenti anticlericali e massonici che animavano una parte importante della classe dirigente italiana. E poi era largamente diffusa una corrente neutralista, con coraggio e con crescente determinazione rappresentata da Benedetto XV, fin dallo scoppio della guerra nel 1914 ammonitore dei disastri che sarebbero derivati dal “suicidio dell’Europa civile”, dalla «disonorante carneficina» dalla «tragedia dell’odio umano e dell’umana demenza».

Così ad esempio scriveva il combattivo Vescovo di Padova Luigi Pellizzo sul giornale cattolico “La Libertà” il 12 gennaio 1915: “essere condotti al macello della guerra non per i reali interessi della patria ma per il capriccio di quattro farabutti che riescono sempre a comandare dal fondo delle logge…È giunta l’ora di dare al nostro pensiero che si ispira ai principi della neutralità una forma più fattiva. Si agitano gli altri, agitiamoci anche noi! Si organizzano i guerrafondai e noi organizziamo gli amici della pace!”.

Una volta scoppiata la guerra però per i cattolici si pose il problema di far convivere due atteggiamenti: uno di fedeltà allo Stato ed allo sforzo che la patria stava compiendo e l’altro di divulgazione ed interpretazione dello sforzo neutralista della Santa Sede. E Sturzo che era il Segretario generale della Giunta dell’Azione Cattolica, insieme al padovano Della Torre che ne era il Presidente, dovette conciliare queste posizioni, pur essendo a lui ben presente, quale profondo conoscitore della realtà della nazione, le possibili conseguenze.

Per tutta la guerra il Vescovo di Padova ma anche gli altri vescovi del triveneto furono comunque diretti informatori del Papa sul reale andamento delle operazioni belliche e sulla tragedia che comportavano anche per la popolazione civile e ne alimentarono perciò la posizione neutralista.

I parroci furono la rete di resistenza sociale alle tragedie della guerra. Spesso il tramite tra i combattenti e le loro famiglie, i cappellani militari al fronte ed i parroci al paese. E dopo la disfatta di Caporetto, dopo lo sbandamento generale delle strutture militari e statuali i parroci furono l’unico presidio di difesa delle popolazioni civili. Scriveva allora un Parroco della bassa friulana: “Dove si sono rifugiati certi signori che avevano sempre gridato “Viva la Guerra”, è facile immaginarlo, sono scappati oltre il Piave”.

Fermissima è la posizione del Vescovo di Padova: i parroci restino qualsiasi cosa succeda: “il vero nostro patriottismo consiste non nel proclamarsi tali a parole ma nel fermarsi a compiere opere di carità e di assistenza al popolo che rimane abbandonato.” E aggiungeva: “Tutto l’amor patrio lo fanno consistere nel tricolore, nelle parole patria, patria, nel procurar noie ai cattolici e internamento a qualche sacerdote. Ma quanto a fatti di amor patrio verso queste vittime del loro amor patrio che sono i profughi non solo non aprono le borse per soccorrerli o i battenti dei loro portoni per accoglierli, ma fanno ricorso alle autorità per fare allontanare questi ospiti per essi troppo importuni, perché bisognosi di tutto”.

Ho fatto questa lunga digressione sulla presenza cattolica nelle vicende della Grande Guerra perché solo avendo presente questa nuova legittimazione dentro lo Stato si può comprendere il grande successo che ebbe poi l’intuizione di Luigi Sturzo con la nascita del Partito Popolare Italiano. I cattolici avevano combattuto al fronte, dimostrando la loro lealtà ad uno Stato che pure aveva di loro lungamente diffidato, avevano affiancato i comandi militari e le autorità civili nel gestire le autentiche sofferenze di un popolo, al fronte e nelle retrovie, erano stati la risorsa di virtù civiche e morali senza le quali il paese non avrebbe retto l’urto della guerra.

La nascita del Partito Popolare

I tempi erano perciò maturi. Nelle sere del 23 e 24 novembre del 1918 si riuniva nella sede dell’Unione Romana in via dell’Umiltà un gruppo di amici convocati da Don Sturzo, da quelle riunioni, una sorta di piccola costituente come fu definita, nacque l’Appello ai Liberi e Forti del successivo gennaio e la costituzione del partito Popolare. Tra i presenti c’erano tra gli altri il padovano Merlin, il veneziano Pesenti, il rodigino Belloni, il trevigiano Corazzin, il veronese Uberti.

Nasceva quel partito per il quale da 15 anni stava lavorando Don Sturzo. Scrive bene Gabriele De Rosa: “Il nome del Partito popolare italiano è associato indissolubilmente a quello di Luigi Sturzo. Non si potrebbe concepire tutto il decorso del popolarismo senza riferirsi alla figura dominante del sacerdote di Caltagirone, alla sua azione e al suo pensiero politico, alla sua spiritualità di cattolico integro e libero, alla sua geniale capacità di politico che seppe sintetizzare in una linea di invenzione politica originale le attese e le aspirazioni di quel cattolicesimo militante che si rifece, in qualche modo, alle esperienze della democrazia cristiana dell’età leoniana.”

