“Acqua grande” e grande scandalo (tutto veneto)

La denuncia dell’ex sindaco Paolo Costa ed una testimonianza dai luoghi del dolore.

Dopo il recente shock che ha colpito Venezia sono state molte le reazioni ed è evidente come il problema abbia assunto la sua fisionomia completa. I giornali, le TV, i social sono pieni di tutto: immagini, impressioni, interviste, pareri, e anche di immancabili haters in rappresentanza della feccia umana.

Pubblichiamo a nostra volta due commenti comparsi sul “Corriere del Veneto” del 12 novembre, il primo dell’ex sindaco Paolo Costa, il secondo di Giovanni Montanaro.

Chi (non) decide (di Paolo Costa)

Nell’ autunno 1997 piogge torrenziali avevano ingrossato il Brenta-Bacchiglione innescando onde di piena che promettevano esondazioni disastrose. Eventi di fronte ai quali l’ingegner Felice Setaro, Presidente mitico del Magistrato alle acque di Venezia, telefonava al sottoscritto, all’epoca ministro dei Lavori Pubblici del nostro sfortunato Paese, informandolo della sua intenzione.

l’intenzione quella era di far rompere gli argini del fiume mandando sott’acqua alcuni comuni per evitare danni più gravi in comuni più a valle. Una decisione che – Setaro ne era consapevole – lo avrebbe portato a doversi giustificare davanti alla magistratura, «come altre 17 volte», come orgogliosamente ripeteva, uscendone ancora una volta assolto e pubblicamente lodato.

Ci sarebbe voluto un Setaro anche ieri a Venezia quando si andava profilando il disastro di un’altra «acqua granda». Un Setaro dotato però, ora come allora, dei poteri derivanti da un contesto giuridico istituzionale che non c’è più e confortato da una catena di comando che, su Venezia, si è dissolta da tempo. Il Setaro 2019 avrebbe semplicemente ordinato di sollevare le paratoie del Mose. Con tutte le cautele del caso, sollevandole tutte o solo in parte, solo alla bocca di san Nicolò o a quella di Chioggia, ma ringhiando a chi dal Consorzio Venezia Nuova, oggi sotto tutela dell’ANAC (Agenzia Nazionale Anti Corruzione) gli avesse opposto la mancanza di collaudo o la necessità di completare l’opera prima di definirne la responsabilità di gestione.

Non è accettabile che un’opera che è costata a Venezia e all’Italia montagne di reputazione, soldi, disagi e sacrifici di ogni genere non sia stata usata nel solo giorno nel quale nessuno avrebbe potuto disconoscerne l’utilità. Ma il 12 novembre 2019 il Provveditore alle Opere Pubbliche del Veneto, che sulla carta, e solo sulla carta, ha rimpiazzato dal 2014 il Presidente del Magistrato alle acque, non c’era, perché attende di essere nominato da mesi; così come da mesi è attesa la nomina del Commissario Governativo che a norma della legge pomposamente definita «sbloccacantieri» dovrebbe far completare il restante 5% dei lavori e risolvere il problema della gestione. Ma il tragico della situazione è che se anche il Provveditore-Magistrato alle acque ci fosse stato non avrebbe avuto i poteri di decidere, visto che le competenze sulla laguna sono passate dal 2014 alla Città Metropolitana di Venezia. Pardon, passate solo sulla carta, perché sono cinque anni che si attende il necessario decreto di attuazione. Forse avrebbe potuto chiedere ed ottenere il via libera dal ministro delle Infrastrutture o ancor più chiaramente, a norma della legge speciale su Venezia, direttamente dal Presidente del Consiglio, il garante sommo – in quanto presidente del Comitatone – della salvaguardia di Venezia, ma si sarebbe accorto che quella catena di comando che rispondeva al mondo del bene culturale Venezia è stata rottamata da tempo: da quanti anni un Presidente del Consiglio non presiede personalmente un Comitatone? Avrebbe forse potuto rivolgersi alla Regione del Veneto, ma anche questa è al momento interessata alla salvaguardia di Venezia da contendere alla Città Metropolitana più per fame di competenze da sventolare sull’altare dell’autonomia differenziata che da esercitare. Non sarebbe rimasto che il povero sindaco di Venezia che ha passato la notte a rincuorare i suoi cittadini, ma non potendo ancora mostrare loro il potere sulla laguna , che invece dovrebbe avere dal 2014 come Sindaco metropolitano.

L’acqua alta eccezionale ha colpito Venezia, Chioggia e la laguna il 12 novembre 2019 per conclamata ignavia politico burocratica. Un pericolo che senza uno scatto d’orgoglio e responsabilità può rischiare di colpirle ancora a lungo.