La vita del Partito Popolare fu breve, e tribolata per Luigi Sturzo, che si vide politicamente tradito anche da amici fedeli. Il partito nato il 14 giugno del 1919 con il primo congresso di Bologna veniva sciolto dal governo fascista il 9 novembre del 1926.

Le prime battaglie parlamentari del nuovo partito furono in armonia con il programma presentato agli elettori per introdurre un sistema elettorale proporzionale, capace di far esprimere nella vita parlamentare le forze popolari che si erano affacciate alla vita della nazione e la lotta per la riforma agraria e la difesa della piccola proprietà contadina, il voto alle donne, la valorizzazione delle autonomie locali e sociali.

Sturzo un antifascista senza compromessi

Non è questa la sede per esaminare le vicende convulse di quegli anni che avrebbero aperto la strada all’avvento del fascismo, dai tentativi di Giolitti, alle ipotesi di collaborazione tra popolari e socialisti, alla presenza di popolari nel primo Governo Mussolini dopo la marcia su Roma, fino alla approvazione della legge Acerbo e le dimissioni da Segretario del Partito Popolare

Quello che possiamo dire è che Sturzo davvero tenne la barra dritta in nome della libertà. Aveva compreso pienamente prima di tanti altri in Italia, la natura del nascente fascismo e dove avrebbe portato la nazione. Così si oppose con energia alla partecipazione di esponenti popolari al primo governo Mussolini. Vi era l’illusione che una presenza moderatrice potesse essere utile a ricondurre il fascismo nell’alveo costituzionale. Era una illusione che presto dovette cadere con il delitto Matteotti ed il passaggio all’Aventino. Ma Sturzo fu messo in minoranza dal gruppo parlamentare che decise di tentare l’esperienza di governo. Così come Sturzo, come del resto De Gasperi, comprese a fondo l’utilizzo propagandistico che Mussolini avrebbe fatto del Concordato, valutando certamente l’importanza di chiudere giuridicamente la questione romana ma avendo presenti i danni che ne sarebbero derivati per la credibilità del mondo cattolico.

Nei confronti di Sturzo crebbero le minacce dei fascisti: il “prete sinistro”, “l’uomo nefasto che vuole mettere le forze rurali cattoliche come un macigno sulla via imperiale segnata dall’Italia”. Il discorso al congresso di Torino del 1923 viene giudicato un discorso “al primo congresso antifascista nel quale l’antifascismo sia stato rumorosamente ostentato”. Ma si va oltre le minacce politiche verbali: il giornale l’Impero scrive che dopo Matteotti toccherà a Sturzo. Il fascismo alternava il bastone alla carota: le violenze ripetute contro le organizzazioni cattoliche venivano derubricate ad episodi locali e con la Santa Sede si prospettava la soluzione della questione romana e la difesa dei preminenti interessi in materia di educazione scolastica, libertà religiosa, ecc. La figura sacerdotale di Sturzo rischiava di compromettere queste iniziative ecclesiali che preludevano alla trattativa per il Concordato, e Sturzo si vide costretto alle dimissioni da Segretario del partito per non compromettere il PPI, ma non bastò e Sturzo venne invitato dal cardinale Gasparri a lasciare l’Italia. Sturzo obbedisce, il 25 ottobre 1924, parte alla volta di Londra, vi si reca con passaporto vaticano, non vuole umiliarsi a chiederlo al governo fascista. Il soggiorno londinese si trasforma in esilio.

Di lì scrive nel 1926 una commovente lettera agli amici restati in Italia: “coloro che cercano ancora dei punti di contatto sul terreno politico e parlamentare con il fascismo fanno opera vana e negano di fatto i principi di libertà su cui è nato e solo può vivere il popolarismo. Se ancora vi sono è bene che il partito li lasci cadere, foglie secche di un albero ancora verde, che passa il suo inverno per preparare i succhi vitali della sua primavera…Nessuno sciupio di forze, nessuna mossa discutibile, nessun gesto inutile: il raccoglimento, lo studio, la preparazione. Essere innanzitutto sé stessi. Cioè rigidi assertori di libertà, aperti negatori del regime fascista, vigili scolte di moralità pubblica…L’esempio dei giorni aspri del primo Risorgimento deve farci convinti che nessuna forza armata o potere di principi e dittatori valgono a contenere la diffusione delle idee e a impedire che si affermino quando esse sono mature”.

Negli anni londinesi Sturzo conduce la sua battaglia antifascista sulle pagine di People and Freedom, si schiera nella guerra civile spagnola contro l’insurrezione dei generali, denuncia il pericolo del nazismo per la civiltà europea, condanna la debolezza delle democrazie di fronte alla politica aggressiva di Hitler, si impegna affinché la Santa Sede prenda posizione contro il conflitto imminente; sostiene la politica di Roosevelt di intervento nella guerra contro Hitler accanto alle armate sovietiche.

Scoppiata la seconda guerra mondiale, Sturzo è costretto ad abbandonare Londra per New York, dove arriva il 3 ottobre 1940. Nei sei anni di esilio americano fonda un’associazione di cattolici democratici, American People and Freedom. L’attività che lo impegna maggiormente è quella, raccomandatagli anche da De Gasperi, di convincere gli USA a distinguere fra fascismo e popolo italiano e impegnarsi per un trattato “senza umiliazioni e vessazioni”.

Sturzo nell’esilio mantiene una intransigente posizione antifascista, senza compromessi. È rimarchevole ad esempio l’intensissima corrispondenza che intrattiene con molti sacerdoti spagnoli, negli anni difficili dell’anticlericalismo ed in quelli altrettanto drammatici della guerra civile sanguinosa. È un corpus di centinaia di lettere in cui Sturzo cerca di indirizzare e sostenere i sacerdoti in quegli anni drammatici. Così resta un punto di riferimento per gli oppositori al fascismo. Tra i tanti episodi possiamo ricordare ciò che scrive nel suo diario la partigiana cattolica veneziana Ida D’Este, quando incarcerata e torturata dalla Banda Carità a Padova pensa se possa avere nella sua biblioteca documenti compromettenti e si ricorda della presenza degli scritti di Don Luigi Sturzo.

Gli anni dell’isolamento e delle speranze cadute

Caduto il fascismo il ritorno in Italia non è semplice. La salute non è buona e Sturzo non si sente desiderato. Gli sembra che la sua figura dia fastidio. Ne sono testimonianza scambi epistolari con Alcide De Gasperi non sempre sereni. Anche se vi sono aspetti commoventi nei rapporti tra due vecchi amici e combattenti antifascisti. Ad esempio vi è una lettera di De Gasperi a Sturzo dell’ottobre del 1945 intestata Ministro per gli affari esteri in cui De Gasperi lo ringrazia “specie per le due maglie perché ero male in arnese”. Questa era la classe politica che fece rinascere l’Italia dopa la vergogna nazifascista.

Sturzo pensa di avere ancora un servizio da svolgere per il paese. Ambienti vaticani e anche governativi tuttavia non vedono di buon occhio il ritorno. È una figura ingombrante. Viene prospettato a Sturzo un rientro defilato, adducendo motivi per la sua salute. Esiste il testo di una impetuosa telefonata di Sturzo a De Gasperi: “Non vengo per baciare i parenti, gli amici, la terra della mia patria, ma per servire il paese. Ma che Anzio, che Amalfi, sono pazzi, io devo essere in grado di lavorare per il mio paese”. Ha scritto Maria Romana De Gasperi: “Grande deva essere stata la sofferenza per quest’uomo che amava la patria e la Chiesa con eguale onestà e dedizione e per obbedienza rinunciava ancora una volta a tornare nella sua terra”.

Tornato in Italia solo nel 1946, Sturzo capisce che non c’è spazio per lui per una azione politica diretta, non entra a far parte della DC, pur mantenendo rapporti, non sempre facili, con i suoi maggiori esponenti. Si dedica ad un’intensa attività pubblicistica su importanti quotidiani nazionali per la ricostruzione ed il rafforzamento dello Stato democratico. Con giudizi severi su fenomeni di degenerazione che avverte nella vita democratica: un eccesso di partitocrazia, uno statalismo che avverte soffocante, il rischio di fenomeni corruttivi. Ad esempio si indigna per la proposta di creare l’Albo dei Giornalisti: vi vede una insorgenza della impostazione del corporativismo fascista e scrive: “i veri giornalisti si proteggono da sé, gli altri vadano a fare i ciabattini” Nello stesso tempo continua le battaglie all’origine della sua esperienza: è un fervente europeista, si batte contro l’accentramento statalista in difesa delle autonomie e di visioni regionaliste, per il valore della libera impresa.