Moby Dick e quell’acqua cattiva (di Giovanni Montanaro)

I 194 centimetri sono il picco del 4 novembre 1966, l’acqua «granda», evento leggendario. È la tragedia che ha cambiato Venezia, che l’ha resa una città eccezionale, un «problema» di salvaguardia. Che ne ha alterato il paradigma di progresso novecentesco. Che ha contribuito a spopolarla, limitando l’abitabilità dei pianterreni. 194 è una soglia mai più sfiorata, prima o dopo, nelle misurazioni effettuate dal Novecento. Al massimo, si erano raggiunti 166 centimetri, mentre altre maree si erano fermate intorno ai 150, gravissime ma non apocalittiche. Trenta, quaranta centimetri in meno di quel limite anche psicologico, le colonne d’Ercole, quell’altezza che dopo cinquant’anni ancora si vede sui fianchi di alcuni palazzi, il resto scuro di quell’acqua. C’è una cosa da precisare, anche se forse è evidente. Quando si parla dell’altezza della marea si parla sul medio mare. Non c’è posto dove l’altezza che si incontra corrisponde alla misura segnalata. Per capire quanta acqua si affronta camminando, si devono sottrarre dagli ottanta centimetri al metro, metro e trenta. Venezia è diseguale, le zone più antiche sono più basse, come San Marco. Il punto è che ognuno conosce le sue soglie, sa quando l’acqua entrerà in casa, quando sfiorerà i tavolini del bar, la lavatrice nello sgabuzzino, gli sci in magazzino. E spesso è questione di centimetri, di attese, di faticosi preparativi talvolta inutili, perché a quell’acqua non puoi farci niente, ed è salata, rovina tutto. Martedì si annunciava un evento eccezionale, si era preparati ai 150 cm. Poi, improvvisa e forse imprevedibile, l’acqua ha continuato, come fosse un cane ad abbaiare. Non l’avevo mai vista così. Nei suoi disagi, nei suoi drammi, l’acqua ha spesso qualcosa di magico, poetico. È un sussurro, la memoria di una fragilità, di un’origine, di una vita umida, così veneziana, così umana. Di solito, è diversa dal maltempo minaccioso, dalle esondazioni, da Vaia e dai tornadi. Martedì no. Martedì l’acqua era cattiva, il vento a cento chilometri orari, raffiche, graffi. A piazzale Roma volavano rami, pezzi di carta, vetrine di metallo, sopra il ponte di Calatrava bisognava accucciarsi, il vento ti portava via gli occhiali. Era la tempesta di Forrest Gump, la spinta di Moby Dick. E l’acqua era dappertutto. Altissima. E continuava a crescere, velocissima. Vaporetti sui palazzi, taxi dentro le calli, botti a galleggiare con l’immondizia, paratie scavalcate o portate vie. Sono corso dai miei genitori, stava entrando al pianterreno, dove non era mai entrata prima. Abbiamo spostato i libri messi dabbasso, le scarpe, le cose che potevano rovinarsi. Mancava poco a passare un gradino interno. L’acqua fa paura. Perché ogni tanto si toglie dalle regole, fa quel che vuole. Continuavamo ad aprire la porta, per capire se l’acqua stesse salendo o scendendo. Si vede subito, la direzione, verso di te o i canali. Saliva. Saliva ancora.

«Sono almeno centottanta» ha detto mio padre, che c’era nel 1966, quell’acqua che non se ne andava mai, che per questo è rimasta impressa perfino nel marmo. In questi casi c’è poco da fare. Non si esce se non c’è qualcuno più in difficoltà di te. Si spostano le cose. Si telefona. «Il magazzino è andato sotto, vedremo domani», «il frigorifero sarà da buttare», «gli sarà arrivata fino al letto». A un certo punto è saltata la luce. La stanchezza fa piangere, l’adrenalina fa ridere. E si apre la porta, continuamente. Si aspetta un segno. Sei ore sale, sei ore scende la marea. «L’acqua è ferma» si tace per scaramanzia, perché l’acqua é un serpente, potrebbe fingere durante il combattimento. Anche in questa notte imprevedibile, dolorosa, a un certo punto, però, le foglie che erano entrate dal giardino hanno cominciato a premere contro la porta, e l’acqua ha cominciato ad andare. 187 centimetri; impensabile, e invece ogni misura è possibile. 194 non era l’eccezione irripetibile. Sono rientrato verso San Giacomo, verso casa mia. Lì non ho problemi. C’è Giulia, era preoccupata, è a Venezia da due anni ma si diventa veneziani anche così, di colpo, con questo battesimo sporco. Le calli colme, buio, freddo, attenti a non avvicinarsi alla riva, a non cadere in acqua, a non passare da Melville a Fantozzi. Case illuminate, tutti si salutano, ci si chiede se si ha bisogno, il peggio è passato, è la tregua. Qualche turista in ammollo, incredulo. Mai visti, occhi così. Occhi impauriti, che mica se ne è andata per sempre; le previsioni del giorno dopo sono infauste. C’è però anche uno scatto, uno scatto bello, dell’anima, a sentirsi uniti, a sentirsi ancora una città, una comunità, a darsi una mano. Ci dovrà esser tempo per le polemiche, per la vergogna del Mose, per discutere se sia normale tutto questo, o se stiamo cambiando il clima, distruggendoci a pezzi. Ci dovranno essere soldi, per risarcire chi ha perso tanto, tutto. Ci dovrà esser tempo per Venezia, che ha problemi ulteriori rispetto all’acqua, e che non va solo conservata, ma anche fatta rinascere, con le persone, i progetti. Che non è perduta. Ma oggi c’è poco da dire. Ci sono troppe cose da buttare, da lavare, da salvare.