Famoso un acceso scambio di lettere e di articoli nel 1954 tra Sturzo ed il Sindaco di Firenze La Pira: Sturzo vedeva in certi atteggiamenti del Sindaco una idea statalista che aveva combattuto nel fascismo: “Mi pare di sentire l’eco del motto mussoliniano “Tutto per lo Stato e nello Stato; nulla fuori sopra o contro lo Stato”. Questo io chiamo statalismo e contro questo dogma io voglio levare la mia voce senza stancarmi finché il Signore mi darà fiato”. La Pira replica “Caro e venerato don Sturzo: io non ho idee preconcette; sono come un medico: vedo la situazione concreta, insostenibile dei diecimila disoccupati della mia città”. E si invitano reciprocamente a pregare…

C’è in Sturzo l’amarezza di sentirsi ancora in grado di condurre delle battaglie politiche e di non poterlo fare. Ad esempio nel febbraio 1950 scrive a De Gasperi lamentandosi di vedere trascurate le sue idee in materia agricola: “Potrai ben comprendere tutta la mia amarezza nell’essere stato per tre anni inascoltato direi quasi deriso nelle mie insistenze…tu sei troppo generoso per avallare quel che si fa o non si fa in certe sfere

Il 17 dicembre 1952 Sturzo viene nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, e aderisce al Gruppo misto del Senato. Muore a Roma l’8 agosto 1959 all’età di 88 anni.

Ci resta una importante eredità di pensiero. Da valorizzare ed utilizzare per un orientamento nel presente. Perché ci sono lezioni anche per l’attualità politica.

Federalista e internazionalista

Sturzo è stato un impenitente federalista, convinto che il sistema delle autonomie dovesse essere l’ossatura del rinnovamento del vecchio stato liberale. Un federalismo solidale e cooperativo, espressione della ricchezza del capitale sociale delle comunità, uno strumento necessario per combattere la debolezza economica del Mezzogiorno. Se fosse qui, ricordando le sue battaglie contro ogni forma di statalismo, ci spiegherebbe con profondità di pensiero e di argomentazione perché il reddito di cittadinanza, costruito nel modo che vediamo, diventerà occasione di un ulteriore degrado del Mezzogiorno piuttosto che di un suo riscatto. Ancora le parole dell’Appello: “Ad uno Stato accentratore tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica e individuale, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno Stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i Comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private”. Il punto VI del programma: “VI – Libertà ed autonomia degli enti pubblici locali. Riconoscimento delle funzioni proprie del comune, della provincia e della regione, in relazione alle tradizioni della nazione e alle necessità di sviluppo della vita locale”.

Sturzo è stato un combattente contro le deviazioni nazionalistiche, a favore della crescita di una cooperazione internazionale, sostenendo ad esempio la creazione della Società delle Nazioni e nel dopoguerra un convinto sostenitore dell’idea europea. Richiamiamo le belle espressioni conclusive dell’appello ai liberi e forti: “a tutti gli uomini moralmente liberi e socialmente evoluti a quanti nell’amore alla patria sanno congiungere il giusto senso dei diritti e degli interessi nazionali con un sano internazionalismo…”. Internazionalismo contro ogni sovranismo, tentazioni che oggi ritornano dimenticando il dramma di due guerre mondiali, della guerra fredda e dei tanti conflitti locali tuttora generati da nazionalismi e sovranismi.

Popolarismo come antidoto al populismo

E naturalmente il popolarismo di Sturzo nulla ha a che fare con i populismi del presente. Come ha ricordato Maria Chiara Mattesini in un recente convegno dell’Istituto Sturzo per Sturzo il popolo non è una massa amorfa e non è una massa arrabbiata mossa solo dalle passioni. Il popolo è una cittadinanza critica e la democrazia è partecipazione associativa ed individuale, il popolo è sovrano, ma sono sovrani anche il Parlamento, le autonomie, le libere forme sociali. Scrive Sturzo: “Il popolo stesso è limitato nella sua azione di autogoverno e a sua volta limita i suoi rappresentanti al potere…il principio saldo è che la democrazia è limite essa stessa alla volontà popolare”.

La buona politica: tensione etica, riferimenti valoriali, competenza

Verso la fine della sua lunga vita nel 1956 Sturzo riandando al senso delle proprie lotte ci lascia una testimonianza che è quasi un testamento morale: “C’è chi pensa che la politica sia un’arte che si apprende senza preparazione, si esercita senza competenze, si attua con furberia. E anche opinione diffusa che alla politica non si applichi la morale comune, e si parla spesso di due morali, quella dei rapporti privati, e l’altra (che non sarebbe morale né moralizzabile) della vita pubblica. Ma la mia esperienza, lunga e penosa, mi fa concepire la politica come statura di eticità, ispirata all’amore del prossimo, resa nobile dalla finalità del bene comune”.

Non è la predica estratta di un anziano maestro. E’ una testimonianza di vita, perché tutta l’esperienza politica di Sturzo fu la pratica di questi indirizzi: una profonda spiritualità per alimentare la forza d’animo necessaria nella lotta politica, lo studio accurato dei problemi e la preparazione specifica come prerequisito per l’azione pubblica, il rigore morale come regola, e fu l’allentamento di questo rigore nella vita pubblica italiana che amareggiò gli ultimi anni della sua vita.

Un maestro davvero, perciò. A cui ricorrere ancora per un orientamento nel presente, capace di costruire il necessario futuro.